“Secce e pisille” a Roma in via della Vite
di ENZO LA VERGHETTA
Non solo una serata fra amici ma un’immersione nelle radici attraverso un piatto di seppie con i piselli.
Secce e pisille è il piatto della nostra vastesità, un’immersione in quello che le nostre mamme ci preparavano quando tornavamo a casa. Prima di sederti a tavola, fra l’affetto e il rimprovero, con aria di complicità ci annunciavano: “quesse a Roma ne li megne” (questo a Roma non lo mangi).
L’episodio è l'occasione per ricordare i sarti vastesi a Roma ambiente cui sono profondamente legato per le mie origini.E’ una parentesi ormai chiusa.
Siamo negli anni ’70 in cui le sartorie romane di livello medio alto, ancora resistevano all’assalto del prodotto industriale. Merito di una professionalità e una maestria maturata negli anni formata nelle botteghe di piccoli paesi del meridione e poi perfezionata nelle sartorie della capitale.
Già negli anni ‘50 e nei primi anni ‘60, molti giovani sarti erano approdati a Roma prima di aprire bottega e mettersi in proprio, venivano a frequentare “l'università della sartoria”. Un paio d’anni di perfezionamento presso una sartoria di prestigio, e poi tornare a casa e aprire una bottega. Per alcuni invece il paese d’origine divenne troppo stretto per la ambizioni che stavano maturando. Altri furono rapiti da una ciumachella, e si fermarono nella capitale per aprire una loro sartoria.
Anche da Vasto partirono questi giovani artigiani e qualcuno si fermò per la grande avventura.
Questo episodio è dedicato ad alcuni di loro a cui sono legato per un’amicizia nata attraverso i miei genitori e proseguita poi nella capitale. Anche se più giovane, sono cresciuto con loro, quando transitarono come apprendisti nella bottega di mio padre “Mastre Gine lu sartore”, prima che prendessero il biglietto di sola andata per Roma.
Il loro è stato un percorso duro e faticoso. Partire da zero, in un ambiente che stavano appena conoscendo. Finito l’apprendistato romano, iniziavano la trafila da indipendenti. Il primo passo era affittare presso una sartoria, quello che in gergo veniva chiamato un “bancone”. La possibilità di usare le attrezzature e la sala prove. Chi poteva affittava per avere maggiore autonomia una stanza sempre presso una sartoria.
Si iniziava con le modifiche da apportare ad abiti confezionati. Ci si presentava ad un negozio prestigioso di abbigliamento (tessuti e confezioni), proponendosi per riadattare il capo di vestiario al fisico e al gusto del cliente, spaziando dall’accorciare i pantaloni alle modifiche dell’abito per adattarlo alle richieste del cliente finale. Era importante fornire oltre alla qualità anche la tempestività della consegna, il cliente per definizione aveva fretta e non assicurare una tempestiva disponibilità poteva comportare la perdita della vendita. Il tempo per il ritiro e la consegna del campo aveva il suo peso, fondamentale era l’ubicazione del laboratorio per assicurare il pronto intervento. Gioco forza bisognava risiedere in centro vicino ai negozi di riferimento.Non rari erano i casi in cui lo stesso commesso si recava a piedi nella sartoria con il capo da sistemare e restava fino a lavoro eseguito.
Molti di questi negozi, ora praticamente scomparsi, offrivano alla clientela il tessuto e volendo il confezionamento del capo. Il negoziante e il commesso, che aveva spesso il ruolo da consulente, di cui si era guadagnato la fiducia, proponevano al cliente finale,titubante per il costo ritenuto eccessivo,suggerivano: “se vuole risparmiare qualcosa, conosco un buon sarto di fiducia”. Questo era il preludio all'indipendenza ed all'affermazione professionale, il cliente soddisfatto veniva così acquisito e iniziava il passa parola. Nella moda la forma è anche sostanza e l'ubicazionee l’arredamento qualificavano la sartoria. L’avere il laboratorio in una strada e palazzo di prestigio è indispensabile per servire una determinata tipologia di clientela. “Vado in centro dal mio sarto” fa molto cult, e questo è compreso nel prezzo. Il cliente deve essere offerto un ambiente adeguato che lo faccia sentire a suo agio con la giusta illuminazione per la scelta della stoffa nell’ampi campionari di marche prestigiose. Un divano dove si può accomodare anche insieme alla sua accompagnatrice durante le prove, un ampio specchio dove controllare il vestito. Un rituale dove ogni desiderio deve trovare il giusto riscontro, in particolare se dettati da chi è presente.
Il mio luogo di riferimento è la sartoria di Antonio Irace in via della Vite, angolo via del Gambero, il punto di arrivo di un tragitto sofferto. Antonio, apprende il mestiere dallo zio Gino, poi fatto il militare inizia la sua avventura romana. Anche lui percorre i passaggi descritti.Da un piccolo laboratori all’ultimo piano di via del gambero al primo piano di un palazzo di prestigio, indicato, di proprietà come molti palazzi del centro della Propaganda Fide.
Il laboratorio è stato il mio costante punto di riferimento durante il periodo militare, da scapolo e da sposato.
Non era solo un’affermata sartoria, ma anche il ritrovo degli artigiani vastesi. Quasi una tappa obbligata, per chi passava da quelle parti, fermarsi cinque minuti per due chiacchiere.
Alcuni venerdì, terminato l’orario di lavoro, ci si ritrovava per una chiacchiera e, perché no, un “asinuccio”, gioco tipico con le carte napoletane, fra amici. Il nucleo di base era formato da: Tonino, il titolare; Peppino, barbiere a via dell’Orso (Palazzo della Scimmia); Giovanni, sarto prestato alle Poste; Angelo, sarto in via delle Quattro Fontane/piazza Barberini. Ed io. Talvolta si aggregava qualche amico, vastese doc. Un’occasione da non perdere, un’occasione per scherzare, “rifregarsi”(prendersi in giro), in un vastese condito con un po’ di romanesco. Un’ambasciata dell’artigianato vastese, a cui io partecipavo per meriti paterni. Tonino e Vincenzo erano stati allievi di Mastro Gino, mio padre.
Una sera fra una smazzata e l’altra nasce una proposta: «ma che ne dite di “nu ciambott Wuastarole”(una cena vastese) per rinverdire i vecchi sapori?». Un sì unanime.
Come fare con una cucina a 300 chilometri? Nessun problema, un sistema collaudato da anni. Già dal periodo militare, un anno a Roma, e poi successivamente quando rientrai da impiegato, c’era “le borse Tirreno Adriatica”. Mi recavo all’agenzia romana delle autolinee di Fonzo che collegano giornalmente Vasto con Roma, che utilizzavo anche per rientrare a casa, e depositavo una borsa con la biancheria utilizzata e ritiravo quella con la biancheria lavata e stirata da mamma. Papà la mattina successiva andava a ritirare la borsa al capolinea. Della serie: “chi tiene i genitori nun chiagne mai”.
Un sistema collaudato da utilizzare anche in questo caso.
Viene subito coinvolta Mamma Fausta, a cui non pare vero di intervenire per assicurare un cibo genuino per il figlio e per gli amici di sempre. Mastro Gino parte in missione a recuperare la materia prima. Una giornata in cucina per le “secce ripiene”, per tutti. Il prezioso carico, con mille precauzioni e raccomandazioni viene caricato sull’autobus di Di Fonzo. Al suo arrivo, all’agenzia adiacente la stazione Termini, viene prelevato e portato a destinazione in attesa dell’ora fatidica, mentre il laboratorio, incomincia a essere inondato da un profumino a cui è sempre più difficile resistere.
Finalmente arriva l’ora di chiusura, tutti sono presenti e si possono iniziare i preparativi.
Tutti i commensali collaborano ad allestire il tavolo e ad allontanare stoffe e attrezzi di lavoro per eliminare i rischi di macchie. La festa può iniziare.
Si aprono i contenitori ben sigillati, è un bel vedere che fa pregustare e sperare nel risultato. Si ritorna un po’ ragazzi, e da buoni ma attenti amici si puntano i piatti propri e altrui. Mi raccomando porzioni uguali per tutti, non si concedono favoritismi. Pane casareccio e vino dei Castelli completano e allietano la serata. I commenti sono tanti e tutti benevoli verso la cuoca, e partono le scarpette a ripetizione, alla fine i piatti sembrano intonsi.
Saranno i sapori e/o i bicchieri svuotati, ma l’amarcord della cucina tradizionale vastese va a gogò. Riesumazione di sapori, che ormai sono solo storia per il decadimento delle materie prime e la progressiva perdita della professionalità in cucina. E non possono mancare “fattarille e pettilazzerie” (fatti e pettegolezzi) degli anni vastesi di tutti noi. Una serata fra amici, con un po’ di nostalgia e di qualche rimpianto passeggero, per chi anni prima ha scelto Roma.
Un avvenimento di cui si è continuato a parlare per un lungo periodo.
La sartoria Irace ha chiuso da alcuni anni, oggi al suo posto c’è un centro medico, Antonio non è più fra noi, Peppino e Vincenzo chiusa l’attività lavorativa sono rientrati a Vasto alla loro “terra d'éure” (terra d’oro) come la definisce una canzone locale. Ora quando passo per via del Gambero, l’occhio automaticamente va verso il balcone della ex sartoria. In quel momento mi accorgo di aver perso un pezzo di me, e della mia storia In quella sartoria dove ho trascorso ore di serenità e di vera amicizia, durante la leva militare, quando ero di servizio nella caserma di S. Lorenzo in Lucina, da scapolo, passavo prima di tornare a casa. Poi è diventato il rifermento nelle incursioni in centro con mia moglie e mia figlia.
L’episodio è stato lo spunto per ricordare questi giovani sarti partiti armati di un ago che sono andati alla conquista del loro futuro ma hanno sempre avuto nel cuore:
“Uastebbelle, terra d’eure. Vasto è bella e terra d’oro
Nott’e jurne penz’a ttaje Notte e giorno penso a te
E j prima che mme meure E prima che muoio
Te vuless arevedaje” Ti vorrei rivedere
Un ago per ricordare
La foto rappresenta il monumento che New York ha voluto, per omaggiare i benefici che la moda porta alla città. Non potevo rimanere indifferente davanti a questo monumento, che per me riveste un significato particolare.
I sacrifici di mio padre, Luigi La Verghetta, un sarto, che con un ago ha costruito il futuro della nostra famiglia.
Dopo tanti anni dalla sua scomparsa forse pochi lo ricordano, ma quei pochi mi fanno sentire sempre più orgoglioso di essere suo figlio. Chi l’ha conosciuto non fa che raccontarmi la sua dirittura morale, la generosità e quel suo modo discreto di proporsi, la conclusione è sempre “era un signore nello spirito e nei gesti”.
La comunità di sant’Anna comprendeva non solo abitazioni ma anche botteghe con mestieri ormai scomparsi. Anche mio padre, chiamato affettuosamente Mastre Gine lu sartore, è stato uno degli artigiani di via sant’Anna. Da ragazzo, dalla natia Canale con i suoi fratelli vi si era trasferito per l’apprendistato. Poi, dopo una parentesi in corso Nuova Italia, vi era tornato.
Mastre Gine lu sartore, per oltre cinquant’anni, ha svolto la sua attività di sarto o meglio di “architetto dei tessuti”, come amava definire la sua professione. Da ragazzo aveva frequentato la sartoria di mastro Arturo Di Lena, e poi si era trasferito temporaneamente a Roma per completare ilsuo apprendistato. Era consuetudine per molti artigiani vastesi, infatti, prima di aprire una bottega in proprio, passare un periodo di perfezionamento in una grande città, presso un famoso artigiano: possiamo considerarlo un “corso di laurea per artigiani”. La sua grande passione, che condivideva con il fratello Vincenzo, era la musica. Mentre imparavano un mestiere, e anche in seguito, coltivavano questa passione.
Con il nipote Peppino, prematuramente scomparso, erano fra i membri della banda della Città del Vasto, sassofono, tromba e clarinetto. Era il periodo in cui Vasto, come si diceva in giro, aveva: “un Minestrone, uno Squadrone e un Bandone”. Tutto finito?
Negli anni successivi era facile trovarlo, durante le feste patronali, nei pressi della “casciarmonica”, a solfeggiare le esibizioni dei suoi nuovi colleghi.
Ma, soprattutto, è rimasto nei cuori dei suoi “lavoranti”, che continuano a testimoniarmi di non aver dimenticato il loro maestro: oltre al mestiere, aveva dato un esempio di vita e di rettitudine da seguire.
Fra i suoi allievi, Antonio Irace, il nipote. La sua sartoria in via della Vite ha annoverato fra i clienti illustri politici, giornalisti e professionisti. Oltre ad essere spesso un punto di incontro per una rimpatriata dei sarti vastesi a Roma.
Aveva risorse anche per altre collaborazioni: nei fine anni ‘50 l’ingresso al cinema costava 100 lire che non erano sempre alla nostra portata. Fortunatamente Mastre Gine ci veniva incontro. “Riporta il vestito al cliente che qualcosa rimedi.” Una mancia, non sempre sufficiente per il cinema, ma sempre utile. Il cliente più ambito era il capostazione Del Casale, padre dell’attuale generale, una garanzia, 100 lire assicurate, ma lì bisognava rispettare i turni per un problema di equità.
ENZO LA VERGHETTA
1 commento:
ERRONEAMENTE HO INVIATO ANCHE UN SECONDO FILE CHE PARLA DI MIO PADRE.
PARLIAMO SEMPRE DI SARTI, SPERO CHE SIA GRADITO A CHI L'HA CONOSCIUTO.
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