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Nicola Palizzi, Veduta di Vasto, 1853 (collezione Stefano D'Adamo) |
Quella veduta di Vasto
ritrovata
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N. Palizzi, particolare |
Un
affocato meriggio estivo del 1853 [fig. 1, sopra]. La cinta urbica che riluce verso l’occaso
e le ombre lunghe proiettate verso l’oriente suggeriscono il senso di un giorno
ormai declinante.
Il ritorno a cavallo del signore e della signora dalla
passeggiata al casino di campagna, la teoria dei domestici a piedi che li
accompagna con la governante che introduce al piccolo corteo, due contadine
andiniere (con il significato di
“aprifila”), un gruppo di
codacchieri
(con il valore semantico di “serrafila”) animano il paesaggio umano disposto
lungo il perimetro in muratura di villa Genova. La moltitudine dislocata lungo
la
vianova del Largo del Castello che
rientra nella città ormai quasi interamente priva della Porta urbana segna in
modo inequivocabile la prossimità dell’ormai avvolgente sera.
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N. Palizzi, barche appaiate, particolare |
Sullo sfondo
della tela, la
skyline del mare
congrega su di sé le tante coppie di barche a paro (appaiate) – le cosiddette
paranze – che attendono solo il rientro
nella proda per il riposo dei
paroni
e dei pescatori. Sulla destra dell’olio, in campo lunghissimo, un prete
capitolare discute con un popolano (lontana eco tematica, forse, degli
acquerelli realizzati da Gioacchino Vassetta nel 1807 per la cosiddetta
Platea Tambelli, un cabreo dell’omonima
famiglia baronale). Quasi non bastasse, in una lontananza ancora più remota,
donne di città danno mangime a galline che razzolano sul prato.
Che cosa
dire, poi, dei due soggetti allocati sul rivellino esterno di Torre Bacchetta?
(ma più che di torre, dovremmo parlare di torri appaiate. Mai vista un’immagine
di questo tipo, tra l’altro non registrata nelle due antiche piante conosciute
della città). E dell’ombra che, a mo’ di
shifter
didattico, segnala l’avvenuta apertura dell’ingresso al largo di S. Chiara
ricavato dallo sfondamento della cinta muraria? Per la verità, le informazioni
possedute non consentono di discutere su tali argomenti. Mi sono limitato a
svolgere solo alcune considerazioni
en
passant sulla Veduta di Vasto, opera che Nicola Palizzi realizza a 33 anni
(essendo nato nel 1820), per la prima volta esposta in città nel 2013 presso il
Piccolo Circolo Garibaldino, grazie
all’interessamento di Francescopaolo D’Adamo e alla disponibilità del suo
attuale proprietario, Stefano D’Adamo.
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Nicola Palizzi, Chiesa di San Giuseppe a Vasto, 1853. |
Certo, di
fronte a quest’opera vien subito dato di pensare all’altra di Nicola Palizzi
sempre del 1853 dal titolo
Chiesa di San
Giuseppe a Vasto (donata alla Pinacoteca Civica di
Vasto nel 1957 da Giovanni Castelli, ma oggi di fatto
irreperibile). Purtroppo di quella
conosciamo solo
una fotografia in B/N
[fig.2
] e, dunque, non comparabile
con l’originale di cui qui si parla. Si può solo osservare
che il 1853 è un anno che vede la
presenza di
Nicola in città. Non
solo. Ma che il dipinto sull’attuale
concattedrale
di San Giuseppe definisce lo stato
del
tempio prima dell’avvio dei lavori (con atto di
notar Vincenzo Marchesani del 21 aprile 1853) che
avrebbero incorporato la Cappella della
Confraternita della Carità e della morte
nel contesto della nuova
struttura
architettonica. Ignoro le ragioni della committenza di questi due olii (sempre
che vi siano stati committenti. A ogni buon conto, risulta difficile poter
pensare il contrario, non foss’altro perché le pitture sono due – come già
detto, realizzate sempre nello stesso periodo – e, dunque, possibili elementi
di un discorso più ampio sulla figurazione della città). Fino a quel momento, l’unica rappresentazione
cògnita di Vasto – escludendo quella icnografica “a volo d’uccello” del 1793 e
quelle di altri eventuali cabrei – risulta il dipinto di Filippo Molino
litografato per «Il Poliorama pittoresco» riusato dal futuro arcidiacono
Giacomo Tommasi nella
Pianta di Vasto
da lui stesso ridotta in scala e litografata per accompagnare la
Storia di Vasto (1838-1841) del cugino
Luigi Marchesani. E qui, di scorcio, va ricordato che, a differenza di Molino
(che pone il punto focale nell’incantato giardino con dama di Villa Genova),
Nicola Palizzi coglie l’angolo visuale proprio dal casino di campagna del dr.
Luigi Marchesani all’Aragona. Va da sé che, in tale ambito, viene da escludere
ogni riferimento alla
Veduta di Vasto di
Gabriele Smargiassi,
oggi conservata
presso la
Pinacoteca Civica della città. La piccola tela, infatti,
veniva forse realizzata a Londra nel
1831, «a memoria» (o sarebbe meglio dire, su precedenti schizzi),
e non
de visu, dall’artista durante una pausa inglese
nel suo lungo soggiorno parigino (1827-1837) per
farne omaggio a Gabriele Rossetti,
l’illustre conterraneo
esule nella
capitale britannica. L’olio rimaneva
custodito
da William Michael Rossetti e dai suoi
eredi
fino al 1926, anno in cui Olivia Rossetti Agresti
se ne sarebbe privato per donarlo al comune natale
del nonno. Dunque, Nicola Palizzi non
aveva avuto
in nessun caso la
possibilità di vederlo, anche perché
solo
nel 1856 il pittore si sarebbe recato a Parigi
presso il fratello Giuseppe. Come si può notare,
l’archetipo smargiassiano risulta
sostanzialmente
estraneo alla
costruzione iconologica della
forma urbis.
L’unica
traditio restituibile è
quella che vede la sequenza Filippo Molino (1837), Nicola Palizzi (1853), Elia
di Giacomo Leone (1860). Ora, a proposito
della tela di Smargiassi, torna utile soffermarsi
su di un fatto. La Rossetti Agresti la cede mentre
comincia a intrattenere rapporti
amicali e epistolari
con Ezra Pound,
il grande autore dei
Cantos che
suggeriva ancora una volta
l’interpretazione esoterica
di Dante
(sull’argomento cfr. D. Tryphonopoulos
,
Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos,
Roma, Edizioni Mediterranee, 1998). Così, se da un
lato la Rossetti Agresti con la
cessione dell’ultima
traccia del
nonno presente nella sua casa spezzava
fisicamente
i legami con l’opera di Gabriele, dall’altro
dava avvio a un nuovo percorso ermeneutico
che tornava a rileggere sempre nella stessa chiave l’inattingibile
mysterium della
Comedìa.
Comedìa, si diceva. Ma nel caso del dipinto di Nicola
Palizzi, non divina, ma umana. Nei fatti, la comedìa umana di una città del Regno delle Due Sicilie in una
giornata qualsiasi di una torrida estate; la contaminatio, in un’unica tela, dei diversi rapporti
antropologico-sociali tra gli abitanti, suoi concittadini. Nulla di più. Ma
anche nulla di meno. E pare poco? E allora, di che cosa aveva bisogno l’artista
per dare profondità alla rappresentazione? Di una quinta scenica,
evidentemente; di una direttrice spaziale.
Ecco allora la scoperta della cinta muraria di Villa Genova. Un paramento di
fabbrica che, proprio per il fatto
che, «dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», era in grado di indirizzare e
accompagnare l’occhio dell’osservatore verso il cuore della città. Ma che strano; davvero singolare l’avventura
di quel muro (che, grazie a quest’olio, per la prima volta conosciamo nella sua
interezza)! Un decennio, più tardi – sempre in un’afosa giornata d’estate – sarebbe
stato oggetto della fucilazione di un gruppo di briganti, le cui grida
“strazianti e dolenti” avrebbero turbato per molti anni la coscienza dei
cittadini. Con un passaggio importante e significativo nella storia della sua
breve aura: l’avvertito movimento dalla «quiete» palizziana alla «fatal quïete»
risorgimentale che avrebbe per sempre infranto la serenità del luogo.
Devo a
questo quadro il ritorno al limite estremo dell’attuale via Guglielmo Pepe per
ritrovare in qualche modo il senso di quel fascino perduto. Speravo di
rinvenire un frammento di quel muro: l’ho rinvenuto. Ma con un risultato carico
di grande malinconia: che in quel sito non si respirava più alcun genius.
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