lunedì 22 ottobre 2012

DUECENTO ANNI FA MORIVA IL CONTE TIBERI, APPASSIONATO CULTORE DI STORIA LOCALE


di LINO SPADACCINI

Duecento anni fa, il 22 ottobre del 1812, moriva nella sua città natale il conte Giuseppe Tiberi.
Appassionato cultore di storia locale, Giuseppe Tiberi fu soprattutto poeta e archeologo e la sua casa per tanti anni, rappresentò un vero e proprio centro culturale dove si ritrovavano i maggiori studiosi e artisti locali dell’epoca.
Nato a Vasto il 18 febbraio 1732, dal conte Francesco e da Felicia De Luca, Giuseppe, grazie alla posizione agiata del padre, ebbe un’ottima istruzione. Dapprima seguì gli insegnamenti letterari del preposto D. Nicola Cascioli, successivamente si trasferì a Napoli, dove proseguì gli studi di filosofia con l’abate Genovesi e giurisprudenza con i professori Cirillo e Cavallari. Dopo essersi laureato nel 1753, l’anno successivo tornò a Vasto dove, subentrando al padre che aveva comprato la carica di Regia Corte nel febbraio del 1743, per 750 ducati, divenne Regio Fondachiero della Dogana dei Sali.
Nel 1764”, ricorda lo storico Vittorio d’Anelli, “ebbe titolo e mansioni di Vicealmirante e Luogotenente di S. M., nelle marine di Vasto, ufficio che era pure appartenuto al padre sin dal 1752. Le attività burocratiche, nelle quali era coadiuvato da personale sufficiente, gli lasciarono il tempo per dedicarsi alle arti ed alle scienze verso le quali il suo ingegno versatile ed enciclopedico era naturalmente inclinato”.
Per un periodo breve esercitò anche l’avvocatura, ma non a scopo di lucro. Venne nominato avvocato della Città e dei Poveri, ricoprì altresì le cariche di Decurione, primo Sindaco ed infine Mastrogiurato: tutto questo quando non aveva compiuto i trent’anni di età.
Il conte Tiberi masticava come pane quotidiano filosofia, poesia e storia. Amante della pittura e di oggetti di antiquariato, la sua casa in via della Trinità era un vero e proprio museo: il suo cortile era pieno di antichi monumenti e iscrizioni lapidarie, mentre le sale interne erano adorne di oltre cento quadri di maestri della scuola veneta e napoletana, oltre a una ricca collezione numismatica, reliquie di Santi, una ricca biblioteca, una raccolta di strumenti musicali e tanti altri oggetti quali vasi antichi, bronzi e terracotte, ammirate da visitatori anche stranieri.
La musica era una delle grandi passioni del Tiberi. Fece venire da fuori abili insegnanti di musica e con la loro collaborazione creò una vera e propria orchestra filarmonica. Nel 1778 acquistò a Venezia dodici violini. Ma il Tiberi oltre a suonare si dilettava anche a scrivere su pentagramma, come ad esempio la Pastorale per Cembalo (1788), il Trio Notturno a due violini e violoncello con sordini (1796), scritto per le nozze reali di Francesco Borbone e Maria Clementina Arciduchessa d’Austria, e sei Sinfonie, pubblicate a Venezia nel 1784 per l’editore Innocente & Scattiglia.
Letterato e poeta eccelso agli inizi dell’800 diede vita all’Accademia Istoniese, aperta ai letterati dell’epoca. Probabilmente l’Accademia funzionò solo un paio di anni, in una sala del Collegio del Carmine. In un prezioso documento, redatto in
occasione dell’ammissione di suo figlio, Antonio Tiberi, oltre all’insegna dell’Accademia, incisa su rame, è riportato il seguente testo: “Exiguum colito – Ingentem laudato / Accademia Istoniese / I signori dell’Accademia Istoniese di belle lettere, stabilita nel collegio de’ Chierici della Madre di Dio, accolgono unanimemente nella loro compagnia il sig. Tiberi Antonio, che col nome di Filomuso resta perpetuamente ascritto ad essa accademia ed impegnato a’ di lei esercizi, secondo il piano del suo stabilimento e secondo le leggi che si trovano in essa stabilite e scritte pel buono regolamento e progresso della medesima, ad utile esercizio de’ talenti, e sollievo degli animi. Dalla camera di riunione, a’ 24 di novembre 1803”. Il documento è firmato da Eleuterofilo, chiaro nome arcadico, segretario – custode.
Il giorno fissato per l’adunanza degli accademici era il giovedì. A turno venivano declamati i componimenti poetici, ed al termine veniva offerto un rinfresco a base di dolci e liquori, serviti in bicchierini di cristallo di Boemia. Ben presto, con l’aumentare degli accademici, il rinfresco venne abolito. A tal proposito c’è un sonetto di autore ignoto, che descrive molto bene il fatto:

Per la riapertura dell’Accademia Istoniese cresciuta di numero
(Multiplicasti gentem, sed non magnificasti laetitiam)

Conciossiacchè, senza poetare
Aver qui non si può posto accademico;
Divenuto è il poetar morbo epidemico,
Che, far si voglia general, mi pare.

Vedendo il nostro numero avanzare,
Invece io di gioir, sospiro e gemico;
Chè più non spero in vasellin boemico,
Quei rosolj d’un tempo assaporare.

Quei buon rosolj e que’ bei zuccherin,
Che avea ciascuno in ogni giovedì,
Bastando che portasse un sonettin.

Ma perché l’adunanza or s’ingrandì,
E accrescer si dovriano i bicchierin,
Quella buona cuccagna omai finì.

Tra le principali pubblicazioni del letterato vastese ricordiamo “Ester”, (Napoli, 1759), azione sacra da cantarsi la sera del 2 novembre nella chiesa di S. Pietro, mentre con il nome arcadico di Cloneso Licio, diede alle stampe “Trattenimenti letterali” (Napoli, 1786), “Lettera critica-liturgica” (L’Aquila, 1805), “De profundis”, sonetto con annotazioni, “Per le felicissime nozze di D. Carlo Cesare Davalos e D. Maria Teresa Davalos” (1765) e soprattutto le “Anacreontiche morali” (Roma, 1778), preziosa pubblicazione, arricchita da cento testatine con vedute campestri, incise dal fratello Nicola Tiberi. Sulle “Efemeridi Letterarie di Roma”, dell’11 settembre 1790, così veniva recensita la pubblicazione: “Queste anacreontiche in numero di 100 dividonsi in tre raccolte, ed altro non sono in sostanza che altrettanti apologhi, ognun de’ quali è diretto a render sensibile una qualche verità morale, e tutti insieme formano un corso di morale educazione, adattatissimo all’indole della giovanile età, e destinato dal nobile Autore all’uso de’ suoi amatissimi figli… Molti sono stati gli scrittori di apologhi in questi ultimi anni, ed alcuni di essi si sono meritati le maggiori lodi. Quel che particolarmente distingue quei del nostro Autore si è di essere i medesimi per lo più ricavati dalle più recondite proprietà de’ più noti animali, o di esservi introdotti per interlocutori animali o piante più rare ed esotiche; ciò che mirabilmente può servire ad invogliare i giovani leggitori nello studio della storia naturale…”.
Per fare solo un piccolo esempio della poesia del Tiberi, trascriviamo una breve composizione, formata da due sestine, dal titolo “L’arte e la natura”:

Tu sei rozza e oscura,
disse l’Arte a Natura:
io nel ritrarti abbello
te di fregio novello.
Se vai chiara cotanto,
dessi a me sola il vanto.

Lascia il garrir da parte,
disse Natura all’Arte:
se prole mia tu sei,
dell’opre tue leggiadre
insolentir non dei;
del tutto io son la Madre.

Sposata con Margherita Spataro, Giuseppe Tiberi ebbe tre figli: Antonio (1778-1856), letterato e poeta, Saverio (1774-1843), dottore in legge, autore di saggi morale e religione, e Francesco Felice (1783-1828), poi divenuto vescovo di Sulmona. Nell’Archivio Storico di Casa Rossetti si conserva la copia manoscritta di una lunga quanto bella lettera in versi scritta da Giuseppe Tiberi, che dall’alto dei suoi anni vede il proprio figlio andar via e forse mai più rivedrà. Questi i primi significativi versi: “Le natie paterne mura / Tu abbandoni, amato Figlio! / Sento i moti di natura / che bagnar vorriami ‘l ciglio. / Grave è ‘l peso de miei dì. / Fors’io più non ti vedrò / Ah se mai sarà così, / da te lungi io morirò!.
Gli ultimi anni di vita non furono dei più felici. Tutti i suoi malanni li riportò in una curiosa anacreontica dal titolo “Le disgrazie”.
Quando la vita sembra volgere al meglio, ad un tratto la ruota gira

Ma della ruota appena
Che al vertice m’innalza,
Cangia per me la scena
E a un tratto al suol mi balza.

D’un femore mi resta
Infranto il collo, ahi lasso!
Soccorso e chi mi presta
A distender il passo?

È forza che due legni
Al gran bisogno lo chiegga,
Onde da tai sostegni
Il mio cammin si regga.

Giacché Dovizia l’occhio
Allor bieco a me volse,
E al maggior uopo, il cocchio
E i destrier mi ritolse.

Pria da giovin gagliardo
Sulle bighe adagiato;
E da zoppo vegliardo
Sulle grucce poggiato!

E continuando nell’elenco delle disgrazie e avversità chiude con questi versi

Che cerco adunque? Io spoglio
Di tutto venni al giorno;
E a l’atro avel non voglio
Pur nudo far ritorno?

Il conte Giuseppe Tiberi morì il 22 ottobre 1812 e con lui Vasto ha perso un grande uomo, letterato, filantropo, e anche educatore eccelso di giovani menti vastesi.

Lino Spadaccini








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