di LINO SPADACCINI
Duecento anni fa, il 22 ottobre del 1812, moriva nella sua
città natale il conte Giuseppe Tiberi.
Appassionato cultore di storia locale, Giuseppe Tiberi fu
soprattutto poeta e archeologo e la sua casa per tanti anni, rappresentò un
vero e proprio centro culturale dove si ritrovavano i maggiori studiosi e
artisti locali dell’epoca.
Nato a Vasto il 18 febbraio 1732, dal conte Francesco e da
Felicia De Luca, Giuseppe, grazie alla posizione agiata del padre, ebbe
un’ottima istruzione. Dapprima seguì gli insegnamenti letterari del preposto D.
Nicola Cascioli, successivamente si trasferì a Napoli, dove proseguì gli studi
di filosofia con l’abate Genovesi e giurisprudenza con i professori Cirillo e
Cavallari. Dopo essersi laureato nel 1753, l’anno successivo tornò a Vasto
dove, subentrando al padre che aveva comprato la carica di Regia Corte nel
febbraio del 1743, per 750 ducati, divenne Regio Fondachiero della Dogana dei
Sali.
“Nel 1764”,
ricorda lo storico Vittorio d’Anelli, “ebbe
titolo e mansioni di Vicealmirante e Luogotenente di S. M., nelle marine di
Vasto, ufficio che era pure appartenuto al padre sin dal 1752. Le attività
burocratiche, nelle quali era coadiuvato da personale sufficiente, gli
lasciarono il tempo per dedicarsi alle arti ed alle scienze verso le quali il
suo ingegno versatile ed enciclopedico era naturalmente inclinato”.
Per un periodo breve esercitò anche l’avvocatura, ma non a
scopo di lucro. Venne nominato avvocato della Città e dei Poveri, ricoprì
altresì le cariche di Decurione, primo Sindaco ed infine Mastrogiurato: tutto questo
quando non aveva compiuto i trent’anni di età.
Il conte Tiberi masticava come pane quotidiano filosofia,
poesia e storia. Amante della pittura e di oggetti di antiquariato, la sua casa
in via della Trinità era un vero e proprio museo: il suo cortile era pieno di
antichi monumenti e iscrizioni lapidarie, mentre le sale interne erano adorne
di oltre cento quadri di maestri della scuola veneta e napoletana, oltre a una
ricca collezione numismatica, reliquie di Santi, una ricca biblioteca, una
raccolta di strumenti musicali e tanti altri oggetti quali vasi antichi, bronzi
e terracotte, ammirate da visitatori anche stranieri.
La musica era una delle grandi passioni del Tiberi. Fece
venire da fuori abili insegnanti di musica e con la loro collaborazione creò
una vera e propria orchestra filarmonica. Nel 1778 acquistò a Venezia dodici
violini. Ma il Tiberi oltre a suonare si dilettava anche a scrivere su
pentagramma, come ad esempio la Pastorale
per Cembalo (1788), il Trio Notturno
a due violini e violoncello con sordini (1796), scritto per le nozze reali
di Francesco Borbone e Maria Clementina Arciduchessa d’Austria, e sei Sinfonie, pubblicate a Venezia nel 1784
per l’editore Innocente & Scattiglia.
Letterato e poeta eccelso agli inizi dell’800 diede vita all’Accademia
Istoniese, aperta ai letterati dell’epoca. Probabilmente l’Accademia funzionò
solo un paio di anni, in una sala del Collegio del Carmine. In un prezioso
documento, redatto in
occasione dell’ammissione di suo figlio, Antonio Tiberi,
oltre all’insegna dell’Accademia, incisa su rame, è riportato il seguente
testo: “Exiguum colito – Ingentem laudato
/ Accademia Istoniese / I signori dell’Accademia Istoniese di belle lettere,
stabilita nel collegio de’ Chierici della Madre di Dio, accolgono unanimemente
nella loro compagnia il sig. Tiberi Antonio, che col nome di Filomuso resta
perpetuamente ascritto ad essa accademia ed impegnato a’ di lei esercizi,
secondo il piano del suo stabilimento e secondo le leggi che si trovano in essa
stabilite e scritte pel buono regolamento e progresso della medesima, ad utile
esercizio de’ talenti, e sollievo degli animi. Dalla camera di riunione, a’ 24
di novembre 1803”. Il documento è firmato da Eleuterofilo, chiaro nome
arcadico, segretario – custode.
Il giorno fissato per l’adunanza degli accademici era il
giovedì. A turno venivano declamati i componimenti poetici, ed al termine
veniva offerto un rinfresco a base di dolci e liquori, serviti in bicchierini
di cristallo di Boemia. Ben presto, con l’aumentare degli accademici, il
rinfresco venne abolito. A tal proposito c’è un sonetto di autore ignoto, che
descrive molto bene il fatto:
Per la riapertura
dell’Accademia Istoniese cresciuta di numero
(Multiplicasti gentem,
sed non magnificasti laetitiam)
Conciossiacchè, senza
poetare
Aver qui non si può
posto accademico;
Divenuto è il poetar
morbo epidemico,
Che, far si voglia
general, mi pare.
Vedendo il nostro
numero avanzare,
Invece io di gioir,
sospiro e gemico;
Chè più non spero in
vasellin boemico,
Quei rosolj d’un tempo
assaporare.
Quei buon rosolj e
que’ bei zuccherin,
Che avea ciascuno in
ogni giovedì,
Bastando che portasse
un sonettin.
Ma perché l’adunanza
or s’ingrandì,
E accrescer si
dovriano i bicchierin,
Quella buona cuccagna
omai finì.
Tra le principali pubblicazioni del letterato vastese
ricordiamo “Ester”, (Napoli, 1759),
azione sacra da cantarsi la sera del 2 novembre nella chiesa di S. Pietro,
mentre con il nome arcadico di Cloneso Licio, diede alle stampe “Trattenimenti letterali” (Napoli, 1786),
“Lettera critica-liturgica”
(L’Aquila, 1805), “De profundis”,
sonetto con annotazioni, “Per le felicissime
nozze di D. Carlo Cesare Davalos e D. Maria Teresa Davalos” (1765) e
soprattutto le “Anacreontiche morali”
(Roma, 1778), preziosa pubblicazione, arricchita da cento testatine con vedute
campestri, incise dal fratello Nicola Tiberi. Sulle “Efemeridi Letterarie di Roma”, dell’11 settembre 1790, così veniva
recensita la pubblicazione: “Queste
anacreontiche in numero di 100 dividonsi in tre raccolte, ed altro non sono in
sostanza che altrettanti apologhi, ognun de’ quali è diretto a render sensibile
una qualche verità morale, e tutti insieme formano un corso di morale
educazione, adattatissimo all’indole della giovanile età, e destinato dal
nobile Autore all’uso de’ suoi amatissimi figli… Molti sono stati gli scrittori
di apologhi in questi ultimi anni, ed alcuni di essi si sono meritati le
maggiori lodi. Quel che particolarmente distingue quei del nostro Autore si è
di essere i medesimi per lo più ricavati dalle più recondite proprietà de’ più
noti animali, o di esservi introdotti per interlocutori animali o piante più
rare ed esotiche; ciò che mirabilmente può servire ad invogliare i giovani
leggitori nello studio della storia naturale…”.
Per fare solo un piccolo esempio della poesia del Tiberi,
trascriviamo una breve composizione, formata da due sestine, dal titolo “L’arte e la natura”:
Tu sei rozza e oscura,
disse l’Arte a Natura:
io nel ritrarti
abbello
te di fregio novello.
Se vai chiara cotanto,
dessi a me sola il
vanto.
Lascia il garrir da
parte,
disse Natura all’Arte:
se prole mia tu sei,
dell’opre tue
leggiadre
insolentir non dei;
del tutto io son la
Madre.
Sposata con Margherita Spataro, Giuseppe Tiberi ebbe tre
figli: Antonio (1778-1856), letterato e poeta, Saverio (1774-1843), dottore in
legge, autore di saggi morale e religione, e Francesco Felice (1783-1828), poi
divenuto vescovo di Sulmona. Nell’Archivio Storico di Casa Rossetti si conserva
la copia manoscritta di una lunga quanto bella lettera in versi scritta da
Giuseppe Tiberi, che dall’alto dei suoi anni vede il proprio figlio andar via e
forse mai più rivedrà. Questi i primi significativi versi: “Le natie paterne mura / Tu abbandoni, amato
Figlio! / Sento i moti di natura / che bagnar vorriami ‘l ciglio. / Grave è ‘l
peso de miei dì. / Fors’io più non ti vedrò / Ah se mai sarà così, / da te
lungi io morirò!”.
Gli ultimi anni di vita non furono dei più felici. Tutti i
suoi malanni li riportò in una curiosa anacreontica dal titolo “Le disgrazie”.
Quando la vita sembra volgere al meglio, ad un tratto la
ruota gira
Ma della ruota appena
Che al vertice
m’innalza,
Cangia per me la scena
E a un tratto al suol
mi balza.
D’un femore mi resta
Infranto il collo, ahi
lasso!
Soccorso e chi mi
presta
A distender il passo?
È forza che due legni
Al gran bisogno lo
chiegga,
Onde da tai sostegni
Il mio cammin si
regga.
Giacché Dovizia
l’occhio
Allor bieco a me
volse,
E al maggior uopo, il
cocchio
E i destrier mi
ritolse.
Pria da giovin
gagliardo
Sulle bighe adagiato;
E da zoppo vegliardo
Sulle grucce poggiato!
E continuando nell’elenco delle disgrazie e avversità chiude
con questi versi
Che cerco adunque? Io
spoglio
Di tutto venni al
giorno;
E a l’atro avel non
voglio
Pur nudo far ritorno?
Il conte Giuseppe Tiberi morì il 22 ottobre 1812 e con lui
Vasto ha perso un grande uomo, letterato, filantropo, e anche
educatore eccelso di giovani menti vastesi.
Lino Spadaccini
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