sabato 13 febbraio 2021

"Sogno dell’ultima sera di Carnevale" di Nicola D'Aloisio

di Lino Spadaccini

 Con il pensiero rivolto alla pandemia, alla grave situazione in cui versano molti settori economici   e, perché no, anche alla crisi politica, quasi senza accorgercene, siamo giunti in prossimità del carnevale.

La pandemia continua a condizionare la nostra vita e il ritorno alla zona rossa, impone la massima attenzione, con il divieto di festeggiare quello da sempre considerato l’evento più allegro dell’anno, per i bambini e non solo.

Dal mio ultimo volume Nicola D’Aloisio, Solitudine e avventura di Romualdo Pàntini e altri scritti (Il Torcoliere, Vasto, 2020), vi propongo una novella sul carnevale, dal sapore noir, dal titolo Sogno dell’ultima sera di Carnevale, apparsa per la prima volta su Il Giornale d’Abruzzo e Molise del 27 febbraio 1930.

 

Sogno dell’ultima sera di Carnevale

Mezzanotte. Carnevale. Follia.

Luci multicolori, abbacinanti; aria tumultuosa, impregnata di mille profumi,di mille sinfonie, di mille fremiti ebri, pazzi, indistinti, confusi in mille sensazioni trasognate di piacere, di follia, di perdizione. Melodia fantastica di arcani richiami, dolci, paradisiaci, profani. Inviti occulti, sussurrati da infinite labbra di amanti, sospirati nell’ebrezza d’un bacio. Orgie fantastiche,evanescenti, rapide, fuggitive in un tripudio di abbandono, di sogno, d’oblìo. Fughe pazze, anelanti; soste d’un attimo; brama di dissolvimento, di voli, di astrazioni; desiderio di annientarsi e di perdersi dietro mille chimere, milleguizzi d’incognite dolcezze; sete di voluttà nuove. Morire, risorgere, assopirsi.Conquistare, rubare, darsi. Immergere le labbra in tutte le coppe del piacere,suggerne tutti i sapori, fino all’ultima goccia, fino alla sazietà, fino all’amarezza. Gettarsi a capofitto, perdutamente, in tutte le avventure, in tutti i rischi. Rubare baci, carezze, sorrisi. Godere un attimo nelle braccia dell’ignoto; sentir vivere, sospirare, palpitare. Sognare, pregare, umiliarsi, sottomettersi, azzardare. Dimenticare, ubbriacarsi, stordirsi. Non più uomini. Maschere, mascheree maschere. L’ignoto. E solo l’ignoto può darci la forza di agire senza tremito, senza vergogna. Ci fa ritrovare noi stessi, inabissandoci nella sua nullità. L’anima si sbriglia, si libera dall’incubo delle convenienze sociali, si sbraccia, si denuda. Cerca, nell’attimo fuggente che le è dato, per chiedere senza esitanza e senza superstizione di soddisfare i più intimi desiderii, attingendo a quella fonte di piacere comune. Il vòlto si maschera, l’anima si svela. Si corre all’impazzata, s’inciampa, si cade, si ride. Tutto cosi come l’anima vuole, col vòlto nascosto.

È Carnevale. L’ultima sera.


Domani il vòlto riprenderà, la sua effigie, l’anima la sua maschera. C’è ancòra

un attimo d’oblio, di godimento di follia. Un attimo ancòra per stordirsi, perdersi, vaneggiare.

Mezzanotte. Carnevale. Follia.

Di fuori una pioggerella fina fina, penetrante, uggiosa. Il tempo piange. E l’agonia di questa fantastica ebrezza. Domani, all’alba, non ci sarà più che un ricordo. Domani, all’alba, il ritorno alla vita banale, insulsa, convenzionale.

Ma dentro le sale illuminate e fragorose ferve più intensa la festa, la smania, la febbre. Le maschere non piangono l’agonia del loro signore. Si affannano, si precipitano, fanno mille cose deliziose e temerarie, senza tregua, senza respiro, temendo di profittar sempre troppo poco di quell’attimo loro concesso. S’incrociano i frizzi, i complimenti, le arguzie. Si danza, si salta, si pesta. E, nelle penombre solitarie, le mascherine azzardose si abbandonano in una vertigine d’avventura. Quante anime? Tante! E ognuna ha una storia, un passato. Ma ora non è permesso ricordare; ora le anime sono tutte tese a un solo scopo, anelanti tutte a una medesima febbre, riarse tutte di godimento.

Non più storia. Non più passato.

L’oblio. Un attimo. Lo snervamento. La pazzia. Solo nella pazzia è la felicità.

Una musica dolcissima, triste da prima, patetica, nostalgica; e poi affrettata, precipitosa, allegra. Chi suona? Chi canta? Chi ride?... Tanti pazzi, tante anime,tante vite che afferrano a volo la felicità fuggitiva. Nell’ebrezza. Nell’oblio.Le sfiorano il lembo della veste, l’afferrano, la respirano, la godono ed essasi concede, duttile, pieghevole, menzognera. Si concede ancòra stasera, negli ultimi guizzi più calda, più voluttuosa, più ebra. Porge ancòra le coppe dorate alle labbra avide, nervose di tutti quei pazzi.

Tante anime! Senza storia più... senza passato! Tanti felici tuffati nella immensanullità dell’ignoto.

 

– Mascherina, mascherina. Dimmi chi sei.

È un bel Pierrot, tutto bianco, tutto allegro, che si piega verso un domino nero che, certo, nasconde una grazia femminile.

E il domino nero si contorce in un provocante abbandono, serpeggia, si allunga, si ritrae. E lo trascina nell’ombra, nella solitudine, e gli sugge le labbra in un bacio, in un morso. Repentina, leggera, sparisce tra la folla delirante, mormorando: – Sono il Piacere. Cercami, se mi vuoi! –

E il Pierrot resta un minuto stordito, abbacinato, cercando con lo sguardo il domino nero che non si vede più. E subito riprende la sua corsa folle, senza tregua, spinto, sballottato, stordito. Senza tregua. Ha paura di fermarsi, e corre e corre e va, alla cieca, per rapire, per donare, per godere. No. Non cerca la mascherina misteriosa ed ebra, non vuoi cercarla. Ce ne sono tante, tante, infinite.Non vuole un’avventura, non cerca un amore. È venuto per gettarsi nel gorgo della vertigine, dello stordimento, dell’oblio. È venuto per dimenticare, dovesse anche cadere nel precipizio, dovesse anche fracassarsi il cranio.

Dimenticare! Uccidere quel ricordo, quel rimorso, quel dolore!

E va e corre e grida e ride. Ride, come ride!

Vi è, certo, un filtro penetrante, sottile che ubriaca l’anima; un filtro misterioso che non si beve, ma si respira così frammisto a tutto quel profumo di frenesia, di sogno, di chimera. E l’anima s’imbeve tutta di questo filtro e brancola, ubriaca, nel fumo denso, vaporoso dell’incoscienza beata. Brancola,

brancola e vola; s’abbandona e si lascia rapire. Si espande e respira. E non c’è più ricordo. Nulla. Ed è così beata l’anima che ozia nel nulla.

Ride Pierrot perché è felice, perché non ha più quell’ombra minacciosa, ostinata che gli tormenta il cuore: una visione: il passato. Perché lui ha amato, e con lo stesso amore ha ucciso. Senz’arma, senza violenza, ma ha ucciso. Amava, ma l’amore diventa un tormento, diventa una colpa quando accanto ad essa sorge il morbo della gelosia. Perché la gelosia acceca, disgenna, istiga l’animo fino a fargli raggiungere il più alto grado di aberrazione, di mostruosità. E quando non si capisce più nulla, allora si commette l’infamia, l’orrore. Si calpesta, si spezza, si uccide.

Così, lui. Così.

L’aveva amata pazzamente. E ne era stato – almeno gli pareva – ricambiato con fede, con sincerità, senza limite.

Felici! Erano stati felici insieme, fin che non sorse la nemica: quella che insidia, che tormenta, che ammorba: la gelosia. Il dubbio atroce, spaventevole,assillante. E sorse. E si drizzò enorme, perfido, intossicatore tra quelle due anime amanti. Sorse. E le divise irrimediabilmente, offuscando d’un tratto il cielo limpido e sereno del loro amore. Sorse. E furono scenate, lacrime, preghiere.

Quante volte non aveva egli pianto, ginocchioni, di fronte a quella donna tanto amata; non aveva implorato il suo perdono e la sua carezza, dopo averla vituperata, insultata, offesa? Quante volte, nell’impeto del furore, non si era gettato su lei, più belva che uomo, senza senno più, senza ritegno, battendola, per poi piegarsi umilmente, vilmente dinnanzi a lei e versare le lacrime più amare del suo pentimento e del suo dolore?...

Ed ella sopportava, rassegnata, buona, perdonando sempre, amando e supplicando. E aveva tentato tutt’i mezzi più persuasivi per dissuaderlo, per togliergli dall’anima quel dubbio terribile che gli pesava come un incubo, che lo soffocava. Ma no. Egli era, ormai, tutto preso da quel morbo devastatore; era ossessionato, vinto; e non poteva sottrarsi agli artigli di quel fantasma, spaventoso. Fin che una sera, una triste sera di febbraio, commise l’atto crudele e irreparabile.

Tutta la sua persona tremava, assalita dalla crisi violenta; gli occhi sbarrati, iniettati di sangue, pieni di odio implacabile, micidiale. E l’aveva afferrata, l’aveva scossa, battuta, annientata. E, ancor più accecato da quel torbido pensiero pieno di terrore, egli la spinse fuori, fuori della sua, casa, ghignando col vòlto contratto, le labbra convulse: – Va, va dal tuo amante! –

E aveva chiuso la porta, e s’era gettato sul letto, chiudendosi il capo con le braccia, in un bisogno prepotente di piangere, di assopirsi, di morire! E poi s’era levato, aveva girato per ogni stanza, cercando in ogni angolo quella che non c’era più, desiderandola e amandola con più forza. E l’aveva chiamata, l’aveva invocata, aveva pianto ginocchioni, quasi che ella stesse lì, pronta a perdonare. A poco a poco tornò in lui la lucidità netta di quello che aveva fatto. Comprese l’orrore del suo gesto; ne fu pentito, spaventato, terrorizzato.

Lui? Lui aveva potuto far questo?... E lei, lei che farà ora?... Dove sarà andata?...

Tornerà ancòra a lui?...

Stette a lungo in ascolto.

Nessuno.

Ella non tornava!

E se non tornasse più, più, più... Che farebbe lui!... Come potrebbe vivere?...Come?...

Ma ella tornerà domani, come ha fatto altre volte. Certo. Tornerà domani, ed egli l’accoglierà con l’anima piena d’amore, si umilierà nella richiesta del perdòno, si farà disprezzare, dileggiare, calpestare anche. E sarà, tacito, sommesso, servile. Sì, domani tornerà di certo.

Ma la mattina dopo la trovarono giù, nella via, dinnanzi al portone, coperta di neve, assiderata.

Morta!

Morta, nella strada, di dolore, di freddo, come un cane. Fedele, onesta, offesa.

Ah! Chi le udì le sue grida laceranti; chi le vide le sue lacrime amare, fatte di rimorso, di pena, ditormento?... L’aveva uccisa! L’aveva uccisa! Senz’arma, senza colpi, ma con lo stesso suo amore.

E urlò, urlò come un pazzo, come una belva, per liberarsi di quel peso, di quel rimorso, di quell’orrore. Invano! Lo spettacolo di lei, coperta di neve, morta di gelo, lo perseguiterà sempre, implacabilmente, per tutta la vita!

E Pierrot ride, come ride!

È felice in quell’oblio di poche ore. E si stordisce, s’ubriaca, brancola nel nulla. Si abbandona tra mille braccia, beve su mille bocche, beve la dolce e triste miscela del piacere. E corre e grida e si perde.

Mezzanotte!

Il tempo piange.

È morto il Carnevale. È finita la pazzia.

Le maschere si ritirano spossate, stanche, deluse.

Torna la vita. Quella di ieri, quella di sempre. L’attimo è passato. Adesso, il ritorno all’eterno giro, all’eterna lotta.

Cade ancòra una pioggerella fina, penetrante, fredda. E le maschere si dileguano per vie diverse, riprendendo ciascuna l’effigie umana.

Uomini, non più maschere.

Un fanale, nella strada fangosa, diffonde una luce opaca, tenue, squallida.

Che tristezza!

E Pierrot, tutto bianco, tutto sfinito, si appoggia al fanale, sotto la luce squallida e triste che somiglia tanto alla sua anima dolorosa.

Aria pura, aria di vita!

Svaniscono i fumi dell’ebrezza, dell’oblio; torna il ricordo, torna il tormento.

Con gesto desolato Pierrot si toglie la maschera dal vòlto pallido. Sospira. Anche quell’attimo è passato. Soltanto il dolore resta.

Vana quella follia, vana quella ebrezza, vana quella corsa!

L’anima rivive più intensa, più tenace nel suo rimorso, nella sua pena. È uomo, ancòra uomo, sempre uomo.

L’incubo torna più potente, più mordace.

L’oblio, l’abbandono, il sonno. Vana fantasia. Nulla è più invincibile della realtà e del dolore.

E Pierrot si asciuga, con mano tremante, una lacrima e mormora in un singhiozzo: – Anche questo è passato! –

 

Nicola D’Aloisio

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