di
Lino Spadaccini
In
attesa di vivere la Santa Pasqua rispolveriamo un interessante articolo a firma di Vittorio Lucchi, vincitore del primo premio
Italia bella 1969, promosso dal periodico La Brigata degli Amici del Libro
Italiano.
L'articolo
dal titolo "La processione del
Cristo Morto a Vasto", in realtà descrive la processione
dell'Addolorata che si svolge il Sabato Santo. Il racconto del narratore è
molto accurato e denso di particolari interessanti che la memoria aveva quasi
cancellato, come i giovani che suonavano le chitarre durante la processione e
ogni tanto si fermavano per ballare davanti alla Madonna.
"[…]
Mi trovavo a Vasto il Sabato Santo, Vasto,
la bella cittadina che sta alta su di un colle che strapiomba al mare. La
Pasqua era bassa quell'anno, alla fine di marzo. E faceva freddo come a Natale.
Tirava un vento diaccio di tramontana. Piovaschi gelidi sferzavano il volto e
facevano
rabbrividire. Il cielo livido era percorso da nubi che galoppavano
irate verso Sud.
Giù in basso, il
mare grigio, quasi terreo, frangeva rabbiosamente le sue onde contro la lunga
spiaggia. Era uno spettacolo di una tristezza incomparabile che s'intonava alla
giornata dolorosa della Morte del Signore.
La grande
Piazza, alle spalle della Rocca (così piccolina da sembrare il castello delle
fate piuttosto che una fortezza, tanto le case che l'attorniano le stanno
addosso soffocandola) la grande piazza dicevo, era piena di gente in attesa
della processione. Meglio, era piena di ombrelli lucidi di pioggia. Su di un
lato sorge una Chiesa dalla facciata grigia. Di lì doveva uscire la
processione. Ma la chiesa, piuttosto piccola, non riusciva a contenere tutti
quelli che alla Processione volevano prendere parte. E perciò il vicolo
adiacente era brulicante di gente che vi si era messa al riparo dal vento. La
luce era scarsa, pur essendo sul mezzogiorno. Il vicolo era tutto nero. Solo
una gran macchia bianca rompeva la monotonia di quelle tenebre. Era una sindone
gettata sui bracci di una grande Croce.
La pioggia cessò
improvvisamente. Allora la gran Croce col velo bianco si mosse. La reggeva un
gigante col volto coperto da un cappuccio nero, il corpo avvolto in una lunga
tunica nera con ampie maniche svolazzanti. Sul petto portava ricamati in oro i
simboli della Passione, i chiodi, il martello, le tenaglie, la lancia con la
spugna del fiele. Una corona di spine dorate gli circondava il capo. La croce
pesantissima oscillava nel gran vento e il gigante nero, curvo, faceva una gran
fatica a reggerla. Le braccia della bianca sindone sferzavano l'aria e pareva
implorassero. Seguivano due lunghe file di incappucciati, tutti neri, tutti
incoronati di spine d'oro. Ognuno reggeva una torcia spenta dal vento impetuoso.
Era un triste
corteo senza luce. Dopo gli incappucciati veniva un drappello di bambini
ammantati anch'essi di nero ma a viso scoperto. Sulle teste ricciute posavano
piccole corone di spine d'oro. Ognuno reggeva un cuscino di raso sul quale
posavano i simboli della Passione, gli stessi che, ricamati, spiccavano sul
petto dei loro padri.
Uno dei bimbi,
il più grandicello, esile come un giunco, reggeva una lunga lancia del
Centurione Longino. Sembrava un Parsifal fanciullo. I più piccoli avevano ali
dorate. Strani angeli in gramaglie. Incedevano solenni compresi del loro
aspetto insolito, tra il brusio della folla che intenerita li ammirava, li
riconosceva, li chiamava per nome. Le donne sorridevano ai loro fanciulli,
facevan loro gesti d'intesa affettuosa, agitavano le mani in segno di saluto
compostamente quasi di nascosto. Era uno spettacolo commovente e pittoresco.
Se tanto mi dava
tanto, che cosa doveva essere questo spettacolo quando la processione si faceva
di notte!? Nella luce del giorno il suo mistero era distrutto, il suo
misticismo ridotto a poco. Era diventata una cosa qualunque, ordinaria.
Non parliamo poi
del corteo delle donne! Più o meno erano tutte vestite di scuro col capo velato
di pizzo nero. Ma portavano ombrelli così sgargianti da far venire la rabbia.
D'altronde,
povere donne, la loro fede voleva incedere all'asciutto!
Anche la gente
del paese del resto avvertiva lo scadimento del rito, ne soffriva e lo diceva.
Una vecchietta che mi stava accanto, vedendomi intento a scattare fotografie,
capì che ero forestiero. Mi rivolse la parola: «Signore» mi disse, «non è più
la processione di un tempo! Non c'è più niente! Una volta sì che era bella!
Venivano da tutto l'Abruzzo a vederLa! Si faceva di notte, con le fiaccole e
tutte le case avevano lumi e drammi alle finestre. I giovanotti poi suonavano i
catarroni e si fermavano ogni tanto e ballavano davanti alla Madonna, in suo
onore, che sia sempre benedetta, e per consolarla». (Immagino che i catarroni
della vecchietta saranno stati dei chitarroni).
Ma che cosa
stupefacente dovevano essere questi canti sulle piazze, nel buio della notte,
alla luce oscillante delle fiamme. E quel danzare davanti alla Madonna.
Danzare? Avevo capito bene? «Si danzare, ballare», confermò la vecchietta.
Immaginate! Danzare per piangere sul Dio ucciso e consolare la Sua madre
Addolorata. E tutto questo nella spontaneità, nella semplicità! Oh!
Antichissima terra d'Abruzzo perché ti hanno costretta ad abolire questi tuoi
antichissimi riti? Oh mondo perduto, perduto per sempre!
Intanto
passavano le donne pregando sommessamente.
Un camion
approfittò di una momentanea sosta del corteo per attraversare la strada e, in
barba al vigile urbano che aveva voltato l'occhio, riprendere la corsa. E
dietro a lui s'infilarono parecchie automobili che erano in attesa e fremevano
per il tempo che stavano perdendo. Questa volgare intromissione mi sconvolse.
Furibondo stavo per andarmene quando sentii un canto. Il coro, ancora
invisibile all'interno della Chiesa, aveva intonato lo Stabat Mater. Nel vano
della grande porta si affacciarono i preti coi paramenti neri. Belli, lustri,
grassi indifferenti e soddisfatti di se stessi.
Ma qui accadde
una cosa meravigliosa che bloccò la mia fuga.
Tra nuvole
d'incenso era apparsa la statua dell'Addolorata. Mi si fermò il cuore.
Era terribile a
vedersi. Una vecchia Donna col volto distrutto dal pianto. Seduta portava sulle
ginocchia il peso del Figlio Morto. Aveva le braccia tese in un gesto
disperato, il volto rivolto verso la folla, non verso l'alto, non verso Dio,
non verso le nuvole del Cielo da dove non le era giunta nessuna consolazione,
nessun segno d'Amore. Pareva di dire alla gente che la guardava, che
s'inginocchiava, si segnava devotamente al suo passaggio e le mandava baci,
pareva dire che il suo Dolore era atroce, senza speranza, senza fede. Non
divino ma umano.
L'espressione
del viso e del gesto erano così intense che non notavi che la piccola Statua
indossava un superbo abito di broccato nero ricamato a fiori d'argento, che sul
capo una corona regale tempestata di gemme teneva fermo un prezioso velo che
scendeva amplissimo a coprire anche parte del Corpo di Cristo. Chi mai, quale
artista sarà stato l'artefice d'un'opera tanto significativa? Come era sfuggito
all'occhio acuto della Chiesa, come poteva essere sfuggita l'espressione
disperata della Vecchia Madonna, come non era stato avvertito il terrificante
messaggio che partiva da quel volto deluso, consunto, dal gesto desolato delle
braccia? Avevo il cuore in tumulto.
Quando mi passò
davanti istintivamente alzai la mano verso di Lei nel gesto di una carezza
consolatrice. Incontrai lo sguardo allucinato della Vecchia Madonna. Io sentii
penetrare nel mio spirito come una spada. Chiusi gli occhi. Quando tornai ad
aprirli, la statua era passata. Ora non vedevo che il velo ondeggiante nella
tramontana, il capo coronato tentennante come se la grande Sofferente fosse
scossa da continui irrefrenabili singhiozzi.
La folla si
chiuse e si accodò alla processione.
E subito fu uno
sfrecciare di automobili e uno strombettare insolente. La Statua era ormai
lontana e traballava e pareva una vecchia cosa superata ed inutile. La vita di
tutti i giorni, la vita degli affari, delle cose urgenti, dell'impazienza
continua riprendeva i suoi diritti dopo la breve mal tollerata interruzione. Le
impressioni suscitate dal passaggio della processione non erano durate che
pochi secondi […].
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