giovedì 20 dicembre 2018

Il Natale del 1916 in piena guerra mondiale: ricordi e rimpianti del pittore Carlo d'Aloisio da Vasto

A pochi giorni dal Natale, vogliamo riproporre integralmente un articolo scritto e illustrato dal pittore vastese Carlo D'Alosio da Vasto, pubblicato sulla rivista La Donna nel dicembre 1916.
Scritto durante il primo conflitto mondiale, D'Aloisio mette in risalto le contraddizioni della festa macchiate da una vita moderna, incalzata da nuove fedi, e tormentata dalla tragedia della guerra, che hanno tolto alla festa il dolce carattere di un tempo, riducendola quasi ad un giorno come un altro.
E D'aloisio ricorda con nostalgia il Natale di un tempo in Abruzzo, quando nei paesi si sentiva il suono degli zampognari e la vigilia ci si preparava con gioia al cenone in attesa della mezzanotte.
Dolci ricordi un tempo passato!
a cura di Lino Spadaccini 

Addio vecchia e dolce poesia di Natale
Ricordi e rimpianti. 

di Carlo D'Alosio da Vasto
Un altro anno se ne va scompare!
Un altro anno se ne va, e la nostra anima sente fortissimo la grande nostalgia dei tempi belli, dei tempi che furon e che non torneranno mai più!


– Buon Natale! – come suona ironico questo augurio!

Purtroppo – con i tempi che corrono – una fatale trasformazione è avvenuta in questa festa schiettamente popolare.

La vita moderna, incalzata da nuove fedi, tormentata da nuovi intendimenti, fra cui primeggia oggi la guerra europea, ha tolto radicalmente a questa santa festa tutto il suo dolce carattere primitivo.

Dormiva la politica, dormivano gli affari, dormivano le noie, tutto dormiva prima di questa festa che era la festa ufficiale della benevolenza, la festa dei presepi e degli alberi luminosi.

Da vent'anni invece dorme il Natale: la febbre, l'avidità, la sete di nuove cose, hanno ammazzata questa dolce festa.

Allora non c'era la guerra. Allora non venivano le disgrazie su la terra, e le famiglie vivevano la vita la più dolce, la più tranquilla.

L'antica ricorrenza che per tanti lustri inspirò ai nostri buoni avi la fede più pura e più bella del focolare domestico, non desta ora alcuna attrattiva.

Il giorno di Natale passa, inosservato come un qualunque altro giorno.

Dove sono andati i suonatori ambulanti di cornamuse? Dove sono le canzoni popolari? Dov'è il classico presepio? Poveri brandelli sparsi di un rito gentile siete morti per i nostri giorni! Gli anni vi hanno disteso il loro velo grigio e pesante, e l'anima nostra, pur sentendone la fine, sente come un vuoto intorno a sé, come il fumo di una immensa felicità miseramente perduta!

Grande fu la mia gioia quando un giorno vidi per le strade di Roma un vecchio zampognaro che mendicava suonando la sua cornamusa. Gli corsi dietro, lo fermai, lo interrogai: – Come ti chiami? Di dove vieni?

– Mi chiamo Francesco Rossi – mi rispose asciutto – Sono di S. Biagio Saracinesco.

È un paese vicino ad Atina (FR).

Mi raccontò, mi disse che aveva 80 anni e che non era più venuto a Roma da 50 anni. Mi disse che la sua zampogna era di legno di olivo e che quando era giovane veniva a Roma col padre a «fare la novena di Natale».

Lo invitai a suonare. Gonfiò la zampogna, e… che venne fuori? Un motivo di polca stupida.

– No, no – gli dissi – non suonare questa roba, per carità. Devi suonare la canzone di Natale.

– La Pastorella?

– Sì, la Pastorella.

E venne fuori il dolce suono della Pastorale che non si può ascoltare senza sentirsi intenerire il cuore e sentirsi qualche lagrimuccia su le gote.

– Ecco – dissi tra me – questo sarà uno degli ultimi zampognari, se non addirittura l'ultimo. E pensai pure come, sempre a causa e l'influenza della vita moderna, anche il vecchio zampognaro, che ha vissuto indubbiamente Natali felici, si adatta ai tempi che corrono e suona, per campare i suoi ultimi giorni, l'Inno dei lavoratori o la Marcia reale o «addio mia bela addio» al posto della vecchia e patetica Pastorale.

Nei paesi d'Abruzzo la poesia popolare si è un po' mantenuta, in quanto alla forma, nel ciclo arcadico della seconda metà del secolo XVIII; mentre poi nella sostanza è tutta piena dei nobili entusiasmi dei poeti locali delle età anteriori.

Gli zampognari ritornavano.

Avvolti nel mantello turchino, le gambe strette nelle liste dei sandali. Uno recava la ciaramella, l'altro la cornamusa. Gli zampognari ritornavano, di dove? Da qual lontano paese?

I suonatori dei primitivi strumenti erano per lo più dei pastori che per nove giorni lasciavano ad altri la cura del gregge e venivano in paese, accompagnati solo dal sospinto della fede. Quando arrivavano in paese era una festa. I ragazzi li seguivano a frotte.

Venivano per celebrare la novena di Natale.

Per nove giorni, dinanzi ai tabernacoli sparsi lungo le vie campestri, sotto la neve o davanti a le immagini sacre delle case, i suonatori di cornamusa suonavano la nostalgica poesia pastorale.

Finita la novena, le famiglie compensavano gli zampognari con una sacchetta di noce, un orcio l'olio, qualche pezzo di cacio, qualche dolce e trenta soldi di rame.

La festa era nella neve che fioccava equale, candida, silenziosa; era nel suono delle campane vicine a cui facevano eco altre lontane.

E ferveva intanto, in tutte le case, i preparativi.

La costruzione del presepe richiedeva le maggiori cure. Il piccolo presepe con le stradicciuole perdentisi, con lepecorelle e i pastori di creta sparsi su pei piccoli monti, con i contadini e le contadine che scendevano con le famiglie dallo loro casette e portavano i doni al Bambino, nella fantastica Grotta di Betlemme improvvisata con tronchetti d'alberi, creta e sassolini colorati.

E sotto la neve il pastore d'Abruzzo, tornava, col suo gregge, dai lontani pascoli. Tornava al suono della sua zampogna, che gli era stata di compagnia nel lungo, lungo viaggio. E camminava, camminava per attraversare il lungo tratturo, avvolto nel suo vecchio e scolorito mantello. Camminava verso casa sua dove l'aspettavano la moglie e i suoi cari figlioletti, per festeggiare la Festa Grande. Poi scendeva sulle rive del Pescara e si insinuava nella vallata.


A sera, arrivava nella sua tanto desiderata bianca casetta sperduta nella valle di neve, arrivava felice, e mangiava, insieme ai suoi cari, le castagne lesse o arroste e beveva un bicchiere del suo vinello. Questo era il Natale del pastore d'Abruzzo.

Dappertutto la vita sonnacchiosa della campagna si faceva intensa. Pei campi, lungo le viottole del borgo, chiocciavano i tacchini, le vittime dell'ingordigia natalizia. E. come nel presepe, salivano e scendevano le valli contadini e contadine con canestre e fardelli sul capo.

La vigilia, la grande vigilia veniva. La giornata trascorreva tranquilla, tra i preparativi per il cenone, perché si digiunava. L'attesa era grande. Si passava il giorno aspettando la sera. Si aspettava la sera in mezzo agli odori delle fritture di rito, e dei capitoni che arrostivano sulle graticole o nello spiedo.

Finalmente le campane vespertine facevano sentire gli ultimi rintocchi. Ogni famiglia si chiudeva in casa per attendere al famoso cenone e rompere il digiuno. Tutti, proprio tutti facevano ritorno a casa propria per festeggiare la ricorrenza in seno ai propri cari.

Il cenone era prelibato e copioso nelle case dei signori. Ai fumanti spaghetti conditi con acciughe e con olio, succedevano numerose pietanze d'anguille, che di vario non offrivano se non la varietà della loro morte: in bianco, in salsa, allo spiedo. E il cenone durava, durava; e si mangiava, si mangiava, e… si faceva buon sangue.


I poveri non rinunziavano all'abbondanza, ma rimanevano, nel senso più etimologico della parola, frugali. Sette minestre bisognava mangiare. Per prima si mangiava una minestra di fagiuoli bianchi, perché i rossi erano dozzinali. Per seconda minestra i maccheroni conditi con la sarda fritta nell'olio. E si badava che l'olio non cadesse per terra, perché sarebbe stato un brutto augurio. Poi si mangiava i cavoli con agli e olio: poi il baccalà col sugo rosso; poi fichi secchi, noci, castagne, e qualche torroncino fatto in casa.

Gli zampognari avevano finito la novena ed erano scomparsi misteriosamente, com'erano apparsi. Nessuno sapeva di dove venivano né dove tornavano: il Natale li riconduceva oltre i monti con la sua leggenda.

Le famiglie, dopo il cenone, s'adunavano intorno al focolare, dove ardeva inconsumabile il ceppo, il più grande ceppo che era stato tagliato e conservato appositamente per l'occasione.

E si vegliava ne la notte lunga. Si vegliava per aspettare la messa di mezzanotte. E si raccontavano le favolette, le strane leggende del Natale. A mezzanotte, al tocco, si andava alla messa che si celebrava in ogni cattedrale del paese.

I pastori e i contadini che abitavano in campagna, tornavano in paese. Tornavano facendosi lume, lungo le strade, con fascine di canne, così che da lontano producevano l'effetto di una lunga, interminabile processione di lumi nell'oscurità.

Da ogni casupola uscivano i contadini, s'accoglievano per via in gruppi, proseguivano frettolosi e ciarlieri, come nere ombre su la neve bianca, verso la chiesa del paese o del borgo.Giungevano, si passavano da una mano all'altra l'acqua benedetta, si facevano il segno della croce, s'avvicinavano all'altare dove in una gloria di ceri ardenti sopra un giaciglio di paglia, il Bambino sorrideva.

Natale! Natale! Suonavano allora le campane.

Natale! Natale! Suoneranno forse ancora oggi le stesse campane, ma che suono che hanno! Non è più quello di una volta: è falso, è ironico, urta… quasi. Come tutto cambia!

Povero Natale! Non ti riconosco più! E tu non t'accorgi che la tua presenza è vuota?

Non senti che nell'aria fredda e umida c'è la guerra. La guerra! E c'era prima la pace! È questo il terzo inverno di guerra. Gli alberi perdono le foglie e i loro scheletri si staccano sul cielo grigio. Che pena! Questi alberi secchi assomigliano un po' ai nostri bravi soldati di lassù. Anch'essi vigilano, all'aperto, e sopportano e resistono al freddo, alle nevi, alla tormenta, alla bufera, così, proprio come gli alberi.

Il Natale li troverà anche quest'anno in trincea. In quell'immensa solitudine bianca, silente, nel deserto sterminato del nevaio alpino, i soldati nostri passano lì il Natale, col cuore gonfio di commozione per il ricordo del passato; suscitando in quelle devote anime, veramente eroiche, l'onda dei cari e sacri ricordi; laggiù, lontano, tanto lontano, dove tanti anni fa, bambini, celebrarono in un innocente gaudio, ignari dell'incombente tragedia che li aspettava, la festa di Natale.

Che vale la tua pace, o Natale, se le nostre anime sono in piena e continua lotta?

I tempi sono cambiati completamente, radicalmente.

Addio canzoni popolari, addio sonatori di cennanelle e di cornamuse, addio presepe, addio poveri sparsi brandelli di un rito gentile, voi siete morti per i nostri giorni!

Addio, addio dolce e vecchia poesia di Natale!

Carlo d'Aloisio







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