di LINO SPADACCINI
Il 22 febbraio 1956 si abbatteva su Vasto una delle più
gravi sciagure della sua storia, quando un vasto movimento franoso provocava il
crollo di una buona parte del Muro delle Lame.
Il tragico evento non giunse all’improvviso: da più parti, negli anni
precedenti la sciagura, vennero
LE FOTO STORICHE E LA TRAGICA CRONACA DI QUEI GIORNI >>>
sollevate accuse alle autorità competenti e
politiche, locali e nazionali, per aver sottovalutato un problema che ha
origini lontane. I primi scoscendimenti si registrarono verso la fine del 1700,
ed altre di modeste dimensioni, ma non per questo meno allarmanti, durante
tutto l’800, fino ai primi anni del secolo successivo ed alle ultime avvisaglie
del 1953. Inoltre, bisogna ricordare anche la rovinosa frana del 1816, che fece
sprofondare a valle il costone orientale dalla Loggia Amblingh fino a San
Michele.
Nel settembre del 1955 già erano comparse le prime crepe
lungo via Adriatica e su alcuni edifici, non risparmiando anche una parte dei
locali della secolare chiesa di San Pietro. I tecnici del Genio Civile di Chieti
elaborarono un razionale piano di indagini costituito da una serie di
rilevamenti geomorfologici sia nel sottosuolo di Vasto che nella parte più a
est verso il mare.
Ad ottobre, per scongiurare la frana, don Romeo Rucci decise
di portare in processione, per le strade del centro storico, la reliquia del
Legno della Croce. Oltre ai chierici, al parroco ed alle rappresentanze del
comune con il Gonfalone, partecipò tantissima gente composta e commossa, ma già
consapevole di quello che sarebbe potuto accadere da un momento all’altro.
In seguito al preoccupante evolversi della situazione, dopo
ulteriori verifiche delle crepe, sempre più numerose e profonde, i tecnici
comunali decisero l’evacuazione delle case più a rischio.
L’operazione non fu affatto semplice: a convincere la povera
gente a lasciare le case, costruite con tanta fatica, intervennero non solo il
sindaco, il segretario comunale ed il parroco don Romeo Rucci, ma anche le
forze dell'ordine. Addirittura, una donna ostinata, per non lasciare la propria
casa, si nascose in una buia soffitta. Quando venne trovata, tra le lacrime,
gridò "Lasciatemi morire qui".
Il mese di febbraio del 1956 viene ricordato ancora oggi come uno dei
mesi più gelidi di tutto il XX secolo. "Bufere di neve di inaudita violenza", "Nuove bufere di neve si abbattono sul
Teatino", "Una nuova ondata
di gelo si è abbattuta sull'Italia", erano questi i titoli che
quotidianamente si leggevano sui giornali nazionali e che testimoniavano una
situazione che, giorno dopo giorno, diventava sempre più drammatica.
Le nevicate cominciarono a scendere copiose nei primi giorni di
febbraio, nelle aree interne ed anche sulla costa. Molti i comuni abruzzesi
rimasti isolati: i giornali parlarono di 89 comuni su un totale di 102. Il 5
febbraio proseguirono intense bufere di neve sia all’interno che sulla costa. A
Chieti la coltre nevosa raggiunse il metro di altezza. Dopo una breve pausa, il
giorno 6 una nuova ondata di maltempo si è abbatté su tutto l’Abruzzo, fino al
giorno 8. Dopo una tregua di un giorno, nel quale si rivide un pallido sole, si
verificarono ancora abbondanti nevicate, creando enormi disagi alla popolazione
e ai tanti comuni rimasti completamente isolati. Le precipitazioni nevose
cessarono il 20 febbraio e, con l’innalzarsi delle temperature, la neve
cominciò rapidamente a sciogliersi. Le successive abbondanti piogge
contribuirono a peggiorare ulteriormente la situazione, che portò al collasso
di tutto il costone orientale.
La mattina del 22 febbraio, alle ore 10,45 si udì un forte
boato, simile allo scoppio di una bomba: una quarantina di case poste su via
Adriatica, si staccarono dalle fondamenta, rovinarono su se stesse e
cominciarono a scivolare verso il basso, alzando un immenso polverone. Fortunatamente,
tutta la zona era già stata evacuata e le famiglie ospitate nei locali della
scuola elementare.
Gli unici ancora presenti nella zona erano le suore delle
Figlie della Croce, all’interno dell’asilo, e don Michele Ronzitti, che al
momento del disastro si trovava nella cappella di S. Giovanni Battista,
all’interno della chiesa di San Pietro, intento a sbrigare le pratiche per un
matrimonio.
È Giorgio Pillon a raccontare quei convulsi momenti, quando
le suore rimasero a vegliare il Sacramento custodito in un’artistica pisside
dorata: "E fu proprio quando don
Michelino Ronzitti prese la pisside e se la strinse al petto che si udì un
lungo e sordo boato. Poi tutto prese a sussultare: i pavimenti, i soffitti, le
pareti. Grossi squarci si aprirono qua e là mentre un polverone irrespirabile
avvolgeva il sacerdote e le dodici monache. Suor Celestina gridò: «Gesù,
salvaci!». L’asilo non crollò subito. Rimase invece ancora saldo mentre tutto
intorno sprofondava. Fu così che don Michelino e le Suore poterono mettersi
miracolosamente in salvo. Pochi minuti dopo anche l'asilo crollava… Don Romeo,
il parroco quasi ottantenne, aveva dovuto anche lui sfollare, come molti aktri
suoi parrocchiani. Però appena seppe della frana corse verso la piazza, entrò
in chiesa piangendo e cadde in ginocchio davanti la statua di San Pietro. Così
lo trovarono alcuni fratelli della congrega. Il vecchio sacerdote pareva
impazzito. Parlava da solo, invocava i Santi, biascicava una orazione. Ogni
tanto ripeteva: «Santo Legno della Croce, proteggici tu!»".
In tutta la zona ci fu un fuggi-fuggi generale. Solo quando
la situazione cominciò a calmarsi, pian piano la gente cominciò ad affacciarsi
per cercare di capire quello che era successo. Dopo mezz’ora, tutta la
popolazione si rimboccava le maniche e collaborava con le autorità.
Don Romeo Rucci, aiutato dai parrocchiani, provvide a
trasferire le statue e le suppellettili presso la vicina chiesa di Sant’Antonio
di Padova.
Due giorni dopo, il 24 febbraio, il parrocoorganizzò
un’imponente processione religiosa con la statua di San Michele Arcangelo, le
reliquie della Sacra Spina, del legno della Croce e quella del braccio di Santa
Liberata. Inoltre, i parroci delle tre parrocchie, di comune accordo, decisero
di esporre le reliquie più preziose conservate nelle rispettive chiese, per
impetrare il soccorso e la protezione divina.
Subito dopo la processione scoppiò un violento temporale. Ci
fu di nuovo tanta paura tra la popolazione. In molti pensarono che la pioggia
violenta avrebbe completata l'opera di distruzione della frana. Durante le
discussioni paesane, qualcuno osservò che era normale
quella situazione, avendo portato in processione la statua di San Michele:
"Ma il Santo viene portato per la
città solo quando desideriamo che piova, quando vogliamo vincere la siccità
estiva. Meglio sarebbe stato mostrare la statua di San Giuseppe". Ma
in pochi badarono a quelle singolari osservazioni.
Altre 60 famiglie sfollate (per un totale di 117 famiglie
ufficialmente registrate), vennero sistemate in gran parte nei locali delle
scuole elementari e delle medie, dove ricevettero pacchi di viveri e indumenti
forniti da privati, autorità ed enti.
Tra i primi provvedimenti del Governo, ci furono
l’assegnazione di 50 milioni di lire per le opere di pronto intervento e per
l’acquisto di case prefabbricate da assegnare agli sfollati, mentre l’Istituto
delle Case Popolari, appaltò subito due lotti di 30 alloggi ciascuno, per
l’importo di 104 milioni.
Una delle prime iniziative popolari fu la costituzione di un
Comitato Civico per la raccolta di fondi a favore degli sfollati. In circa un
mese si raggiunse la ragguardevole somma di 3 milioni di lire: un importo molto
significativo in quanto le offerte giunsero spontaneamente da privati, a mezzo
vaglia postali o cambiari, versati su libretti aperti presso la Cassa di
Risparmio ed il Banco di Napoli.
Anche se l'attenzione principale era concentrata su via
Adriatica, c'era la massima allerta anche in altre zone della città: al Rione S.
Nicola, a Casarza ed a Torricella si registrarono i crolli di alcune case,
mentre enormi boati provenienti dal sottosuolo vennero uditi dalla popolazioni
nei pressi di piazza del Popolo e nel Rione San Michele. In via Tre Segni
crollò definitiva la via che conduceva a Fonte Joanna; altri scoscendimenti e
smottamenti del terreno continuarono particolarmente in tutta la zona
sottostante.
Lino
Spadaccini
Nessun commento:
Posta un commento