di
Luigi
Murolo
E’
proprio il titolo di un film il seguente incipit
proposto da Mauro Ferrara nel suo più recente intervento su «Monebo»: «La
signora con la falce non va in vacanza». Racchiude in se stesso una capacità sintetica
di grande efficacia che, con solo nove parole (tre sostantivi, due
preposizioni, due
articoli, un solo avverbio, un solo verbo, nessun aggettivo),
sottolinea temporalità e simultaneità
degli accadimenti, tutti giocati sull’ironia. Per quel po’ che mi è dato di
conoscere, ho solo un riferimento capace di rendere incredibilmente più
sintetico quanto esposto dall’amico. Addiritturacon una sola parola. La stessa
che avrei voluto usare per titolare il suo articolo e che si trova nelle pieghe
più riposte del dialetto vastese.Una parola oggi per sempre perduta tra i
locutori della lingua natia, superstite solo letterariamente nell’Ottocento,
con pochi vecchi della mia infanzia che ne sapevano cogliere tutte le nuances, e solo superficialmente
restituibile in italiano con un comunissimo sostantivo che, personificandola,
la neutralizza: la morte.
Ma
non è questo il suo reale significato. Quello che, ad esempio, troviamo
impresso nel sintagma nominale ZzaMàšša.
No! Quel testimone verbale implica il gioco crudele attraverso cui la signora
con la falce inganna gli uomini. Che di loro si fa beffe. Che – quasi non
bastasse – macchina quasi furtivamente, per recidere inesorabilmente il filo
della vita. No. Quel nome tabuato non riguarda gli uomini e le donne che,
carichi di anni, giungono al compimento dell’esistenza. Tutti lo sanno: il
termine del vivente è nell’ordine delle cose. Nei tempi andati, forse qualcuno
avrebbe osato dire qualcosa sulla scomparsa del novantenne Sofocle. O forse
qualcuno ha da lamentarsi di quella recente del novantunenne Zygmunt Bauman o
del centenario Claude Lévi-Strauss? No! Quella voce indica la crudeltà esercitata sui bambini, sui
giovani, su chi ha speranze o anche su chi non ce le ha – il clochard,
l’invisibile che non ha più la forza di sopportare il gelo e gli stenti. E’
l’atteggiamento della nera dama che briga senza soste per intrappolare la preda
di turno. Che non gioca a scacchi con l’Anton Bock del bergmaniano Settimo
sigillo. Che si impegna ostinatamente perché la faddžìjǝ (falce) spezzi lucrîššimunijǝ
(crescita) di chi ha ancora tantissimo da fare o da dire. Quasi a voler sottolineare
con l’antica iscrizione funeraria romana«fortuna
spondet multa multis, praestatnemimi» ciò che in italiano recita «la
fortuna promette molto a molti, non mantiene con nessuno».
La
domanda è: se la signora con la falce ha questo comportamento, può mai andare
in vacanza? Come può chiedere a se stessa un giorno di ferie? Come già detto,
non ha nulla da dividere con quella ZzaMàšša che ha il pregio di non
ingannare e di figurare se medesima nel bassorilievo lapideo incassato sul
paramento murario esterno della Torre di S. Maria. La signora di cui stiamo
parlando semina menzogne, trucchi, falsità. Macchina
tutte le insidie possibili per giungere al suo nefasto trionfo. Come la
chiamavano gli antichi abitanti della Terra del Vasto Aimone. Con una parola
che incuteva paura: impronunciabile, tabuata. Che solo lu ‘ngiuarmatàurǝ poteva esorcizzare. Nient’altro che un participio
presente sostantivizzato dicibile solo per una volta. Quale? Ebbene lo
dichiarerò qui e ora: Machinánde!
Nessun commento:
Posta un commento