Filippo Palizzi |
di Giuseppe Catania
L'undici settembre 1899, all'età di 80 anni, nella sua casa all'Arco Mirelli in Napoli, si spegneva la vita del pittore vastese Filippo Palizzi.
Era nato a Vasto il 16 giugno 1818 e passò la sua adolescenza, insieme al fratello Giuseppe, a Napoli. Fu allievo dell'Accademia di Belle Arti della città partenopea e qui ebbe i primi insegnamenti da Camillo Guerra e da Costanzo Angelini, da cui apprese il grande amore per la linea, la visione formale, che può ritenersi il primo efficace avviamento a quel rigore di espressione, uno dei suoi meriti
più schietti. Dall'Accademia passò allo studio di Giuseppe Bonolis.
Nei decenni successivi venne nominato Presidente dell'Accademia e Direttore del Museo Artistico Industriale.
I suoi studi dal vero furono compiuti nei dintorni di Napoli, principalmente a Cava dei Tirreni e Capodimonte: Le sue opere sono custodite in molte gallerie, in numerose collezioni private. L'Accademia di Napoli e la Galleria d'Arte Moderna in Roma posseggono importanti raccolte di quadri di Filippo Palizzi, da lui donate ed ordinate.
Nel Museo Civico a Vasto ampio spazio è dedicato a Filippo Palizzi : sono conservate circa 300 opere, tra dipinti, bozzetti, studi, disegni, ed altri dipinti dei fratelli Giuseppe, Nicola e Francesco Paolo Palizzi.
I suoi studi dal vero furono compiuti nei dintorni di Napoli, principalmente a Cava dei Tirreni e Capodimonte: Le sue opere sono custodite in molte gallerie, in numerose collezioni private. L'Accademia di Napoli e la Galleria d'Arte Moderna in Roma posseggono importanti raccolte di quadri di Filippo Palizzi, da lui donate ed ordinate.
Nel Museo Civico a Vasto ampio spazio è dedicato a Filippo Palizzi : sono conservate circa 300 opere, tra dipinti, bozzetti, studi, disegni, ed altri dipinti dei fratelli Giuseppe, Nicola e Francesco Paolo Palizzi.
Ne ricordiamo la vita e la memoria, quella che Filippo Palizzi ha intensamente dedicato al lavoro, non per destare altro che interesse artistico.
L'arte di Filippo Palizzi, che certamente intenerì l'animo semplice del pittore vastese, si orientò subito verso una istintiva predilezione alla vita animale, non soltanto soffermandosi nel tratto della forma esteriore, ma con intima concezione di naturale raffigurazione di compiutezza.
Infatti, per oltre mezzo secolo, del quadro egli fece protagonista l'animale, con sorprendente e mirabile continuità, sì da rendere le varie opere un unico lavoro nel genere, paragonabile al valenti animalisti giapponesi.
Certamente egli si sentì predestinato a tale compito per l'amore dei campi, il ricordo dei monti e delle selve, della gente sana forte e gentile dell'Abruzzo.
Palizzi, infatti, amò l'arte paesana, semplice, con una osservazione, però, rigorosa dei particolari, senza sottintesi cerebrali, con una fedele interpretazione del vero. Spirito libero, mal conciliava i legami cattedratici con quelli romantici, più inclini alla istintiva sua immaginazione.
Mandato all'Accademia per le lezioni di disegno (scriveva nella "Rivista Moderna" Firenze marzo 1900 il prof. Francesco Del Greco, docente di psichiatria all'Università di Napoli, nipote dell'artista), cominciò a far male, ad essere preso da un profondo scoraggiamento. Rimpiangeva i campi, il sole. Era tetro; non diceva una parola, ripetendo fra sé e sé: "La scuola non mi talenta. Non sono buono a nulla”. Il fratello (Peppino) vide in quello sguardo qualcosa di cupo e profondo, una grande energia compressa. Pensò di lasciarlo completamente libero. Di buon mattino gli poneva in tasca alcuni soldi, che dovevano bastargli per mangiare. E non gli suggeriva altro". "Filippo, con la tela ed i colori sotto il braccio, guadagnava il largo verso Posillipo, o altrove. Allora incominciò l'aspra lotta fra il solitario artefice e la natura, vasta, impenetrabile. Egli superò la difficoltà di prospettiva, intuì tante leggi di esecuzione pittorica maturando la sua tecnica ed il suo genio. Con questa passione ricordava i giorni in cui, giovinetto, al mattino, con passo svelto, fuggiva dalle case di Napoli, sotto il vivido sole, lungo il tremulo azzurro mar Tirreno. Ogni mattino era per lui una festa, e dei pochi soldi che aveva per rifocillarsi, parte ne donava a qualche pastorello affinchè tenesse fermo in un angolo un agnellino, o una giovenca. Bisognava studiarli".
Basta un tratto, una testa, uno schizzo nei vari atteggiamenti, per giungere, con sicurezza di tocco, alla realizzazione figurativa, senza pigrizia, nella mistificazione e senza mania di facile conquista della fama o della popolarità basata sulla superficialità.
Si avvicinava l'epoca dell'Esposizione Artistica. Peppino lo credè maturo per qualsiasi cimento, e non smise di esortarlo. E Filippo ecco porsi con slancio al lavoro e dire : o riesco a qualche cosa, altrimenti mi uccido!”
"Dovette essere ben curiosa l'impressione provata dai sommi pontefici del- l'Accademia quando, fra quadri in cui primeggiavano templi greci e romani e gravi coturnati personaggi, nascosero, sorridenti, un piccolo dipinto: una stalla di vacche, lurida, cruda e potente. Ed il popolo ad arrestarsi li, a scovare quella indecenza che sfacciatamente occhieggiava in un angolo. Tutti ad ammirare i bellissimi animali, la rustica e semplice scena"
"...Osservatore attento, profondo, nonostante fosse di poca cultura, intuì presto i legami che connettevano i vari esseri fra loro e l'ambiente. Vide gli insetti e i piccoli mammiferi avere la tinta del suolo in cui vivono. Vide le piante e gli animali, diversi, a seconda che guadagnavasi le cime dei monti”, l’arte di Filippo Palizzi si fonda sul particolare suo modo di vedere. con sensazioni complete, tendenti alla perfezione, che lo accompagnano per tutta la vita, sì da suggerirgli le memorande parole: "Vorrei rinascere per ricominciare !"
L'animale è quasi costantemente ritratto in moto, riprodotto in qualche fuggevole atto d'amore, di impeto, di ferocia; in cammino, nel salto, nel volo, con l'occhio vivace; esitante.
L'occhio, poi, di ciascun animale, potrebbe fornire inesauribile argomento per uno studio a parte. L'angoscia e la disperazione che è nell'occhio dell'animale inseguito o ferito, la gioia o la letizia del cane che aspetta il richiamo del padrone, sono dal Palizzi fissati con paziente maestria, con potenza di significato che sfiora il naturale.
Il "Diluvio Universale" è come un poema che celebra la natura ove, in una totale rappresentazione, sono raccolte le forme di vita animale, del ciclo, del mare, della terra. Nel silenzio, dopo la distruzione, l'Arca si poggia sull'Ararat e si apre per ripopolare le valli di una nuova vita.
Fedele interprete della natura, in questo quadro Filippo Palizzi, in una visione d'assieme, ha formato quasi una antologia di tutta la sua produzione di grande animalista, la cui ragione di vivere dell'artista consiste nella gioia di osservare e raccontare un aspetto di questo mondo, con candore ed estrema predilezione.
Sovente andava ripetendo: "Un uomo che lavora lentamente e sul serio, non mette tutto se stesso nei suoi lavori. Spesso ne porta gran parte nella tomba".
E questa considerazione si maturava in concretezza, specie negli ultimi anni della sua vita, dopo che da lungo tempo, aveva promesso di donare alla chiesa di San Pietro di Vasto, un quadro di San Giovanni. Non si sentiva disposto a ciò dopo aver adorato tante e diverse forme di vita.
"Prima di morire lo farò", andava ripetendo, preso da un segreto rimorso. "A 80 anni fu colpito da un grave attacco di influenza che gli impedì di scrutare ancora nel miracolo del mondo esterno. Ed allora il desiderio prese forma e si pose al lavoro. Fu un lavoro ardente, consumatore.
Nel pieno dell'estate lavorò ad una grande tela nella Sala dell'Istituto di Belle Arti in Napoli, salendo e ridiscendendo da una scaletta presso il dipinto, tornando a casa sudato ed esaurito in modo indicibile. La vecchia governante ne era disperata. Ma il sublime vegliardo, tutto lieto, diceva: "Questo lavoro mi fa un bene grandissimo." Egli sentiva nel petto sorgere un inno alla vita; sentiva la giovinezza di un tempo.
Era l'antico genio che metteva in lui l'ultimo, possente lampo e consumavalo. Quel quadro fu la sua fine... come gli antichi filosofi di Atene, la sera, infermo di grave "ateromasia", passeggiò nella sua casa appoggiato al braccio dei suoi discepoli; accese la sigaretta; disse qualche motto arguto. Ma il giorno appresso si spense subitamente...".
Come spiegare in Palizzi pittore naturalista, rigoroso, appassionato, quest'ultima rivelazione di un quadro religioso?". La questione venne sollevata da moltissimi critici, tra cui il Rastignac nella Tribuna. Ebbe a discutersi di decadenza e di coscienza religiosa, e non furono pochi a contestare l'una e l'altra tesi. Ma Filippo Palizzi non guardò mai ai problemi del misticismo, giacché la sua mente fu tutta assorbita nell'arte, chiusa nella calda, vivace ebbrezza del dato, del concreto e distinto. Lungo tutti i suoi giorni ammirò sempre i portenti dell'anima. Il suo spirito eroico fu sempre desto, e, nell'ultimo quadro volle rivelarsi con atto supremo. Ecco quanto viene interpretato dal dipinto "Ecce Agnus Dei" donato alla chiesa di San Pietro di Vasto.
"Sulle verdi, fresche rive del Giordano, da rinato bosco avanzavasi per misterioso sentiero il Battista, rude, gigante, fiero; le gote infossate, fulva arsiccia la chioma, l'occhio ardente in un ideale; ad un gruppo di oranti addita il Redentore, che lo segue, candido, niveo, bionda la chioma, ed il volto, lo sguardo rapito nel ciclo, come in un atto di dedizione suprema. E gli oranti, lì raggruppati solo un vecchio in ginocchio, pensoso, che adora; una giovinetta che guarda, stupisce, ammira, ama; un fanciullo, in cui balena il raggio della coscienza.
Una simbolica croce luminosa cinge le vesti di Gesù, ed in alto la mistica colomba dispiega le ali candide fra trionfi di luce e nuvole meravigliose.
" Il dipinto reca la dedica e la firma di Filippo Palizzi, in basso a sinistra della tela, con questo scritto dettato da sincero affetto verso la città natale: "Oggi 16 giugno 1898 compio anni 80 e sto alacremente lavorando in questo quadro "Ecce Agnus Dei" promesso in dono alla chiesa di San Pietro nel mio paese natio, Vasto. Quest'opera io eseguo con gran trasporto e spero portarla a termine felicemente. Mi auguro che i miei concittadini l'accetteranno di buon grado e vorranno conservarla in memoria dell'affetto grande del Loro con cittadino Filippo Palizzi".
Giuseppe Catania
L'arte di Filippo Palizzi, che certamente intenerì l'animo semplice del pittore vastese, si orientò subito verso una istintiva predilezione alla vita animale, non soltanto soffermandosi nel tratto della forma esteriore, ma con intima concezione di naturale raffigurazione di compiutezza.
Infatti, per oltre mezzo secolo, del quadro egli fece protagonista l'animale, con sorprendente e mirabile continuità, sì da rendere le varie opere un unico lavoro nel genere, paragonabile al valenti animalisti giapponesi.
Certamente egli si sentì predestinato a tale compito per l'amore dei campi, il ricordo dei monti e delle selve, della gente sana forte e gentile dell'Abruzzo.
Palizzi, infatti, amò l'arte paesana, semplice, con una osservazione, però, rigorosa dei particolari, senza sottintesi cerebrali, con una fedele interpretazione del vero. Spirito libero, mal conciliava i legami cattedratici con quelli romantici, più inclini alla istintiva sua immaginazione.
Mandato all'Accademia per le lezioni di disegno (scriveva nella "Rivista Moderna" Firenze marzo 1900 il prof. Francesco Del Greco, docente di psichiatria all'Università di Napoli, nipote dell'artista), cominciò a far male, ad essere preso da un profondo scoraggiamento. Rimpiangeva i campi, il sole. Era tetro; non diceva una parola, ripetendo fra sé e sé: "La scuola non mi talenta. Non sono buono a nulla”. Il fratello (Peppino) vide in quello sguardo qualcosa di cupo e profondo, una grande energia compressa. Pensò di lasciarlo completamente libero. Di buon mattino gli poneva in tasca alcuni soldi, che dovevano bastargli per mangiare. E non gli suggeriva altro". "Filippo, con la tela ed i colori sotto il braccio, guadagnava il largo verso Posillipo, o altrove. Allora incominciò l'aspra lotta fra il solitario artefice e la natura, vasta, impenetrabile. Egli superò la difficoltà di prospettiva, intuì tante leggi di esecuzione pittorica maturando la sua tecnica ed il suo genio. Con questa passione ricordava i giorni in cui, giovinetto, al mattino, con passo svelto, fuggiva dalle case di Napoli, sotto il vivido sole, lungo il tremulo azzurro mar Tirreno. Ogni mattino era per lui una festa, e dei pochi soldi che aveva per rifocillarsi, parte ne donava a qualche pastorello affinchè tenesse fermo in un angolo un agnellino, o una giovenca. Bisognava studiarli".
Basta un tratto, una testa, uno schizzo nei vari atteggiamenti, per giungere, con sicurezza di tocco, alla realizzazione figurativa, senza pigrizia, nella mistificazione e senza mania di facile conquista della fama o della popolarità basata sulla superficialità.
Si avvicinava l'epoca dell'Esposizione Artistica. Peppino lo credè maturo per qualsiasi cimento, e non smise di esortarlo. E Filippo ecco porsi con slancio al lavoro e dire : o riesco a qualche cosa, altrimenti mi uccido!”
"Dovette essere ben curiosa l'impressione provata dai sommi pontefici del- l'Accademia quando, fra quadri in cui primeggiavano templi greci e romani e gravi coturnati personaggi, nascosero, sorridenti, un piccolo dipinto: una stalla di vacche, lurida, cruda e potente. Ed il popolo ad arrestarsi li, a scovare quella indecenza che sfacciatamente occhieggiava in un angolo. Tutti ad ammirare i bellissimi animali, la rustica e semplice scena"
"...Osservatore attento, profondo, nonostante fosse di poca cultura, intuì presto i legami che connettevano i vari esseri fra loro e l'ambiente. Vide gli insetti e i piccoli mammiferi avere la tinta del suolo in cui vivono. Vide le piante e gli animali, diversi, a seconda che guadagnavasi le cime dei monti”, l’arte di Filippo Palizzi si fonda sul particolare suo modo di vedere. con sensazioni complete, tendenti alla perfezione, che lo accompagnano per tutta la vita, sì da suggerirgli le memorande parole: "Vorrei rinascere per ricominciare !"
L'animale è quasi costantemente ritratto in moto, riprodotto in qualche fuggevole atto d'amore, di impeto, di ferocia; in cammino, nel salto, nel volo, con l'occhio vivace; esitante.
L'occhio, poi, di ciascun animale, potrebbe fornire inesauribile argomento per uno studio a parte. L'angoscia e la disperazione che è nell'occhio dell'animale inseguito o ferito, la gioia o la letizia del cane che aspetta il richiamo del padrone, sono dal Palizzi fissati con paziente maestria, con potenza di significato che sfiora il naturale.
Il "Diluvio Universale" è come un poema che celebra la natura ove, in una totale rappresentazione, sono raccolte le forme di vita animale, del ciclo, del mare, della terra. Nel silenzio, dopo la distruzione, l'Arca si poggia sull'Ararat e si apre per ripopolare le valli di una nuova vita.
FilippoPalizzi, Diluvio Universale |
Fedele interprete della natura, in questo quadro Filippo Palizzi, in una visione d'assieme, ha formato quasi una antologia di tutta la sua produzione di grande animalista, la cui ragione di vivere dell'artista consiste nella gioia di osservare e raccontare un aspetto di questo mondo, con candore ed estrema predilezione.
Sovente andava ripetendo: "Un uomo che lavora lentamente e sul serio, non mette tutto se stesso nei suoi lavori. Spesso ne porta gran parte nella tomba".
E questa considerazione si maturava in concretezza, specie negli ultimi anni della sua vita, dopo che da lungo tempo, aveva promesso di donare alla chiesa di San Pietro di Vasto, un quadro di San Giovanni. Non si sentiva disposto a ciò dopo aver adorato tante e diverse forme di vita.
"Prima di morire lo farò", andava ripetendo, preso da un segreto rimorso. "A 80 anni fu colpito da un grave attacco di influenza che gli impedì di scrutare ancora nel miracolo del mondo esterno. Ed allora il desiderio prese forma e si pose al lavoro. Fu un lavoro ardente, consumatore.
Nel pieno dell'estate lavorò ad una grande tela nella Sala dell'Istituto di Belle Arti in Napoli, salendo e ridiscendendo da una scaletta presso il dipinto, tornando a casa sudato ed esaurito in modo indicibile. La vecchia governante ne era disperata. Ma il sublime vegliardo, tutto lieto, diceva: "Questo lavoro mi fa un bene grandissimo." Egli sentiva nel petto sorgere un inno alla vita; sentiva la giovinezza di un tempo.
Era l'antico genio che metteva in lui l'ultimo, possente lampo e consumavalo. Quel quadro fu la sua fine... come gli antichi filosofi di Atene, la sera, infermo di grave "ateromasia", passeggiò nella sua casa appoggiato al braccio dei suoi discepoli; accese la sigaretta; disse qualche motto arguto. Ma il giorno appresso si spense subitamente...".
Come spiegare in Palizzi pittore naturalista, rigoroso, appassionato, quest'ultima rivelazione di un quadro religioso?". La questione venne sollevata da moltissimi critici, tra cui il Rastignac nella Tribuna. Ebbe a discutersi di decadenza e di coscienza religiosa, e non furono pochi a contestare l'una e l'altra tesi. Ma Filippo Palizzi non guardò mai ai problemi del misticismo, giacché la sua mente fu tutta assorbita nell'arte, chiusa nella calda, vivace ebbrezza del dato, del concreto e distinto. Lungo tutti i suoi giorni ammirò sempre i portenti dell'anima. Il suo spirito eroico fu sempre desto, e, nell'ultimo quadro volle rivelarsi con atto supremo. Ecco quanto viene interpretato dal dipinto "Ecce Agnus Dei" donato alla chiesa di San Pietro di Vasto.
Filippo Palizzi Ecce Agnus Dei |
"Sulle verdi, fresche rive del Giordano, da rinato bosco avanzavasi per misterioso sentiero il Battista, rude, gigante, fiero; le gote infossate, fulva arsiccia la chioma, l'occhio ardente in un ideale; ad un gruppo di oranti addita il Redentore, che lo segue, candido, niveo, bionda la chioma, ed il volto, lo sguardo rapito nel ciclo, come in un atto di dedizione suprema. E gli oranti, lì raggruppati solo un vecchio in ginocchio, pensoso, che adora; una giovinetta che guarda, stupisce, ammira, ama; un fanciullo, in cui balena il raggio della coscienza.
Una simbolica croce luminosa cinge le vesti di Gesù, ed in alto la mistica colomba dispiega le ali candide fra trionfi di luce e nuvole meravigliose.
" Il dipinto reca la dedica e la firma di Filippo Palizzi, in basso a sinistra della tela, con questo scritto dettato da sincero affetto verso la città natale: "Oggi 16 giugno 1898 compio anni 80 e sto alacremente lavorando in questo quadro "Ecce Agnus Dei" promesso in dono alla chiesa di San Pietro nel mio paese natio, Vasto. Quest'opera io eseguo con gran trasporto e spero portarla a termine felicemente. Mi auguro che i miei concittadini l'accetteranno di buon grado e vorranno conservarla in memoria dell'affetto grande del Loro con cittadino Filippo Palizzi".
Giuseppe Catania
2 commenti:
Dove è possibile visionare il quadro della fanciulla sullo scoglio a Sorrento del Palizzi?
Sì trova presso la Fondazione Internazionale Balzan a Milano.
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