di Lino Spadaccini
FOTO STORICHE>>>
anni, ma ancora tanti sono i rancori che accompagnano questa vicenda, forse per le cause dell’incidente mai del tutto chiarite, ed anche perché la stessa commissione tecnica, nominata per l’occasione, ammise il possibile errore del pilota, ma non escluse possibili guasti tecnici.
Molte testimonianze parlano di acrobazie effettuate
dal pilota prima dello schianto. Tesi questa sottolineata anche da alcune
testate giornalistiche nazionali, che l’indomani della sciagura titolarono “Un aereo precipita a Vasto durante un’ardita
evoluzione”, e che senza mezzi termini affermarono che «…il pilota era un giovane vastese che
evidentemente intendeva salutare i suoi familiari e vedere dall’alto i luoghi
che gli ricordavano la sua adolescenza». Queste tesi non trovarono
d’accordo il periodico localeHistonium,
che scrisse: «Si è parlato purtroppo con
leggerezza di apparenti evoluzioni su qualche giornale. No, non era un
carosello di baldanza, ma una tremenda giostra con la morte. La gioia e la
sventura si son date un unico convegno. La macchina e l’uomo si sono assaltati
in un duello terribile. Ogni aviatore si porta il segreto della fine ed ha
questo vantaggio sui pigmei della terra, che si appagano d’una diagnosi. Era
buono, calmo, prudente, riservato… non poteva buttare il nome, l’onore, il
valore in pasto alla esecrazione, non poteva. Invano cercheremo il segreto
della morte con una artificiosa costruzione di ipotesi tecniche. Povero figlio,
poveri innocenti…».
Errore umano o avaria tecnica? Mai
nessuno saprà dare una risposta certa a questa domanda. Sicuramente se il
pilota vastese non si fosse staccato dal suo compagno di volo, per compiere
alcuni giri sopra Vasto, la sciagura si sarebbe potuta evitare. Dalla relazione
dell’ufficiale tecnico, compilato in data 16 maggio 1951, il commento fu
eloquente: «si escludono le cause
tecniche». Anche se bisogna precisare che la valutazione venne fatta
soprattutto sulla base delle testimonianze delle persone e sulla verifica dei
motori «che non sono sbiellati e che
sicuramente erano funzionanti all’atto dell’incidente». Tutto il resto del
materiale «per esigenze di Polizia e di
soccorso»venne immediatamente rimosso dopo l’incidente da parte dei
Carabinieri e dei Vigili del Fuoco.
In mancanza di prove certe, venne
chiesta l’archiviazione, anche se gli indizi lasciarono «dubitare della prudenza, perizia e disciplina del pilota».
Il Sottotenente Della Guardia aveva al
suo attivo 266 ore complessive di volo, di cui 30 ore e 25 minuti con il tipo
di veicolo incidentato, l’ultimo dei quali fatto 9 giorni prima: sicuramente
troppe poche ore di volo su di un aereo pieno d’insidie e difficile da gestire.
Dal rapporto dell’inchiesta tecnico-disciplinare del 20 agosto 1951, si legge: «…è da escludersi a priori una sua adeguata
conoscenza sulle complesse installazioni dell’F.38, installazioni che
richiedono attenzione continua e riflessi immediati per quanto concerne
condotta e guida del velivolo».
Dalla loro comparsa in Italia, molti
furono gli incidenti gravi dovuti soprattutto a guasti al motore o scoppi di
pneumatici, che provocarono vittime fra i piloti ed in alcuni casi anche fra i
civili. In mancanza di motori nuovi e parti di ricambio, spesso gli aerei
vennero arrangiati alla meglio, e ciò bastò a fargli guadagnare la fama di
“aereo pericoloso”, oppure di “trappola”.
Basti pensare
che solo nel 1951 furono nove gli incidenti in cui rimasero coinvolti i
Lightning P38, tutti in forze al 3° Stormo. Se poi ci soffermiamo sulle cause
c’è da rimanere davvero perplessi: «precipitato
per avaria motori e incendiato», «atterraggio di fortuna per arresto motore»,
«danneggiato a seguito atterraggio pesante»,
«danneggiato in atterraggio a seguito retrazione carrello» e «perduto per piantata
motori». Troppi gli incidenti concentrati in pochi mesi, purtroppo anche
mortali, come quello di Vasto, che provocò l’inevitabile decisione di
sospendere il montaggio delle rimanenti cellule e di completare solo i biposto
ordinati. Nell’ottobre del 1955, dopo l’ennesimo incidente mortale, venne
sospesa ogni attività di volo e avviata la radiazione e la demolizione,
completata nel 1956.
Nato da Nicolino
e Anna Ruzzi il 18 gennaio 1926, Francesco Della Guardia era il settimo di
undici figli, anche se quattro morirono in tenera età, e lo stesso padre venne
a mancare quando lui aveva soli dodici anni, lasciando tutte le fatiche di
portare avanti la famiglia sulle spalle della moglie.
Appassionato di
volo, il giovane Francesco Della Guardia sin da giovanelasciò la sua città natale
per seguire il suo sogno, quello di volare. Persona rispettosa e disciplinata, proseguì
gli studi presso l’Accademia Aeronautica di Nisida, dove ottenne la promozione
a sottotenente con ottimi voti. Il coraggio non gli mancava di certo, ma sapeva
anche che il suo primo fondamento, alla quale non poteva transigere, era la
prudenza e la disciplina di volo. Ma in quella sciagurata mattina soleggiata
dell’11 maggio 1951, qualcosa non funzionò nel verso giusto.
Cerchiamo di ricostruire come si sono svolti i fatti
attraverso l’articolo apparso sul giornale Histonium:
«Verso le nove due caccia militari,
partiti dal campo di Palese (Bari) in normale volo d’allenamento, sorvolavano
la nostra città con provenienza dal mare, allorché l’apparecchio pilotato dal
concittadino tenente Francesco Paolo Della Guardia lanciava un'alta fiammata e
sprofondava a picco nel popoloso rione S. Michele, abbattendo due case, che
delimitavano Vico del Giglio. Cittadini del rione Croci e di Vasto Marina hanno
confermato l’incendio prima della caduta dell’aereo.
Questo, invece, è quello che si desume dalle
testimonianze delle persone, che vissero quei tragici momenti. Emilia Celenza,
che nella sciagura perse la sorella ed il padre, verso le nove del mattino,vide
l’aereo fare alcuni giri intorno alla città equalche acrobazia.Lo seguì con gli
occhi fino a quando scomparve tra le case, seguito da un boato e da molto fumo
nero. Capì subito che l’aereo si era schiantato vicino casa e, temendo per la
sua famiglia, cominciò a correre verso il Rione San Michele, ma non la fecero
passare.
«L’ultimo giro
– si legge ancora nella ricostruzione fatta dal giornale Histonium – vilissima
crudeltà della sorte, lo proietta davanti alle case… al balcone la mamma
plorante, la vecchia mamma… povera mamma, che ha intuito come tanti, il dramma
della carlinga pur ignorando lo spaventoso epilogo e non può udire l’estremo
grido del figlio tra gli artigli feroci della morte… e sfiora il tetto della
sua casa, scorre ancora verso il campo Boario come inseguito, braccato, ma vi
sono i bimbi sul prato… c’è chi vede sporgersi un braccio atteggiato al gesto
disperato di chi implora di sgombrare… inutilmente… punta alla parte opposta
verso S. Antonio Abate col fiataccio freddo della morte alle spalle, vira
ancora nel tentativo supremo di buttarsi col fatale carico verso il mare… uno
scoppio, alta la fiamma, s’innabissa in un rogo spaventoso abbattendo,
schiantando… Vico del Giglio s’imporpora di bagliori e di sangue…».
L’aereo fece alcuni giri intorno a Vasto ed anche
alcune acrobazie, ma c’era qualcosa che
non andava per il verso giusto: il pilota cominciò a volare a quota
bassa e sembrava che volesse atterrare sul campo sportivo. Giovanni Di Rosso,
all’epoca aveva dieci anni e, insieme ad una decina di ragazzi, stava giocando
proprio nel campo sportivo; vedendo l’aereo in difficoltà, si portarono su un
lato e fecero segno al pilota di atterrare (prima di questa testimonianza
diretta, avevo sempre sentito raccontare dalla gente che il pilota volendo
atterrare sul campo sportivo, fece segno ai ragazzi che giocavano di andarsene,
ma loro, incoscienti, pensando di essere stati salutati dal pilota,
contraccambiarono il saluto rimanendo a giocare).
Un’altra preziosa testimonianza è quella di Angelo Del
Lupo, che poco prima dell’incidente stava giocando sul terrazzo di casa in
prossimità del campo sportivo: «Avevo
cinque anni e stavo giocando sulla terrazza quando udii il rombo dei motori e
vidi apparire l’aereo che sorvolava via Tobruk, inclinato in virata verso il
campo sportivo. L’aereo era a non più di 20 metri di distanza da me e potei
osservare distintamente il pilota nella carlinga. Nell’incoscienza legata
all’età ebbi tempo per un moto di delusione derivante dal fatto che mi
aspettavo di vedere un pilota con cuffia di pelle ed occhialoni così come nei film
postbellici in cui i piloti da caccia americani abbattevano i cattivi “musi
gialli”. E invece il pilota indossava un semplice berretto da ufficiale, con
una cuffia molto voluminosa per le comunicazioni radio. L’aereo si allineò
perfettamente al lato lungo del campo sportivo e vi passò ad una quota di 2-3
metri, come se effettivamente volesse compiere un impossibile atterraggio.
Alcuni giocatori della Pro Vasto che stavano allenandosi si gettarono a terra
ma l’aereo non toccò mai il campo. Quando mi aspettavo ormai lo schianto sulla
curva alta del velodromo in terra battuta, l’aereo riprese quota e ciò mi diede
una sensazione di sollievo. In effetti l’aereo dopo essere salito di venti
metri, a causa della bassa velocità, andò in stallo e precipitò come un sasso;
ricordo benissimo la vampata, il boato ed un’ala che intatta fu proiettata in
alto».
Osvaldo Santoro, appassionato di aerei, si trovava
quel giorno nell’officina del padre in Via S. Michele. Egli afferma che l’aereo non avrebbe mai potuto
atterrare allo stadio perché, pur andando ad una velocità non eccessivamente
sostenuta, aveva comunque bisogno di molto più spazio che i centoventi metri
che aveva a disposizione.
Il padre di Osvaldo Santoro, “Mastro Peppino”,
possedeva un’officina meccanica, dove ancora oggi si trova, e costruiva
bruciatori per la nafta, inoltre si dilettava nelle invenzioni e, proprio quellamattina,
insieme a Zì Paolo, padre di Lello Petroro, era andato a Vasto Marina per
provare la “cioccolara”, una piccola barchetta per prendere le vongole. Come
aiutante si erano portati il giovane Michele Celenza, marito di Maria Baiocco,
deceduta nell’incidente. Osvaldo aveva 21 anni e si trovava dentro la bottega
insieme ad un amico, Tonino. Sentendo arrivare l’aereo pilotato dal Della
Guardia, essendo egli stesso grande appassionato di volo, uscì fuori, dalla
porta posta sul retro dell’officina, che ha la vista verso il mare. Il padre in
quel periodo stava scavando dietro la bottega per allargare il locale e tutta
la terra ammucchiata formava una piccola collinetta su cui Osvaldo Santoro salì
per osservare meglio. L’aereo come rotazione andava piano ed emetteva un
sibilo, perché si sentiva il vortice delle eliche piuttosto che il rumore dei
motori. Secondo Santoro, il pilota doveva fare la virata con cabrata, ma non vi
riuscì essendo troppo basso e con poca forza. Capì subito che non poteva
riprendersi. All’ultimo momento lo vide girare verso il mare e si buttò a terra
per paura che gli venisse addosso. Mentre fissava l’aereo ripeteva: «Mo cade, mo cade!».Tonino non credeva
ai presagi di Osvaldo e rimase impalato in piedi, ma lui, prontamente, lo
spinse buttandolo a terra.Egli stesso si buttò all’interno delle fondamenta.
In pochi attimi, saranno passati davanti agli occhi
del pilota le fredde immagini fisse della sua breve vita. La rupe, che forse
poteva rappresentare la salvezza, era a poche decine di metri, ma a Della Guardia
sembravano chilometri, interminabili chilometri da percorrere. Fu inevitabile,
incontrollabile, il precipitare a picco verso le case che delimitavano Vico Del
Giglio.
La sciagura.Dietro la schiena Santoro sentì una forte
sensazione di calore a causa dell’olio bollente che lo aveva sfiorato e si
sentì toccare da qualcosa, forse un pezzo dell’aereo. Il tetto dell’officina era
sfondato, dentro c’era fuoco dappertutto ma, essendoci solo ferraglie, capì che
non poteva bruciare nulla. Passando sul lato esterno dell’officina, vide
l’amico appoggiato su una trave, immobile: aveva le orbite degli occhi verdi e
la faccia gialla. Vicino a lui, dal tetto, colava alluminio fuso causato da un
pezzo di fusoliera, che era rimasto incastrato penzoloni sul tetto.
Sul luogo del disastro intervennero subito le forze
dell’ordine, i pompieri e tante persone che richiamate dall’enorme boato e dalla
coltre di fumo nero, che si era alzata verso il cielo, si erano riversate su
Via San Michele per soccorrere le vittime e scavare tra le macerie nella
speranza di trovare qualche persona ancora in vita. I primi a soccorrere furono
i generosi volontari che abitavano in zona, tra questi, Silvio Petroro, che al
momento del disastro si trovava nella piana dell’Aragona, nelle vicinanze della
sua abitazione a Palazzo Mariani. Il ricordo di quei tragici momenti è rimasto
indelebile nella sua memoria come in una limpida fotografia. Quando l’ho
incontrato per sentire la testimonianza di chi ha vissuto in prima persona quei
momenti drammatici, sono rimasto impietrito mentre lo sentivo rivivere quelle
scene strazianti di dolore delle vittime.
Ecco come si presentava la scena del disastro
descritta con le parole di Silvio Petroro: «…guardavo
il campo sportivo quando il rombo di un aereo che solcava il cielo attirò la
mia attenzione: arrivava dal mare ed il mio sguardo lo seguì e lo vide fare un giro
per Vasto, poi rispuntò verso Sant’Onofrio per prendere la direzione del mare.
Sentii
all’improvviso un gran boato ed il mio pensiero andò subito alla grande
disgrazia: mi trovavo a soli trecento metri dal luogo dove era caduto l’aereo,
avevo vent’anni, ed arrivare sul posto si è trattato di frazioni di secondo.
Uno scenario
terrificante apparse ai miei occhi: la strada era cosparsa di detriti, mattoni,
pezzi di aereo, case demolite, un gran fumo che s’innalzava nel cielo, l’aria
irrespirabile per la puzza della carne umana e di pecora che bruciavano e la
grande paura che la pompa di benzina dell’Agip, posta sulla strada a pochi
metri dalla caduta dell’aereo, potesse andare a fuoco».
La signora Sputore Incoronata era vicino alla porta di
casa e stava per entrare, l’aereo cadde proprio sulla sua abitazione, che
crollò mestamente nell’urto, era rimasto solo un quadretto di Sant’Antonio
appeso ad una parete. Probabilmente una borsa che si mise in testa la salvò.
Nicola Celenza, 59 anni, lavorava come usciere al
tribunale di Vasto ed era ricordato da tutti come un vero gentiluomo. Quella
mattina, come suo solito, si recò, a piedi, al convento dell’Incoronata per
ascoltare la Santa Messa e prendere la comunione. Così fece anche quella
mattina e, al ritorno, si fermò a comprare la verdura da cucinare per il
pranzo. Nicola portava il lutto per la morte della moglie avvenuta quaranta
giorni prima.
Tornato a casa, comandò la figlia Emilia di andare
dalla sorella Natuccia (Liberata), perché Olimpia, sua figlia, era a letto con
la febbre. Emilia obiettò dicendo che non poteva andare perché doveva lavare i
panni; l’altra sorella, Anna, scherzando le disse: «Se mi dai mille lire, te li lavo io i panni!». Michele, l’altro
figlio di Nicola, si trovava ad Ancona come Brigadiere di Finanza.
Al momento del disastro, Anna era affacciata alla
finestra intenta a stendere i panni e venne investita dal serbatoio della
benzina. Il padre, che si trovava in una stanza sotto casa, sentendo gridare la
figlia, uscì fuori e anche lui venne investito dalle terribili fiamme. Osvaldo
Santoro ricorda che Nicola aveva la testa che sembrava uno “scafandro”. Era
tutto pelato e grigio, gli si toglieva la pelle dal corpo e ripeteva in modo
gutturale: «Aiutatemi, aiutatemi!». Era
tutto bruciato e Maria Cristina Bile, figlia del primario dell’Ospedale Civile
di Vasto, tra le protagoniste dei soccorsi, prese delle coperte per avvolgerlo.
Il ricordo di Silvio Petroro: «Da quelle rovine vidi uscire la figura di una persona che porterò
nella mia memoria per tutta la vita: l’aspetto irriconoscibile, senza più
vestiti, completamente nudo, privato degli occhi, si incamminò per la strada
senza emettere grida ma solo sommessi lamenti per l’intensità dei dolori.
Gli stavo
accanto e non sapevo cosa fare: dopo una ventina di passi quella figura stava per
crollare e la presi tra le mie braccia per adagiarla sul terreno avvertendo le
dita delle mie mani conficcarsi dentro la sua stessa carne.
Sono passati
gli anni ma il ricordo di quelle dita immerse nel corpo bruciato, come fosse
burro, non mi ha ancora abbandonato: era il corpo di Nicola Celenza che,
caricato sull’autoambulanza, scortai, seduto a fianco del lettino, nella corsa
sino all’ospedale. Mi trovai così, chiuso, solo con quest’uomo che gridava,
gesticolava con le mani, privo degli occhi a seguito dello scoppio della
miscela del serbatoio dell’aereo. Ebbi tanta paura perché gridava e con le mani
cercava di aggrapparsi come per prendere qualcosa che non trovava; i suoi
lamenti erano strazianti e, chiuso nell’autoambulanza, cercavo di non farmi
toccare, volevo uscire, volevo fuggire perché, da vicino e rinchiuso
nell’abitacolo del furgone, la figura di quella degnissima persona che
conoscevo per la sua bontà e signorilità frequentando da bambino la sua casa,
mi incuteva spavento». Nicola Celenza
morì alle ore 23 dello stesso giorno in un letto dell’ospedale.
Anche la figlia, Anna, venne presto trasportata in
ospedale. Prese la comunione e prima di spirare disse alla sorella Emilia: «Ringrazia la Madonna che non ti sei trovata
in questo inferno!». Anche il cane di famiglia, Alì, venne investito dalla
benzina e, reso cieco e sofferente dal carburante, venne soppresso. Poco dopo
l’incidente, Peppino Cianci (luLangianese),
che affittava le macchine a Piazza Rossetti, consegnò ad Emilia il portafoglio,
che gli aveva consegnato il padrepoco prima di morire.
Maria Baiocco aveva 21 anni. A 18 anni sposò Michele
Celenza. Dalla loro unione nacque prima una figlia, che morì, e poi Giuseppe,
che all’epoca del disastro aveva 7 mesi. Il marito, come già accennato in
precedenza, si trovava a Vasto Marina con Mastro Peppino Santoro. Maria era
davanti casa e vicino a lei,adagiato sopra il seggiolone,c’era suo figlio. Le
fiamme avvolsero i corpi dei due sventurati. Maria in preda alla disperazione
scappò subito verso la casa di Elena, un’infermiera che abitava lì vicino, la
quale la fece sdraiare a terra avvolgendola con delle coperte; ricordandosi del
figlio Giuseppe, tornò indietro, in mezzo alle fiamme, cadde a terra e non si rialzò più. Era
completamente nuda, raccolta, venne coperta al meglio e trasportata in ospedale
in moto. Peppino Baiocco, fratello di Maria, apprezzato falegname della nostra
città, aveva 17 anni e ricorda che Don Nicola Di Clemente, la sera della
sciagura andò in ospedale a trovare le vittime della sciagura, ma non volle
confessare Maria perché vide che il suo volto era completamente intatto e non
gli sembrò in pericolo di vita. In realtà, tutto il resto del corpo era
bruciato. Quella stessa notte cominciò a delirare e si mise anche a cantare Faccetta nera. Morì dopo tre giorni di
agonia il 14 maggio alle ore 23.
Ma torniamo sul luogo del disastro, seguendo ancora le
parole di Silvio Petroro: «Dopo il
ricovero in ospedale tornai con lo stesso mezzo del pronto soccorso sul luogo
del disastro per ricominciare l’opera di soccorso: in mezzo a tante macerie
sentii un lamento ed entrato in una casa distrutta cercai di trovare uno
spiraglio, ma non potevo andare avanti per il fumo e l’odore nauseante di carne
bruciata; fui così costretto a ritirarmi, ma il pensiero di quel lamento di
bimbo mi spinse ad arrampicarmi sul muro che era rimasto della casa per poter
vedere meglio. In quello stesso momento si alzò un grido dalla folla per
preavvertirmi che il muro sul quale mi trovavo stava crollando e così con grande
riflesso mi buttai giù prima di essere travolto: ma quel lamento di bimbo non
mi permise di rinunziare al soccorso e, strappatomi la camicia davanti
all’officina di Santoro, la immersi in un fusto con dentro dell’acqua nel
tentativo di arrivare sino in fondo da dove si erano uditi i lamenti». Ma
tutti gli sforzi risultarono vani poiché la respirazione non era sufficiente.
Il corpo del piccolo Giuseppe Celenza, di appena sette mesi, fu estratto e
portato via dai pompieri e da altri volontari.
La signora Ciarallo Anna aveva 45 anni e si trovava
dentro casa intenta a lavare la biancheria. Il marito era fuori Vasto per
lavoro. Maria, la figlia, era andata dalla sarta, mentre suo fratello, Vincenzo,
lavorava di fronte casa presso la ditta Desiati. Quando cadde l’aereo, lo
spostamento d’aria sbalzò la povera Anna fuori casa e venne travolta dalle
macerie. Con le poche forze tentò di rialzarsi, gridando e chiedendo aiuto, ma
non ce la fece e morì subito.
Tra la numerosa folla accorsa sul luogo
dell’incidente, si lavorò senza sosta nella speranza di recuperare qualche
corpo ancora in vita. Mattoni, calcinacci, mobili in frantumi e quant’altro si
cercò di rimuovere celermente, ma quanto affiorò una ciocca di capelli si capì
subito che non c’era più nulla da fare. Era la sig.ra Anna Ciarallo. «Mi guardavo intorno e mi vedevo sempre più
solo, mancando ai più il coraggio di prendere un corpo straziato –
ricordava ancora Silvio Petroro –assieme
alla signora Maria Cristina Bile incitammo la gente affinché ci desse una mano.
Il corpo straziato della poveretta si presentava alla nostra vista con il volto
e la testa maciullati: lo spettacolo non era per tutti e la gente arretrava per
non vedere; per tirarla fuori dovetti prenderla sotto le braccia e così la sua
testa penzoloni e senza vita poggiava sulla mia guancia mentre lo sforzo per
sollevarla era enorme a causa dei vestiti che opponevano resistenza sotto il
groviglio dei detriti e mattoni».
La famiglia di Scipione Neri era originaria di Termoli
e viveva in una delle due case sulle quali cadde l’aereo. La moglie di
Scipione, Zi Spinucce (Zia Spina), era davanti casa a stendere i panni sulla
corda. La figlia, Nicoletta, era sul seggiolone lì vicino. Quando cadde l’aereo
la signora Spina venne investita dalle fiamme, riportando gravi ferite al volto
che la segnarono per sempre. Capito la gravità dell’incidente, cercò di
raggiungere la figlia, ma venne trattenuta dagli uomini che erano intervenuti:
ormai per la piccina non c’era più nulla da fare. Il piccolo corpicino martoriato
venne recuperato verso le ore 15 del pomeriggio.
Subito dopo il disastro, tutti i cittadini della zona
si prodigarono nell’opera di soccorso. Tra di essi, oltre a quelli già citati,
ricordiamo Mario Caldarelli, Espedito Sarodi, Alessandro Borrelli, Mimì Molino,
Adelmo Cipollone, il personale della ditta Di Fonzo, il Consigliere di Corte
d’Appello dr. Florio Longo, il pretore dr. Vittorio Liberati, e tanti altri.
Tutti gli estintori furono portati sul posto e messi in funzione dai
volenterosi cittadini, mentre accorreva la vicina motopompa in servizio sulla
strada Vasto-Cupello. Dopo qualche ora arrivarono in rinforzo le squadre dei
pompieri di Chieti, al comando del tenente Giuseppe Menci, e Termoli.
Dodici furono le persone coinvolte nell’incidente
investite dall’urto dell’aereo e dalle alte fiammate provocate dalla benzina.
Verso le tredici, dai rottami dell’aereo, fu estratto il corpo irriconoscibile
del tenente Della Guardia. La sua figura era tutta un groviglio di carne e
ferro, ma un lato del suo viso rimase completamente intatto.
La camera ardente venne allestita all’interno
dell’Aula Magna dell’Istituto Tecnico Commerciale, concessa dal preside Nino
Nanni. Sei bare, una accanto all’altra, circondate dai fiori e dall’affetto
delle tante persone, che in rispettoso silenzio davano l’ultimo commosso saluto
ai propri cari.«Impossibile descrivere le
scene strazianti di dolore –racconta il cronista dell’Histonium – la città intera,
che conosce lo sfortunato e valoroso pilota e le innocenti vittime del
disastro, è costernata. Da tutte le parti in muto pellegrinaggio di dolore
muovono i cittadini; le campane suonano mestamente; al caduto e alle vittime si
apprestano solenni onoranze.
Nel
pomeriggio sono giunte le autorità civili e militari, le quali si sono recate
sul luogo del disastro, hanno fatto visita alle famiglie e alle vittime. Vasto
si è abbrunata nei cuori; si stringe attorno al dolore delle case così
duramente provate ed esprime tutta la sua solidarietà affettuosa in questa ora
tristissima della vita cittadina».
La locale Camera del Lavoro, unitamente alle Sezioni
comunista e socialista, provvide all’affissione di un manifesto di cordoglio,
che qualche ora dopo, per ordine del prefetto, venne fatto sparire. Questo il
testo del manifesto:
«Cittadini, la
sciagura abbattutasi stamane sulla nostra città ci porta col pensiero a tutte
le vittime provocate da ordigni bellici e ci fa manifestare più forte la nostra
volontà di pace.
Esprimiamo
tutta la nostra profonda solidarietà per le famiglie colpite ed inchiniamoci
reverenti e commossi di fronte alle salme delle vittime.
Il popolo
tutto sia presente alle onoranze funebri».
Tante le autorità civili e militari presenti: tra loro
il Sen. Giuseppe Spataro, l’amministrazione comunale al completo, guidata dal
sindaco Florindo Ritucci Chinni, gli ufficiali e sottufficiali del 3° Stormo,
le scuole di volo di Brindisi e Lecce, quindi i famigliari delle vittime, le
orfanelle e le suore, i confratelli della Congrega del SS. Sacramento, S. Spina
e del Gonfalone, i frati del Collegio Serafico dell’Incoronata, il Concerto
musicale dei Combattenti e dei Reduci, i picchetti armati dell’Aviazione, della
Marina, dei Carabinieri e della Finanza.
Dall’istituto, una lunga processione sfilòa passo
lento tra due ali immense di folla, fino alla chiesa di Santa Maria Maggiore.
Attorno alla salma del ten. Della Guardia si notarono le spade dei giovani
ufficiali, mentre le note gravi e dolorose della Banda Musicale dei Combattenti
e Reduci, diffusero una pena struggente.Dalle finestre e dai balconi vennero
lanciati fiori. Nella chiesa di S. Maria Maggiore, stracolma di gente, ai piedi
del presbiterio giacevano allineate le bare: davanti quelle di Anna Ciarallo,
Nicola Celenza e Anna Celenza, nella fila dietro, al centro, quella del pilota
ed ai lati le piccole bare di Giuseppe Celenza e Nicoletta Neri. La messa funebre
venne celebrata dal pastore diocesano, l’Arcivescovo Giambattista Bosio,
davanti alle autorità militari, civili, ai parenti delle vittime e alla
numerosa folla che si è stretta intorno ai suoi concittadini.Al termine della
funzione la Schola Cantorum, diretta dal M° Antonio Zaccardi, eseguì il Libera me, Domine del Perosi. Al
Cimitero rivolsero l’estremo saluto il Sindaco, l’Avv. Florindo Ritucci Chinni,
e il Rag. Romeo Muzi, amico del pilota.
Incidente, fatalità o responsabilità del pilota, non
tocca a noi giudicare: è successo, sicuramente si sarebbe potuto evitare, o
forse, sarebbe potuto accadere con conseguenze meno drammatiche, ma le sette
persone innocenti non potranno mai più tornare in vita e, come scrisse il
generale Vittorio Giovine, in una lettera indirizzata al cugino Peppino
Perrozzi, «io sento che di fronte alla
morte uno spirito solo anima i nostri concittadini, un solo comune impulso,
quello d’inginocchiarsi e pregare in silenzio».
Nata a Termoli nel settembre del 1950
Età: 8 mesi
Ciarallo
Anna fu Pasquale e di Marchesani
Elisabetta
Nata a Vasto il 01/1/1906Età: 45 anni
Celenza Anna fu Nicola e di Di Cicco Maria
Nata a Vasto il 15/7/1922Età: 28 anni
Celenza
Giuseppe di Michele e Baiocco Maria
Nato a Vasto il 01/10/1950Età: 7 mesi
Della
Guardia Francesco Paolo fu Nicola e
di Ruzzi Anna
Nato a Vasto il 18/1/1926Età: 25 anni
Nato a Vasto il 15/12/1890
Età: 60 anni
Il 14 maggio alle ore 23, dopo due giorni di agonia
spirò la giovane
Baiocco
Maria di Sebastiano e di Pollutri
AminaNata a Vasto il 30/8/1929
Età: 21 anni
Nessun commento:
Posta un commento