Ad integrazione dell’ottimo articolo dell’amico Peppino Catania
sull’atteggiamento della stampa alla vigilia della I Guerra Mondiale, mi preme
sottolineare quanto segue:
Allo scoppio della I Guerra Mondiale in
Italia si scatenò subito un forte dibattito fra interventisti e neutralisti.
I primi, sostenitori di un rovesciamento delle alleanze e di un'entrata in
guerra a fianco di Francia e Gran Bretagna, erano presenti in tutti gli
schieramenti politici. Essi erano però un'esigua minoranza, anche se godevano dell'appoggio dei più
importanti giornali e dei politici in quel momento al timone: Salandra ed il
suo ministro degli esteri, Sonnino. A favore dell'intervento era anche il
sovrano.
Questa situazione paradossale, spinse Salandra ma soprattutto il suo
ministro degli esteri San Giuliano (fino
al 16 ott.’14) ad una scelta molto discutibile: mentre il governo chiedeva all'Austria, che aveva annesso la Serbia, di
discutere i compensi territoriali ai quali l'Italia aveva diritto in base al
trattato d'alleanza, venne inviato in segreto, e all’insaputa del Parlamento,
un corriere a Londra con il quale si faceva sapere alla Triplice Intesa che
l'Italia era interessata a conoscere eventuali proposte degli Alleati, in
cambio di un intervento italiano contro gli imperi centrali.
Senza che il Parlamento
ed il resto del governo fossero informati, complice il sovrano, Antonio
Salandra firmò il Patto di Londra il 26 aprile. Con esso, impegnava
l'Italia a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali nell'arco di un mese.
Poiché in aprile c'erano state alcune vittorie russe sugli austriaci, e temendo che la guerra finisse a breve,
Salandra e Sonnino (Ministro degli Esteri dopo Antonino di San Giuliano)
trascurarono di disciplinare nel trattato una serie di aspetti che si sarebbero
rivelati decisivi: venne chiesto agli Alleati solo un minimo contributo
finanziario in quanto era opinione comunque che la guerra sarebbe finita entro
l'inverno, la questione dei compensi
coloniali era trattata genericamente: veniva detto che l'Italia avrebbe
ricevuto "adeguati compensi coloniali", ma nel trattato non si
precisava quali e di quale estensione. Inoltre l'assetto della frontiera
orientale non contemplava Fiume italiana
(si pensava di lasciare almeno un importante porto adriatico
all'Austria-Ungheria), e soprattutto non teneva in debito conto un dato
esiziale: era evidente che, a guerra finita, gli iugoslavi avrebbero voluto formare uno Stato libero e indipendente.
Dopo la guerra i trattati di pace ruotarono attorno ai famosi 14 punti del
Presidente americano Wilson che genericamente sosteneva che il confine tra
l’Italia e la Iugoslavia doveva passare attraverso “un linea chiaramente
riconoscibile tra le due nazionalità”. Questi equivoci e superficialità saranno
alla base delle successive enormi polemiche legate alla cosiddetta “Vittoria Mutilata”
Fu così che l'Italia si
ritrovò, per una settimana, alleata di entrambi gli schieramenti. Infatti se il Patto di Londra venne firmato il 26 aprile,
fu solo il 4 maggio che il governo italiano denunciò la Triplice Alleanza. E
non pubblicamente, ma con semplice comunicazione scritta ai firmatari. In seguito Salandra avrebbe arrogantemente
definito questo gesto come il primo atto compiuto dal Paese in piena libertà.
Messi a conoscenza dell'impegno assunto dal governo, anche i comandi
militari si allarmarono: l'improvviso rovesciamento di alleanze richiedeva i
necessari preparativi. Mentre le
manifestazioni interventiste, fomentate ad arte dal governo, si intensificavano,
Salandra rassegnò le dimissioni nelle mani del re. La posizione neutralista di Giolitti era nota e questi, una volta
giunto a Roma, ricevette in segno di solidarietà trecentoventi biglietti da
visita dei deputati che da soli costituivano la maggioranza assoluta della
Camera e quelli di un centinaio di senatori.
Ma contro lo statista
venne montata una violenta campagna di stampa, a Roma vennero affissi sui muri
manifesti che lo ritraevano di spalle al momento della fucilazione: come i
disertori.
In un comizio D'Annunzio incitò la folla ad invadere
l'abitazione privata dello statista e ad uccidere quel «boia labbrone le cui
calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino» .
La folla invase con
violenza lo stesso edificio della Camera. Il questore di Roma avvertì Giolitti che
non era in grado di garantire la sua incolumità.
Francesco Saverio Nitti,
ricordando molti anni dopo quei giorni, disse che quello fu il momento nel quale
la Costituzione venne calpestata e la libertà conculcata.
Durante le consultazioni Giolitti ammonì il sovrano che la maggioranza era
contraria all'intervento. Ma quando il re gli riferì la novità ed il contenuto
del Patto di Londra, Giolitti comprese che ormai il danno era fatto: non adempiere all'impegno preso con tanto
di firme equivaleva a compromettere il buon nome del Paese e avrebbe implicato,
tra l'altro, l'abdicazione del re. Giolitti
non ebbe la forza di portare a fondo la sua sfida. Nauseato da quella
situazione, Giolitti decise di ripartire per il Piemonte senza attendere la
riapertura della Camera.
In questa situazione fu
facile per il re respingere le dimissioni di Salandra e confermarlo nell'incarico. Alla riapertura della Camera fu subito
evidente che la maggioranza aveva
modificato in maniera sorprendente il suo atteggiamento: abbandonata dal suo
capo, pressata da minacce ed intimidazioni, messa finalmente al corrente del
Patto di Londra, trasse le sue conclusioni. I pieni poteri al governo "in
caso di guerra" furono approvati con 407 voti favorevoli contro 74
contrari (i socialisti e qualche isolato).
Il 24 maggio entrò in
vigore lo stato di guerra con l'Austria.
Va riconosciuto che
Giolitti subì la sua prima, grande sconfitta politica mentre conduceva una
nobile battaglia in difesa del Parlamento e della libertà: quasi unanimemente
la storiografia riconosce allo statista piemontese il merito di aver difeso,
alla vigilia del primo conflitto mondiale, le prerogative dello Stato di diritto
e quindi, in ultima analisi, di aver combattuto per una vera democrazia
moderna.
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