UNA
QUESTIONE SINGOLARE: DAL DAZIO OTTOCENTESCO SUL PESCE FRESCO AL COGNOME
di Luigi
Murolo
Di che cosa parla il foglio qui pubblicato, un tempo volante e, in
seguito, rilegato in un blocco di documenti conservati nella busta 78, fasc.
109 dell’Archivio Storico Comunale di Vasto? Da come si presenta, altro non
pare che una pagina bianca suddivisa in due parti con due date distinte: 1°
giugno e 2 giugno 1853, durante il regno di Ferdinando II di Borbone. Un
brevissimo elenco di nomi accompagna i corrispettivi monetari espressi in
cavalli (sottomultipli del ducato), con una x che indica l’avvenuto pagamento.
A ben
vedere si tratta del dazio sul pesce fresco applicato dal primo eletto
del decurionato sulle «scafette» dei singoli
pescatori (ivi compresi i paroni). Che pagavano il dazio. E lo pagavano
per il semplice fatto che le «scafette» erano il salario in natura con cui
venivano retribuiti quotidianamente i «marinai» (ripeto: gli stessi paroni).
Non con denaro, dunque. Ma con il “prodotto ittico” derivato dal proprio
lavoro. Prodotto che, come tutte le merci in ingresso, era sottoposto
all’imposta e introitata dalla Comune (al femminile). E ciò fino alla legge
sulla pesca del Regno d’Italia, emanata nel 1879, che prevedeva il salario in
denaro. Va da sé che, prima di tale data, l’imposta era riscossa direttamente
allo sbarco, per evitare che qualcuno potesse sfuggire al balzello (il dazio
sul pesce fresco veniva abrogato nel 1905, con la scafetta che diventava premio). Per il pescato battuto
all’asta, era il compratore (il
grossista) a dovere pagare l’imposta, non l’armatore che lo vendeva.
Continuando nell’esame del testo troviamo la diversità di dazi. Si dirà:
è basata sulla quantità della «scafetta» ricevuta. Non vi sono dubbi. Ma ciò da
che cosa dipende? Dalla gerarchia piscatoria sulla «paranza» il cui vertice era
rappresentato dal parone; vale a dire, il comandante (che nella coppia
di barche dette “a paro” aveva potere decisionale illimitato). Da ciò si
osserva che, il 1° giugno, Michele Mortanonne risultava gravato dal dazio
maggiore; il 2 giugno, Pasquale Cicchini.
Fin qui il lato A del foglio in questione. Ma lo stesso versante B
riserva una sorpresa. Non solo la pesca d’altura (con le paranze), ma anche
quella a riva era sottoposta alla stessa regola. Ci accorgiamo, ad esempio, che
il 5 giugno 1853, Tomasso (sic) di
Salle con il “pescato” da “pitarola” pagava 30 cavalli e Cesario della Penna,
con la sciabica, 20 cavalli. Anche la pesca poverissima, dunque, quella fatta
con gli stessi “braccianti” di terra che, alla bisogna, si ingegnavano a
gettare e ritirare le reti (la giornata retribuita sempre in natura) e poi,
come come “scùcchәlә” a trasportare il pescato minore («li
risajapanérә», al contrario, risalivano
il pescato da paranze).
Il tema del dazio, dunque, apre alla comprensione della
commercializzazione del prodotto ittico per quasi tutto l’Ottocento
(segnatamente dal 1833 al 1905). Ma nulla sappiamo di quanto accadesse in
precedenza. L’informazione che ci è giunta è limitata a questo periodo.
Evitiamo di assolutizzare questi dati per il passato. Di sicuro possibili, ma,
per quanto si voglia, non certi.
Le cose non finiscono qui. Trascriviamo alcuni nomi che emergono da
questo documento:
1.
Michele Mortanonne
2.
Ziprete
3.
Capa bianәca
4.
Cazzoneri
5.
Mortanonna
6.
la Ciancarella
7.
Sebastiano Soprepencio
8.
Sciampagno
9.
la Pillastrella
10.
Ciccopaletto
11.
Scarparillo
12.
Vaccaro
Sono nomi attestati nel periodo compreso tra il 1° giugno e il 7 giugno
1853. Ma sono soprannomi? Beh, occorre precisare che cosa significa
“soprannome”. Nell’elenco qui prodotto i soprannomi (in latino, supernonima): Michele Mortanonne e
Sebastiano Soprepencio. Sono soprannomi perché sono aggiunti al nome. Sopra-, vuol dire “aggiunto”. Se non c’è
nome, non si aggiunge niente. Non può esserci un sopra-. Ciò che noi chiamiamo impropriamente soprannome, per i
latini era il cognome. Cicerone, ad esempio, era il cognome di Marco Tullio (cicerone(m), vuol dire escrescenza sul
viso simile a un cece). In questo senso, del nostro caro amico Michele La
Pallòttә, La Pallòttә è il soprannome. Ma se dico solo La Pallòttә, allora per i latini è cognome. Che cosa
vuol dire questo? Che per il mondo romano, il cognome non era un attributo
individuale, ma sociale (attribuito, cioè, dato dalla comunità). Si capisce
bene che la Ciancarella, la Pillastrella ecc. sono cognomi perché sono attributi
sociali. Come lo è la Capa Biànәche (o,
come ci è più noto, la Crapa bbiånghә,
il pescatore che ha dato il nome a uno scoglio). Diventa evidente. In questo
modo rovesciamo totalmente il modo di affrontare il problema. Nei fatti stiamo
parlando di una tecnica antica, che per noi appare nuova per il solo fatto di
averla “dimenticata”. Si tratta allora di rimemorarla per comprendere, dal
punto di vista storico-antropologico, il modo di riconoscimento comunitario
dell’individualità.
Non dimentichiamo un fatto. Stiamo parlando del 1853. Erano trascorsi
appena 44 anni da quando re Gioacchino Murat (1° gennaio 1809) aveva
stabilizzato i cognomi con l’istituzione dello Stato Civile.
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