dal prof. Luigi Murolo riceviamo e pubblichiamo
Caro Nicola,
“schermaglie in
punta di fioretto” con l’amico Pino Jubatti? Non mi è mai passato per la testa.
Pino si
Sarò molto
schematico.
1.Quando uso i
dizionari, sono sempre attento all’edizione in cui il lemma viene registrato
per la prima volta. Tale è il caso di piánghә.
Nella prima edizione Finamore scrive piánga;
nella seconda, piánghe. Perfeziona solo la scrittura. Salvo
variazioni di significato, si utilizza di norma l’attestazione più antica.
2.Quando si scrive,
si fanno qualche volta errori di distrazione nella battitura (i cosiddetti
“refusi”). E Pino sa bene che sono
fastidiosissimi. Ci si incavola a morte. Purtroppo capitano. Questa volta non è
toccato a me. E per chi conosce bene l’argomento diventa inaccettabile
accorgersi di aver scritto che
l’edizione Lapi di Finamore non è del
1993, ma del 1893. Come ho già detto, ci si innervosisce. Ma non vale la pena
prendersela. Tanto il lettore un po’ informato sa bene che non si tratta di un
errore, ma di un banalissimo quanto irritantissimo refuso.
3.Quando parlo di
“cose” dialettali, mi riferisco, per quanto possibile, a testimonianze orali di
vecchi locutori (purtroppo sono diventato io il vecchio. Locutore forse molto meno). Devo dire che ho
sempre cercato le tracce superstiti di quel lessico arcaico sempre più
obsolescente (straordinarie, ad esempio, quelle da me raccolte dalla voce del parone Antonio Pollutri che ho
incontrato un paio di volte grazie a Franco Feola mentre stava scrivendo Paranze). Poi, solo in seconda battuta,
dopo l’esperienza sul campo, mi dedico al lavoro sui dizionari per trovare
eventuali riscontri con la parola codificata e affrontare da un lato la
fonetica storica, dall’altro la semantica storica. La conoscenza del termine piangóne
(che ignoravo) rientra in tale contesto. Che cosa è successo? Molto semplice.
Il parone mi ha parlato della
differenza tra chiangone e piangone. Il primo vocabolo definisce la parte di barca
che va dal centro a poppa; il secondo, lo “scoglio” più o meno piatto. Cavoli!
Mi son detto. La prima definizione è diversa da quella che fornisce Anelli.
Però, se me lo ha detto un parone
(cioè un comandante di paranze) nato nel 1905 (quattro anni dopo la
pubblicazione del Vocabolario di
Anelli), vuol dire che l’informazione viene da uno specialista del mestiere,
non da un semplice locutore di terraferma che non ha conosciuto la violenza
delle burrasche. Non è forse vero che per le nomenclature ad hoc occorre sempre rivolgersi ai tecnici (e non è forse ciò che
ha fatto Feola nel suo capolavoro?). Però, mi sono detto: non è bene fermarsi
qui. Occorre cercare ulteriori verifiche. E che cosa trovo? Che, stando al DAM
di Ernesto Giammarco (i primi due volumi pubblicati nel 1968 e 1969), in altre
città abruzzesi, il chiangóne risulta
essere ciò di cui parlava Zi’ ‘Ndòniә
in via del Buonconsiglio. Vale la pena controllare.
Tutto qui. Che poi
si voglia seguire la lectio anelliana,
padronissimi.
Un caro saluto
Luigi Murolo
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