domenica 20 dicembre 2015

La storia di una lapide capovolta, in via Marchesani

UNA STORIA DEI NOSTRI GIORNI
di Luigi Murolo
L’immagine qui riprodotta vuole restituire all’attenzione dei lettori una delle iscrizioni più antiche oggi esistenti nel centro antico di Vasto (anzi la più antica, escludendo quelle esterne alle chiese). Ripeto: non conservata all’interno del Museo archeologico, ma fuori. All’aperto. Che vuol dire: disposta sul paramento murario di una casa di abitazione lungo una centralissima via della città (non la menziono, per ragioni di sicurezza. La
pietra potrebbe essere facilmente sfregiata). Insomma, una localizzazione anomala se considerata estranea nei confronti di  luoghi istituzionali (civili/ecclesiastici) di tempi lontani. Ora, chi ha avuto occasione di notare il pezzo lapideo sa bene che, a occhio nudo, la scriptio appare incomprensibile. Più di un amico si è lasciato andare alla seguente esternazione: è illeggibile. A conferma  di ciò, nella sua Storia di Vasto (p. 199), Luigi Marchesani  afferma: […] sull’arcale di un uscio, mirasi scolpita da ignorante incisore questa epigrafe […]». Ecco allora la soluzione proposta dallo storico: «ignorante incisore». Sì, proprio così: «ignorante incisore».  Con questa formula tutto sembra tornare al proprio posto. Di che cosa si tratta?  Ecco la foto della piccola tabula lapidea (foto 1):
 La lettura fornita da Marchesani è la seguente:
«ANNI.  D.  DIO   IIII.
XXXLDDDDM.
che io interpreto Anni di Dio 1484»

A questo punto mi son posto un interrogativo piuttosto scontato: «Ma davvero ci troviamo di fronte all’opera di un “ignorante incisore”? 
E se proviamo a ruotare la foto da sinistra a destra e poi dal basso verso l’alto?». Ecco che, all’improvviso, il “paesaggio” della scrittura cambia radicalmente aspetto. Con la praticabilità odierna di una normale fotocamera e di un semplicissimo programma grafico (cosa di cui, ovviamente, Marchesani non disponeva) si giunge a una conclusione meno oscura. In ogni caso, prima di andare avanti torna utile fare una precisazione. La numerazione romana nell’antichità classica era esclusivamente additiva. Conosceva il mutamento di simbolo. Ma non era sottrattiva come nel medioevo (vale a dire il 4 si scriveva IIII, non IV; il 400, CCCC non CD). Ancora. Il 500, aveva il segno IƆ, non D; il 1000, CIƆ  non M. Ripeto: da questo punto di vista, la rappresentazione classica del numero è solo additiva, non è mai sottrattiva. Ma c’è di più. Il calendario romano antico, non conosce la successione cardinale dei giorni: 1, 2, 3, 4, ecc. Ma esclusivamente Calende (Kalendas), None (nonas), Idi (idus). Le Calende cadevano sempre il primo di ogni mese; le None variavano secondo i mesi tra cinque e sette; le Idi tra tredici e quindici. I giorni tra queste date erano indicati con ordinale in modo sottrattivo; l’ultimo con pridie (prima). Mi spiego. Il 12 marzo, IIII Idus martii; il 10 marzo, VI Idus martii. Cadendo le idi di marzo il 15, ciò voleva dire che al 12 marzo mancavano quattro giorni alle idi; al 10, ne mancavano sei. Sto parlando di cose evidentemente note. Dopo questa necessaria “rimemorazione”, proviamo a vedere come si applica alla lettura di un’epigrafe. In tal senso, procedendo alla rotazione dell’immagine, otteniamo il seguente risultato (foto 2):
Per la lettura abbiamo interamente capovolto la lapide
I caratteri in grafia Gotica Rotunda (o semigotica) non devono impressionare data la brevità del testo e la scorrevolezza del ductus. Salvo l’abbreviatura di (con il valore di pridie), il testo si sviluppa per esteso. Stando così le cose, la lettura procede in questi termini
«CIƆCCCCLXXX
IIII die (ridie) Junii»
La traduzione? Molto semplice: «1480. Il quarto giorno prima delle calende di giugno». Il che vuol dire: 29 maggio 1480. Tutto qui. Ma all’interno di questa datatio si individua un percorso umanistico cittadino (altro che “ignorante incisore”!) già noto per il codice petrarchesco acquisito dalla Bancroft Library  di Berkeley e conservato con la segnatura f 2 Ms AC 13 c 5 in cui si parla della casa del vastese notar Buccio di Alvappario (morto nel 1420). Quasi non bastasse, il testo presenta assonanza con il colophon degli incunaboli. In buona sostanza, oltre alla datatio, troviamo la stessa subscriptio (firma) espressa dallo scudo araldico rovesciato sottostante di cui ignoro l’appartenenza familiare. Ci troviamo di fronte a una pietra erratica – parte di una pagina lapidea distrutta – ricollocata senza alcuna attenzione in altro sito. Purtroppo per noi, ai nostri giorni quella data non dice più nulla. È la traccia superstite di un monumento scomparso in tempi lontani (non sappiamo quando) di cui possiamo lamentare solo la perdita. Per il resto, un brano storico della città nascosto su di una superficie visibilissima di un muro cui pochi prestano l’occhio.
Non mi meraviglio più di tanto. Gli obiettivi fotografici non sono utilizzati per testimoniare ciò che esiste senza essere visto. Purtroppo, qualcuno ha detto: «esse est percipi». Vale a dire, «essere è essere percepiti». Già! Esiste solo chi è percepito. Se la cosa non è percepita, non esiste. Che bello. Stiamo parlando di una cosa che esiste, ma che non è dotata di valore esistenziale per il semplice fatto che nessuno vuole alzare gli occhi per vederla. Se il mondo va così, buon Natale a tutti!

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