Carlo Della Penna (ritratto di Franco Paolantonio) |
Il ricordo è a firma dell'avv. Franco Cianci di Termoli, figlio di Benedetto nipote di don Carlo. Il professionista ripercorre i momenti intensi della nostra emigrazione, mettendo in evidenza l'impegno e i sacrifici dei nostri connazionali all'estero.
Don Carlos Della Penna
di Franco Cianci
Un pomeriggio di un giorno di agosto del 1962, apparve nel mio studio legale in Termoli, una bella ed imponente figura. Il volto bello, non solcato da una ruga, i capelli candidi, un sorriso smagliante, spalle larghe come quelle di un giocatore di rugby, la mano possente, una altezza fuori dal comune. “Sono venuto qui – mi disse – perchè volevo conoscere il figlio di mio nipote Benedetto. Sono Carlo della Penna”. Un pomeriggio di un giorno di agosto del 1962, apparve nel mio studio legale in Termoli, una bella ed imponente figura. Il volto bello, non solcato da una ruga, i capelli candidi, un sorriso smagliante,
spalle larghe come quelle di un giocatore di rugby, la mano possente, una altezza fuori dal comune. “Sono venuto qui – mi disse – perchè volevo conoscere il figlio di mio nipote Benedetto. Sono Carlo della Penna”. Io che conoscevo perfettamente la storia di questo straordinario uomo, che sapevo in Argentina, ne rimasi sconvolto e affascinatamente colpito. Era il leggendario Carlo della Penna, di Vasto, uno dei primi emigranti in America del Sud, da Vasto. Era sbarcato a 16-18 anni in uno dei più grandi paesi del Sud America, alla fine dell’800, all’epoca del grande pionierismo che avrebbe trasformato e fatto crescere le Americhe del Nord e del Sud. Aveva attraversato l’Oceano Atlantico, con una di quelle grandi navi (di cui successivamente fu grande emblema la Rex -1930-) che fecero grande la Marina Mercantile Italiana. Occorrevano quasi trenta giorni perchè queste navi, cariche di speranza, di volontà e di futuro, attraversassero l’oceano, turbolento e periglioso. Avevano lasciato, quegli emigranti, alle spalle, il Meridione d’Italia, che era, invece, carico di miseria, di disperazione; quell’Italia, dolorosamente descritta dai Meridionalisti, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, e, poi, da Francesco Compagna a Carlo Levi , e da tanti altri. Era solo Carlo, non una lira, quando sbarcò nella grande città di Buenos Aires. Si trovò davanti una città completamente ignota, con un retroterra enorme, quasi del tutto sconosciuto (le Pampas). Era una di quelle città in cui si stavano sviluppando i segni della metropolitanità. Un miscuglio di razze, a quell’epoca, di origine prevalentemente europea. Era un giovane, Carlo, particolarmente intelligente, pieno di voglia di riscatto, di rivalsa, contro la miseria che si era lasciato alle spalle, contro tutti i lacci che gli tarpavano le ali, e che, come avrebbe detto più tardi Andrej Donatovič Sinjavskij (in altro contesto storico), gli impedivano persino di respirare. All’inizio dovette arrangiarsi come poteva: garzone di bottega, insomma la solita storia di tutti coloro che potevano definirsi “self made man”. Capì subito che si potevano fare affari con la carta, e con gli articoli di cartolibreria. Aprì un negozietto a piano terra su una strada importante di Buenos Aires e gli affari iniziarono subito a fiorire. E, quando, nel 1905 arrivò in Argentina, uno dei suoi congiunti, ovvero mio padre (aveva soltanto 16 anni) Carlo era già un imprenditore affermato. Un giro di affari importante nella vita della grande metropoli argentina. Mio padre venne subito assunto da zio Carlo; anch’egli era arrivato con un viaggio straziante durato 30 giorni, senza arte né parte, soltanto con un piccolo diploma di scuola (allora ginnasio, oggi scuola media) da Mafalda (CB). Don Carlo – così mi raccontava nei suoi interminabili ricordi – dormiva pochissimo, tutto preso dalla alacrità del suo lavoro. Gli domandai come riuscisse a tanto. La sua tempra forte gli permetteva di raggiungere questi meravigliosi traguardi. Le cose gli andavano molto bene. Mio padre faceva per lui il “commesso viaggiatore”. Spesso attraversava a cavallo le pampas argentine tra un villaggio ed un altro. Don Carlo si beava in tali ricordi. Cominciò a produrre in proprio articoli di cancelleria di ogni genere. Fino alla prima guerra mondiale, aveva già creato in Argentina un impero. Aveva aumentato la quantità e la qualità delle sue produzioni industriali. Aveva acquistato una cartiera. Ma, verso la metà degli anni 10 del secolo scorso, quando mio padre, insieme ad un fratello, Francesco Saverio Cianci, vollero rientrare dopo 10 anni in Italia, perché ligi al dovere di partecipare come reclute alla grande guerra, don Carlos subì un terribile evento. Un incendio – non si seppe mai di quale origine fosse stato – mandò all’aria tutta la sua azienda, produttrice di cancelleria. Don Carlos cadde in una profonda depressione . Mi diceva che la sua forza gli venne improvvisamente a mancare. Precipitò nel buio dell’abulia più totale. Furono anni durissimi. Mi raccontava, con una forza quasi drammaturgica, che si faceva legare ad una sedia da un suo maggiordomo, non per stare, come Vittorio Alfieri, sui libri, ma per infliggersi una tortura fisica, in maniera che i legacci gli arrecassero dolori, come fosse un cilicio. Riuscì a superare quei terribili momenti, e l’azienda si riprese alla grande. Lo aveva raggiunto, pressappoco in quegli anni, un altro nipote, Carlo Marinucci, che contribuì alla crescita della sua azienda. Seguirono ore ed ore interminabili ed affascinanti di racconti. Da persona intelligente ed autodidatta qual’era, sapeva di tutto : della politica, nazionale ed internazionale, delle sventure della sua patria d’adozione, l’Argentina, parlava di classi sociali, di emigrazione, di lavoro e di tanti altri argomenti. Tornava puntuale, come una rondine di primavera, tutte le estati a Vasto, in maniera da sfuggire ai rigidi inverni argentini. Restaurò e integrò la sua azienda, la “cartiera” , divenendo la più grande in Argentina, come lo erano, in Italia, quelle di Fabriano. Ma grandiosa fu l’opera di mecenatismo, creando società, letterarie e scolastiche. Aveva, nel frattempo, fondato un prestigioso mensile, in bella carta patinata, l’Histonium, di cui cominciò ad inviarmi le annate complete. Fondò a Buenos Aires un Istituto scolastico enorme, italo-argentino, per figli di emigranti. Creò una fondazione a suo nome per l’assistenza agli emigranti italiani. A Vasto costruì, interamente a sue spese, un asilo infantile intitolato a suo nome . Donò al Comune di Vasto un suolo edificatorio, sul quale il Comune eresse l’Istituto Tecnico Industriale, nell’ambito del quale istituì delle borse di studio per i ragazzi più bravi, tra i quali ricordo Gino Cannarsa e Giuseppe Desiato. Il Comune di Vasto – benchè meritevolmente conservi un ritratto di Carlo, in una delle sale comunali – dovrebbe essergli grato. Ad es., l’Asilo Infantile avrebbe bisogno di urgenti restauri. Non era sposato : quando tornava in Italia, in quegli anni soleva alloggiare o all’Hotel Jolly nei pressi del campo sportivo, o presso lo stesso asilo, assistito dalla nipote, prof.ssa Marinucci, sorella di Carlo. Quando andavo a trovarlo a Vasto, tutte le estati, accompagnandolo a piedi, lungo il corso di Vasto, si fermava presso il negozio di scarpe Marino. Notavo l’amore e il rispetto verso quest’uomo dal carisma silenzioso e dal fascino discreto: “Don Carlo, Don Carlo”, esclamavano i passanti, elargendogli strette di mano, che lui ricambiava con vigore. La storia sarebbe ancora lunga, ma, per ragioni di tempo dei lettori, la terminiamo qui con l’augurio che il Comune si ricordi di questo suo figlio straordinario dalla volontà tenace. Nato, vissuto e cresciuto come emigrante e a fianco di emigranti, sempre dalla parte della gente. L’amore per la sua patria e per Vasto, fu grande. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1971 a 92 anni il suo impero cominciò a vacillare. La famosa e grande cartiera, che aveva dato lavoro a centinaia, forse a migliaia, di persone nel tempo, quasi tutti emigranti di Vasto, e che era uno dei gioielli della industria argentina, cominciò a vacillare. La decadenza fu repentina ed inesorabile, nonostante l’intervento dello Stato argentino. Chiusa nel 2012, essa è, oggi, un desolato monumento di paleontologia industriale, con lo stemma della città del Vasto che campeggia sulla principale delle sue facciate, su una via molto trafficata di Buenos Aires.
FRANCO CIANCI
Tempo fa pubblicammo quest'altro ricordo a firma di Giuseppe Armeno, da 40 anni a Buenos Aires, sulla cartiera di don Carlo Della Penna.
http://noivastesi.blogspot.it/2012/01/buenos-aires-lex-cartiera-di-carlo.html
Un pomeriggio di un giorno di agosto del 1962, apparve nel mio studio legale in Termoli, una bella ed imponente figura. Il volto bello, non solcato da una ruga, i capelli candidi, un sorriso smagliante, spalle larghe come quelle di un giocatore di rugby, la mano possente, una altezza fuori dal comune. “Sono venuto qui – mi disse – perchè volevo conoscere il figlio di mio nipote Benedetto. Sono Carlo della Penna”. Un pomeriggio di un giorno di agosto del 1962, apparve nel mio studio legale in Termoli, una bella ed imponente figura. Il volto bello, non solcato da una ruga, i capelli candidi, un sorriso smagliante,
spalle larghe come quelle di un giocatore di rugby, la mano possente, una altezza fuori dal comune. “Sono venuto qui – mi disse – perchè volevo conoscere il figlio di mio nipote Benedetto. Sono Carlo della Penna”. Io che conoscevo perfettamente la storia di questo straordinario uomo, che sapevo in Argentina, ne rimasi sconvolto e affascinatamente colpito. Era il leggendario Carlo della Penna, di Vasto, uno dei primi emigranti in America del Sud, da Vasto. Era sbarcato a 16-18 anni in uno dei più grandi paesi del Sud America, alla fine dell’800, all’epoca del grande pionierismo che avrebbe trasformato e fatto crescere le Americhe del Nord e del Sud. Aveva attraversato l’Oceano Atlantico, con una di quelle grandi navi (di cui successivamente fu grande emblema la Rex -1930-) che fecero grande la Marina Mercantile Italiana. Occorrevano quasi trenta giorni perchè queste navi, cariche di speranza, di volontà e di futuro, attraversassero l’oceano, turbolento e periglioso. Avevano lasciato, quegli emigranti, alle spalle, il Meridione d’Italia, che era, invece, carico di miseria, di disperazione; quell’Italia, dolorosamente descritta dai Meridionalisti, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, e, poi, da Francesco Compagna a Carlo Levi , e da tanti altri. Era solo Carlo, non una lira, quando sbarcò nella grande città di Buenos Aires. Si trovò davanti una città completamente ignota, con un retroterra enorme, quasi del tutto sconosciuto (le Pampas). Era una di quelle città in cui si stavano sviluppando i segni della metropolitanità. Un miscuglio di razze, a quell’epoca, di origine prevalentemente europea. Era un giovane, Carlo, particolarmente intelligente, pieno di voglia di riscatto, di rivalsa, contro la miseria che si era lasciato alle spalle, contro tutti i lacci che gli tarpavano le ali, e che, come avrebbe detto più tardi Andrej Donatovič Sinjavskij (in altro contesto storico), gli impedivano persino di respirare. All’inizio dovette arrangiarsi come poteva: garzone di bottega, insomma la solita storia di tutti coloro che potevano definirsi “self made man”. Capì subito che si potevano fare affari con la carta, e con gli articoli di cartolibreria. Aprì un negozietto a piano terra su una strada importante di Buenos Aires e gli affari iniziarono subito a fiorire. E, quando, nel 1905 arrivò in Argentina, uno dei suoi congiunti, ovvero mio padre (aveva soltanto 16 anni) Carlo era già un imprenditore affermato. Un giro di affari importante nella vita della grande metropoli argentina. Mio padre venne subito assunto da zio Carlo; anch’egli era arrivato con un viaggio straziante durato 30 giorni, senza arte né parte, soltanto con un piccolo diploma di scuola (allora ginnasio, oggi scuola media) da Mafalda (CB). Don Carlo – così mi raccontava nei suoi interminabili ricordi – dormiva pochissimo, tutto preso dalla alacrità del suo lavoro. Gli domandai come riuscisse a tanto. La sua tempra forte gli permetteva di raggiungere questi meravigliosi traguardi. Le cose gli andavano molto bene. Mio padre faceva per lui il “commesso viaggiatore”. Spesso attraversava a cavallo le pampas argentine tra un villaggio ed un altro. Don Carlo si beava in tali ricordi. Cominciò a produrre in proprio articoli di cancelleria di ogni genere. Fino alla prima guerra mondiale, aveva già creato in Argentina un impero. Aveva aumentato la quantità e la qualità delle sue produzioni industriali. Aveva acquistato una cartiera. Ma, verso la metà degli anni 10 del secolo scorso, quando mio padre, insieme ad un fratello, Francesco Saverio Cianci, vollero rientrare dopo 10 anni in Italia, perché ligi al dovere di partecipare come reclute alla grande guerra, don Carlos subì un terribile evento. Un incendio – non si seppe mai di quale origine fosse stato – mandò all’aria tutta la sua azienda, produttrice di cancelleria. Don Carlos cadde in una profonda depressione . Mi diceva che la sua forza gli venne improvvisamente a mancare. Precipitò nel buio dell’abulia più totale. Furono anni durissimi. Mi raccontava, con una forza quasi drammaturgica, che si faceva legare ad una sedia da un suo maggiordomo, non per stare, come Vittorio Alfieri, sui libri, ma per infliggersi una tortura fisica, in maniera che i legacci gli arrecassero dolori, come fosse un cilicio. Riuscì a superare quei terribili momenti, e l’azienda si riprese alla grande. Lo aveva raggiunto, pressappoco in quegli anni, un altro nipote, Carlo Marinucci, che contribuì alla crescita della sua azienda. Seguirono ore ed ore interminabili ed affascinanti di racconti. Da persona intelligente ed autodidatta qual’era, sapeva di tutto : della politica, nazionale ed internazionale, delle sventure della sua patria d’adozione, l’Argentina, parlava di classi sociali, di emigrazione, di lavoro e di tanti altri argomenti. Tornava puntuale, come una rondine di primavera, tutte le estati a Vasto, in maniera da sfuggire ai rigidi inverni argentini. Restaurò e integrò la sua azienda, la “cartiera” , divenendo la più grande in Argentina, come lo erano, in Italia, quelle di Fabriano. Ma grandiosa fu l’opera di mecenatismo, creando società, letterarie e scolastiche. Aveva, nel frattempo, fondato un prestigioso mensile, in bella carta patinata, l’Histonium, di cui cominciò ad inviarmi le annate complete. Fondò a Buenos Aires un Istituto scolastico enorme, italo-argentino, per figli di emigranti. Creò una fondazione a suo nome per l’assistenza agli emigranti italiani. A Vasto costruì, interamente a sue spese, un asilo infantile intitolato a suo nome . Donò al Comune di Vasto un suolo edificatorio, sul quale il Comune eresse l’Istituto Tecnico Industriale, nell’ambito del quale istituì delle borse di studio per i ragazzi più bravi, tra i quali ricordo Gino Cannarsa e Giuseppe Desiato. Il Comune di Vasto – benchè meritevolmente conservi un ritratto di Carlo, in una delle sale comunali – dovrebbe essergli grato. Ad es., l’Asilo Infantile avrebbe bisogno di urgenti restauri. Non era sposato : quando tornava in Italia, in quegli anni soleva alloggiare o all’Hotel Jolly nei pressi del campo sportivo, o presso lo stesso asilo, assistito dalla nipote, prof.ssa Marinucci, sorella di Carlo. Quando andavo a trovarlo a Vasto, tutte le estati, accompagnandolo a piedi, lungo il corso di Vasto, si fermava presso il negozio di scarpe Marino. Notavo l’amore e il rispetto verso quest’uomo dal carisma silenzioso e dal fascino discreto: “Don Carlo, Don Carlo”, esclamavano i passanti, elargendogli strette di mano, che lui ricambiava con vigore. La storia sarebbe ancora lunga, ma, per ragioni di tempo dei lettori, la terminiamo qui con l’augurio che il Comune si ricordi di questo suo figlio straordinario dalla volontà tenace. Nato, vissuto e cresciuto come emigrante e a fianco di emigranti, sempre dalla parte della gente. L’amore per la sua patria e per Vasto, fu grande. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1971 a 92 anni il suo impero cominciò a vacillare. La famosa e grande cartiera, che aveva dato lavoro a centinaia, forse a migliaia, di persone nel tempo, quasi tutti emigranti di Vasto, e che era uno dei gioielli della industria argentina, cominciò a vacillare. La decadenza fu repentina ed inesorabile, nonostante l’intervento dello Stato argentino. Chiusa nel 2012, essa è, oggi, un desolato monumento di paleontologia industriale, con lo stemma della città del Vasto che campeggia sulla principale delle sue facciate, su una via molto trafficata di Buenos Aires.
FRANCO CIANCI
Tempo fa pubblicammo quest'altro ricordo a firma di Giuseppe Armeno, da 40 anni a Buenos Aires, sulla cartiera di don Carlo Della Penna.
http://noivastesi.blogspot.it/2012/01/buenos-aires-lex-cartiera-di-carlo.html
1 commento:
Grande l'avvocato Cianci, sempre nel cuore della mia famiglia.
Massimiliano Antonarelli
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