domenica 29 dicembre 2013

Osvaldo Santoro pubblica "Ricordi di vita nostra" e racconta i suoi 14 scampati pericoli

Il poeta Osvaldo Santoro
di Lino Spadaccini
Se è vero che il gatto ha sette vite, Osvaldo Santoro di vite ne ha almeno quattordici.
Può sembrare uno scherzo, ma è davvero così! Guardando dentro il cofanetto dei ricordi, partendo dall’incidente aereo avvenuto nel rione San Michele, l’11 maggio 1951, Osvaldo Santoro, apprezzato artigiano in pensione e fine poeta, ha ripercorso tutta la sua vita riscoprendo degli episodi, quasi rimossi dalla mente, che lo hanno visto ad un passo dalla morte.
Dall’alto dei suoi 83 anni, e dalla solita ironia che lo contraddistingue, Santoro ha voluto scherzarci sopra, condividendo le proprie esperienze, finiteovviamente tutte in modo positivo, grazie a tanta fortuna, ma anche al coraggio, alla prontezza di riflessi e alla presenza di spirito.
Ricordi di vita nostra”, questo è titolo del piccolo volumetto, quasi un quaderno di ricordi, condito con qualche poesia inedita e una premessa, dove l’autore spiega i motivi della che l’hanno portato a scrivere alcuni episodi di vita vissuta scampando ad una morte prematura. E il consiglio di Osvaldo Santoro è eloquente: “Ora leggete le mie vicende e badate a voi, perché il pericolo è sempre in agguato ed è improvviso e imprevisto, come un attacco in guerra, perché di guerra si tratta, fatta di tante battaglie, compreso il pagamento delle tasse che non è altro che il prezzo d’affitto da pagare per vivere su questo suolo”.
Sulla copertina del volumetto è impressa la figura di un cappotto, non un cappotto qualunque, ma uno di quelli che ti salva la vita, grazie al suo colletto pesante, che ti protegge la nuca dopo un volo di svariati metri sull’asfalto, in seguito allo scontro avvenuto con un carretto, mentre era in sella alla sua moto. Fu proprio quel cappotto comprato in Brasile, dove Santoro è vissuto per circa nove anni, a salvarlo, quel cappotto comprato in un negozio di roba usata, fatto di lana pesante disegnata a lisca di pesce, che gli sarebbe servito per tornare in Italia in pieno inverno, non avendo nient’altro da mettere addosso.
Quattordici sono i “pericoli” raccontati da Osvaldo Santoro: dall’Erisipela, con principio di paralisi infantile, contratta a tre anni, a quando all’età di cinque anni scavalcò un balconcino, al terzo piano dell’abitazione in Corso Plebiscito, per sporgersi e vedere meglio via San Francesco d’Assisi; dalle altre terribili malattie, agli incidenti a Bocca di Valle o all’interno dell’Officina meccanica a San Michele, ai ricordi in tempo di guerra, quando i tedeschi costrinsero allo sfollamento e Osvaldo Santoro si rifugiò nella grotta sotto la zona della Madonna delle Grazie. “Vi eravamo otto famiglie”, scrive l’autore, “e ricordo che un ufficiale tedesco, udendo delle voci nella grotta, si preparò a lanciarvi una bomba a mano che ci avrebbe sicuramente uccisi tutti se fortunatamente il dottore e prof. Di scienze Giovanni De Sommain, di origine austriaca, non avesse gridato in tedesco supplicando di non farlo”.
Molto intenso è il racconto della terribile sciagura aerea dell’11 maggio 1951, in cui persero la vita sette persone, ed anche quello dell’incidente del 13 luglio 1952 in Cadore, quando aveva 21 anni, dove ci furono due morti e diciotto feriti. Il grave episodio venne riportato il giorno successivo sulle prime pagine dei principali quotidiani.
E alla morte, scampata tante volte, Osvaldo Santoro ha dedicato una poesia, quasi dal sapore di una sfida (Non mi fai più paura, / né mi catturerai, / come una mosca il ragno), ma con la consapevolezza che un giorno comunque arriverà (Non aspettar che venga: / ma verrai tu, mia cara), trovandolo pronto ad aspettarlo (E non mi giungerai più inopportuna, / visto che aspetto ormai, ma senza fretta, / la tua venuta, attesa, / ma senz’esser chiamata), perché
La fin della mia vita,
sconfitta tua sarà
nell’universo, o Morte:
fin che la luce e il suono,
il profumo e il sapore
del mio sacro dolore,
mi portino alla pace,

eterna, del Signore.


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