martedì 17 marzo 2015

L'area del nuovo parcheggio è non è un posto anonimo: è l'antico "delizioso" giardino della Palazzina di S. Lucia di proprietà dei d'Avalos

PUBBLICATO IL 15 APRILE 2012
Il toccante ricordo del poeta Fernando D'Annunzio, nato e vissuto in quei luoghi
In questi giorni si parla di un nuovo parcheggio di 200 posti auto in un'area alla fine di via della Libertà incrocio via B.A. da Furci, non lontano dall'ospedale. A leggere la stampa sembra sia un'area anonima, invece si tratta dell'antico "delizioso" giardino della Palazzina di S. Lucia di proprietà dei d'Avalos. Quindi grande attenzione durante i lavori di sistemazione perchè potrebbbero venir fuori preziosi resti!
Ecco la descrizione
dello storico Marchesani fatta nel 1841: “La palazzina di S. Lucia, che comprende la Cappella dedicata alla martire, fiancheggiata da giardini circondati da mura, fa tuttora bella mostra di sé nel nord-est della città, dall'altro capo della valle dell'Angrella. Essa appartenne ai Canonici delle Tremiti, che poi la vendettero a Cesare Michelangelo d'Avalos (630); costui la trasformò in una villa deliziosa piena di cedri venuti da Roma e da Firenze (863); qui la sera del 28 Ottobre 1723, fu rappresentata un'opera in prosa intitolata la Merope, alla presenza del connestabile Colonna (673). Lo splendore del luogo diminuisce di giorno in giorno”. Storia di Vasto di Luigi Marchesani - Guida alla lettura a cura di  P.Benedetti e G. Izzi, Editrice Il Nuovo, 2004, pag.259


Le torrette agli angoli
del muro perimetrale
del giardino
Fino agli anni '70 (intendiamo 1970) il complesso abitativo rivelava ancora tracce di antico splendore, esistevano ancora i muri che cingevano il giardino e alcune torrette cilindriche che  ne delimitavano il perimetro. Fu nel settembre 1975 che le torri circolari e i muri con le merlature vennero smantellati per far spazio alla nuova edilizia.
Abbiamo chiesto al poeta Fernando D'Annunzio che è nato e vissuto a S. Lucia di descriverci come erano  questi luoghi  durante la sua infanzia.
NDA


LU CIARDINE DI SANDA LUCI’
di Fernando D'Annunzio 
Il sentir parlare dell’area tra Santa Lucia e l’Ospedale “San Pio” da adibire a parcheggio mi ha fatto venir voglia di raccontarvi qualcosa di quel posto a me tanto caro e qualche ricordo altrettanto caro.
S. Lucia, oggi 
                      Sanda Lucì’
(in dialetto abruzzese)

Sanda Lucì’... La vije a ndo’ so’ nnate,
…la case, lu curtìle, la luggette...
Quanta ricurde i’ ci so’ lassàte!
Quanta prihìre dentr’a la cchisette!

Tutte la ggiuvindù ci so’ passàte,
vindiquattr’anne sott’a chilu tette.
M’arcorde lu ciardìne arizzilàte
e la campàne ‘n cime a la turrette.

Ma chilu sone dôce e argindìne
pe’ la vallàte, mo, cchiù nin zi sente.
Che štrazie arividè chili ruvine,

chila fineštre che sbatt’a lu vente,
‘ndo’ nu ragge di sole, la matine,
jav’ a svijjià nu cìtele cuntente.
Fernando D’Annunzio

Sono nato a Santa Lucia e lì, in quella che era una residenza marchesale dei D’Avalos, ho vissuto fino all’età di 24 anni, cioè fino al 1971, quando la mia famiglia dovette lasciare quella abitazione poiché l’intero stabile comprensivo di tutto il terreno era stato ceduto ad una impresa edile.
La mia famiglia occupava la porzione del palazzo al piano rialzato rispetto a via Santa Lucia e si occupava della  coltivazione del grande giardino (ex orto botanico), costituito da un terreno di forma quadrangolare esteso circa 7.000 metri quadri, tutto pianeggiante e rialzato rispetto alla strada di circa tre metri; tale giardino si affacciava su Via Santa Lucia e guardava verso il mare e verso l’abitato di Vasto da un muraglione in mattoni largo una settantina di centimetri e lungo circa 50 metri, con al centro un grande cancello a due ante in ferro battuto, tale muraglione collegava la chiesetta ai cosiddetti “casoni” (li casùne), una fila di abitazioni sempre dei D’Avalos, che segnava il confine sud della proprietà. Il lato ovest e quello nord del giardino erano delimitati da un muro alto, in pietre e laterizi, sormontato in alcuni tratti (in origine probabilmente su tutta la lunghezza) da archetti  di mattoni a ventaglio. In corrispondenza degli spigoli a sud-ovest e nord-ovest il muro era fatto a forma di bastione arrotondato (foto sopra), proteso verso l’esterno e sempre sormontato dagli archetti appena descritti, identici a quelli che si possono ancora ammirare al lato sud del giardino di Palazzo D’Avalos 


Angolo arrotondato e merlato, Nord-Ovest, del giardino di Santa Lucia
già in abbandono. 
Addossate al muro erano state erette piccole
costruzioni adibite a stalle.
 Da una uscita al lato ovest dell’abitazione, che dava su una loggetta con rampe di scale a semicerchio che scendevano su due lati, per ricongiungersi in basso su tre grandi gradini,  si accedeva al giardino (vedi foto)
La famiglia D'Annunzio al gran completo, assieme al fotografo Di Marco,
alla "loggetta".
 Ricordo tutto del grande giardino: lo spettacolo che si godeva affacciandosi dal muraglione lato mare; l’altro muro sottile e bucherellato che ci divideva al lato sud dal giardinetto di Luigi Anelli, si proprio lui, il poeta, don Luigi Anelli, che io non conobbi, era morto nel ’44, ma conobbi la moglie, signora Emilia “donna Milijétta”. Spesso, da quei buchi nel muro, si spiava ciò che accadeva dall’altra parte (faciavàme la ciuvuétte) e ricordo una curiosa circostanza in cui il mio occhio  incrociò quello di “donna Milijétta”; stizzita, mi disse: “eh tu, bbirbande, chi šti huardanne?” ed io, di rimando: “...e tu?”. Di tanto in tanto, noi bambini, i più piccoli della famiglia, eravamo invitati ad entrare nel giardinetto di Anelli dove ci rendevamo utili eliminando un po’ di erbacce ed in cambio ci veniva concesso di “suonare” un vecchio pianoforte; ne usciva un “concerto a quattro, sei, otto mani”, tale “concerto” durava poco, poiché donna Emilia dimenticava improvvisamente la sua gratitudine nei nostri confronti e ci faceva smettere rispedendoci a casa.     
Mimì D'Annunzio, sullo sfondo "li casune"
Quasi al centro del giardino c’era il pozzo, una cisterna, con il collo stretto, tondo, in mattoni e con l’anello superiore in pietra, sormontato da una struttura in ferro battuto dalla quale pendeva la carrucola; poi, ad una profondità di 4 o 5 metri, il pozzo si allargava enormemente, lì convogliavano le acque piovane provenienti dai tetti de “li casùne”, una fila di case poi demolite per costruire i palazzi che ora ospitano l’ufficio del Registro e della Finanza (vedi foto). 
               
Dalla cisterna attingevamo l’acqua per il fabbisogno quotidiano (cucina, pulizia e irrigazione, l’acqua per bere si andava a prendere nel pozzo di acqua sorgiva “lu pozze di cummuàre Giuvìne”, che si trovava su Via S. Lucia  a cinquanta metri più giù di casa mia, un caratteristico pozzo al quale si accedeva aprendo uno sportello come fosse una finestra a lato di una porta di casa, solo che il davanzale presentava numerosi solchi lasciati dallo strusciare della corda che serviva per attingere). D’estate la cisterna diventava il nostro frigorifero e le bevande, la frutta (citrùne e milùne) e quant’altro, si mettevano dentro un cesto che veniva calato con una fune a fior d’acqua (si mitteve a ddinfresche). Ogni tanto qualche secchio affondava perchè si spezzava la fune, ed allora si calava giù un marchingegno che chiamavamo “lu gràppele”, un cerchio in ferro battuto da cui pendevano innumerevoli ganci, col quale, a forza di scandagliare il fondo del pozzo, si riusciva a ripescare il secchio.
Ho già descritto il cancello che ci metteva in comunicazione con Via Santa Lucia, all’altezza della confluenza con la strada dell’Anghella (la vì’ di la Ngrèlle) e, a proposito del cancello,  non posso mai dimenticare quando mio cugino Domenico restò con la testa incastrata tra sue sbarre,  (siamo circa nell’anno1954/55), Don Romeo Rucci, parroco di San Pietro, passava spesso per Via S. Lucia per recarsi a S. Nicola, dove, adiacente la chiesetta, utilizzava una stanzetta per trascorrervi, specialmente in estate, qualche ora in tranquillità e meditazione; tutte le volte che noi bambini ci accorgevamo del suo passaggio, gli uscivamo incontro per chiedergli “li cumbattucce” , confettini lunghi e sottili con ripieno di cannella, che Don Romeo estraeva dalle profonde tasche della sua tonaca e regalava ai bambini che incontrava; quel giorno il cancello era chiuso e io e Domenico eravamo all’interno, vedendo passare il sacerdote e impossibilitati a corrergli incontro, cominciammo a chiamarlo: “Do’ Rromé’, Do’ Rromé’, li cumbattucce!” subito Don Romeo si avvicinò al cancello e mise la mano in tasca, io stesi la mano attraverso le sbarre, mentre mio cugino, oltre la mano infilò tra le sbarre anche la testa, contentissimi, ricevemmo i deliziosi confettini; ma, allontanatosi il sacerdote, al momento di ritirare dentro la testa, Domenico non riuscì a farla ripassare attraverso le sbarre; spaventatissimi, provammo più volte, anche forzatamente, ma alla fine fui costretto, nostro malgrado, perché sicuramente le avremmo buscate, a chiamare aiuto; accorsero sia mia mamma che mia zia, la mamma di Domenico; una dall’interno e l’altra dall’esterno, e, dopo varie manovre e torsioni, finalmente la testa di mio cugino fu liberata e tale evento fu “festeggiato” a suon di scapaccioni per entrambi.
Del giardino ricordo tutte le piante, ornamentali e da frutto; il terreno era vasto più di mezzo ettaro; nella zona adiacente la casa c’erano varie piante ornamentali e da fiori: una grande palma,(poi  ne piantai una piccola che era nata ai piedi della grande, anch’essa ora è cresciuta, mi è capitato di notarla tempo addietro nel mezzo della boscaglia che circonda quelli che sono i ruderi del palazzo); piante di alloro (ce n’era un gruppo vicinissimo al muraglione, nella zona a fianco della chiesetta, dove io avevo incastrato una vecchia poltrona e lì, quando potevo, sostavo a contemplare la vallata e il mare verso est e, quando il tempo lo permetteva, usavo anche quel posto per studiare, era il mio angolo di pace, sicuramente lì sono nate le ispirazioni per alcuni primi miei componimenti), due cipressi, uno vicinissimo alla casa e vicino alla torretta della chiesa (tante volte attraverso i suoi rami sono salito sul tetto per sostituire la corda della campana) e l’altro più distante, vicino alla grande palma; un lauro-gelso (d’eštàte cacciàve li pallucce a graspitille e da huajjùne ci faciavàme la huèrre nghi li cannillucce, che doppe haje scuperte ca in italiane si chiame la cerbottana, ma se n’ zìa ma’ allore li chiamàve accuscì ci’abbuscàve pure, picchè li scagnàvene pe’ ‘na mmaleparòle), oleandri (li fiure di sand’Anne), iucche, siepi di rosmarino ed altre essenze; c’erano tante rose, margherite, fiori di San Pasquale, gerani, citronella, calle (donne ‘n camìcie), gigli, giacinti, violette, ecc. ecc. Poi una grande varietà di alberi da frutta: un enorme gelso, all’angolo nord-est, davanti al pagliaio, ricordo, quando i suoi frutti maturavano, tra fine maggio e inizio giugno e si raccoglievano allargando una tovaglia da tavola tenuta da più persone, mentre altri scuotevano i rami (si cutuluéve li ciùse) con canne o bastoni, che scorpacciate!; alberi di ciliege di tre o quattro varietà, ce n’era uno, il più grande che alla diramazione era stato innestato con due diverse varietà, un ramo produceva le ciliege precoci e l’altro i duroni (li ciréce a bbômme), quelle che si possono conservare sotto spirito; alberi di mandorle (li mènnele), peri, meli, diverse  varietà di susini (li lécine),  alberi di albicocche con nocciolo dolce e con nocciolo amaro(bbargine, crisomme e virlingocche), peschi (pricòche e  prèzziche), un grande melo cotogno, (a primavera, con la fioritura quasi contemporanea di molte di queste varietà, sembrava di essere in paradiso); c’erano poi alberi di fichi (ficra cole, vajaràne, pricissotte, filacciàne, ficra turche, e addr’ ancòre); vicino al cancello c’erano due nespoli (ddu’ pìte di ciappùne), uno dei quali enorme, dal tronco partivano almeno cinque grosse diramazioni che si allargavano quasi orizzontalmente e quei rami diventavano, nei giochi, il rifugio di ognuno di noi ragazzini e spesso vi costruivamo sopra delle vere capanne (tipo quelle di Tarzan); non mancavano inoltre viti di uva con tutte la varietà locali conosciute (uva San Francésche, uva prèvele, miscardèlle, cciapparòne, uva cazzarèlle, uva pane, e mi pare ch’ avàšte). Riparato dal muro lato nord, c’era qualche albero di arance, sicuramente residuo di un antico agrumeto. A ridosso del muro ad ovest c’erano i semenzai (li ròle), fatti in muratura con coperture mobili in vetro con cornici di legno, servivano, a fine inverno, per seminare pomodori (primìdiche, mizzitembe, a pirùne, a llecine, ecc.), peperoni (dugge, cucìnde, a scarciòfine), melanzane, ecc. Avevamo un bel campo di carciofi e coltivavamo molte verdure stagionali.
Nell’angolo nord-ovest, a ridosso del bastione arrotondato e sormontato da archetti, erano state costruite le stalle: per l’asino, per i maiali, per le pecore, le galline e i conigli.
Nelle vicinanze delle stalle si erigevano ogni anno i depositi della paglia e del fieno
(la méte de la paje e la méte de lu fuìne).

Ci vorrebbe un libro per continuare a parlare di questo posto a me tanto caro e dei ricordi ancora vivi nella mia mente... e chi sa che non possa essere questo il momento e lo spunto per iniziare...
FERNANDO D'ANNUNZIO


 
   

7 commenti:

Alessandro ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Alessandro ha detto...

È stato un piacere leggere le memorie di D'Annunzio. È riuscito a far rivivere un mondo che è tramontato. Spero che stia leggendo questo commento e che possa rispondere a questa mia domanda: " Se potesse tornare giovane, preferirebbe vivere la propria giovinezza in quegli anni o ai giorni nostri?". Aspetto con ansia la sua risposta :)

NICOLA D'ADAMO ha detto...

Da Fernando D'Annunzio riceviamo la risposta ad Alessandro:


Caro Alessandro, non so quanto sei giovane... ma vorrei vivere a lungo per sentire come racconterai un giorno la tua "citilanze".
Comunque quando si racconta la propria gioventù si tende quasi sempre a privilegiare il bello e a trascurare il brutto.
Nel mondo che "è tramontato" ci sono le nostre radici e le radici sono indispensabili ad evitare l'inaridirsi di ogni essere vivente.
Alla tua "bella domanda" mi piacerebbe rispondere dopo essere tornato giovane (se hai la ricetta passamela).
Scherzi a parte... La cosa migliore "sarebbe" poter vivere sia la giovinezza che tutto il resto della vita scegliendo gli aspetti positivi e belli sia del passato che del presente e vivere nella massima semplicità e in armonia con gli altri. Più che altro vedo che oggi ci diamo troppo da fare per complicarci e a farci complicare la vita, dando la massima importanza agli aspetti materiali (senza dubbio indispensabili).
L'argomento della tua domanda non può certo esaurirsi con una risposta secca.
Grazie per aver dedicato un po' del tuo tempo a leggere una piccola parte dei miei poveri ricordi... Ti saluto cordialmente,
Fernando D'Annunzio

Alessandro ha detto...

Caro Fernando, due parole della tua risposta mi fanno riflettere maggiormente: "semplicità" e "armonia". Nei tuoi ricordi traspare proprio quella semplicità che è amore per le piccole cose e l'armonia di sentirsi parte di una comunità. Oggi tendiamo ad affannarci per problemi che molto spesso sono frutto di nevrosi personali e a perdere di vista quei valori che invece tu hai riportato alla luce con il tuo scritto. Ci vuole proprio la sensibilità dei poeti per ritrovare in luoghi immolati alla modernità il proprio luogo dell'anima.
Un saluto cordiale anche a te e spero di poter leggere ancora i tuoi ricordi. Per i miei c'è ancora tempo :)

maria ha detto...

Le radici, le mie radici, leggendo questi ricordi, mi rendo conto che sono prevalentemente nell'anima...
Non nego che ci sono stati momenti in cui ho invidiato coloro che hanno vissuto una vita intera o parte della loro vita in un unico posto... lo stesso posto del padre, la madre e magari dei nonni.
Però, ho imparato a tenere i ricordi legati al cuore, ricordi che ogni tanto emergono e che la mia mente sa già che nulla di ciò che c'era c'è... Per quanto da molti anni vivo nelle stesso territorio, molte cose non ci sono più... Forse questa, è una "condanna" che spetta alla maggior parte di noi figli del grande boom...
Non sarebbe male leggere un libro su questo fantastico giardino, magari un mix tra autobiografia e romanzo... :)

profmugoni ha detto...

Sì, Vasto, via Santa Lucia ! E chi non è passato in questa via ed ha alzato la testa a guardare in silenzio la chiesa sola, diventata rudere penoso, umiliante !?

Ogni volta che passo per questa via mi fermo, niente c'è da ammirare, molto da biasimare ! Gli infissi, la porta e le mura di S. Lucia sono segnate dal tempo e più di tutto dall'incuria dei vastesi, Istituzioni civiche e anche gli abitanti, almeno quelli chiamati Lucio, Lucia, luciette.

Il quadro, che ha pennellato l'amico Fernando, invoglia ad entrare a S. Lucia e a vedere un angolo di storia, un giardino da sogno. Quasi a fogliare una bella pagina di storia di Vasto !

Niente, il vero è che passare oggi per via S. Lucia fa disonore, un po' a tutti, e molto a chi aveva ed ha il compito di custodire il patrimonio della città, quello ricco di cultura, di affetti, di valori.

A Vasto si è terribilmente bravi ad abbattere le piante maestose, non a mettere a frutto le belle risorse esistenti, ne è di esempio vergognoso -dopo S. Lucia- i Palazzi Genova Rulli, Ciccarone, Asilo Carlo Della Penna, etc etc etc.-
prof.mugoni

Unknown ha detto...

caro Fernando permettimi di darti del tu, io mi chiamo Michele Pierabella e sono nato e ho abitato in via Santa Lucia al n. 2. Sono un po' più vecchio di te (1941) e sono partito da Vasto nel 1955 ed abito in provincia di Milano. Non so se ho avuto occasione di conoscerti ma ricordo bene il tuo papà che vedevo passare nella via e che probabilmente conosceva il mio ( classe 1912) e che aveva abitato in zona. Di più ricordo i tuoi nonni materni ed i tuoi cugini. Ho letto il tuo articolo su Santa Lucia e credimi mi ha commosso, mi sono rivisto nella via e nella chiesa quando ero ragazzo. Per noi era un punto di riferimento e quando si andava per asparagi (sperne?) o more (mirachili?) si arrivava giocoforza fino alla chiesetta, e poi per andare agli scogli era un punto di sosta soprattutto al ritorno, e d era anche il punto di riferimento religioso. Mi hai ricordato donna Emilietta che passava nella via con il suo ombrellino tutto ornato di merletti ed era riverita e salutata da tutti.Termino ringraziandoti per i ricordi che susciti in noi e ti assicuro che ho letto alcune tue poesie e mi sono commosso. grazie Michele Pierabella