venerdì 10 febbraio 2012

Cent'anni fa una tragedia del nostro Romualdo Pàntini al Teatro Argentina di Roma

di LINO SPADACCINI

Cento anni fa, il 10 febbraio 1912, veniva rappresentato per la prima volta, nel prestigioso Teatro Argentina di Roma, il Tiberio Gracco del vastese Romualdo Pàntini.

Giornalista, critico d’arte, traduttore e drammaturgo, Romualdo Pàntini è stata una delle figure letterarie meno conosciute e sottovalutate, riscoperta solo negli ultimi anni grazie agli studi svolti dal prof. Gianni Oliva e da Anna Rita Savino.
Il battesimo del Pàntini a teatro avviene nel 1912 con il Tiberio Gracco, tragedia in cinque atti, scritta due anni prima e rappresentata per la prima volta al Teatro Argentina di Roma dalla Compagnia Paladini.
L’azione della tragedia si svolge

 nel 133 a. C. e riproduce fedelmente un momento essenziale della storia di Roma, con la figura di Tiberio Gracco, giovane eroe e uomo di grande azione.
Tiberio, impersonato dall’attore Amedeo Chiantoni, di ritorno dalla guerra coi Numantini, è accusato di aver manomesso il denaro pubblico, e per questo deve essere condotto davanti al Senato. Ma prima confessa la sua innocenza alla madre Cornelia e alla sposa Claudia, figlia di Appio Claudio. Davanti al Senato, Tiberio riesce a discolparsi, e i suoi fedelissimi lo eleggono tribuno del popolo. La situazione a Roma è molto critica e la gente ha fiducia nel nuovo tribuno affinché possa risollevare il popolo dalla miseria. Egli pensa di dare esecuzione alla famosa legge agraria, per la quale nessun capo famiglia può occupare più di cinquecento iugeri di agro pubblico, mentre il rimanente, restituito allo Stato, sarà diviso tra i poveri in lotti di trenta iugeri ciascuno. Nella splendida scena del Foro, Tiberio presenta la sua proposta di legge accolta tra gli applausi del popolo, ma incontra la feroce opposizione dei ricchi e del tribuno Ottavio, che pone il suo veto. Il popolo è per Tiberio e vota la legge agraria. L’attuazione della nuova legge incontra gravi difficoltà, provocando l’insofferenza dei poveri ansiosi di occupare le terre promesse. Nel frattempo è nell’ombra una congiura contro Tiberio. Viene anche ucciso Labeno, il suo fido liberto.
L’ultimo atto si svolge sul Campidoglio. Tiberio chiede che gli si rinnovi la carica per un anno, ma i nemici si oppongono; egli allora, con la sua arte oratoria, riesce a convincere il popolo, il quale è pronto a rieleggerlo, quando irrompe sulla scena il pontefice Nasica, capo dei patrizi, seguito dagli amici Tito Annio e Quinto Metello, e grida morte al tribuno. Scoppia un feroce tumulto e Tiberio viene colpito a morte.
Molti i commenti positivi ricevuti dal Pantini, dai maggiori critici dell’epoca, su quotidiani e periodici specializzati. In particolare, il critico Domenico Oliva definisce l’opera tumultuosa ed esuberante, con una concezione teatrale originalissima.Tutta la tragedia”, si legge su Il resto del carlino, “è una visione d’arte originalissima, è una successione di scene rapide, serrate, impetuose che tendono a mettere in rilievo la figura del protagonista, il suo gran senno incompleto di legislatore”. E ancora: “La commedia è piaciuta, tanto che l’autore è stato chiamato e applaudito a ogni atto. È piaciuta, malgrado l’endecasillabo non appaia alla recitazione egualmente curato e perfetto; è piaciuta malgrado la rigidità schematica dello svolgimento storico. E io credo che il segreto del successo sia uno solo: la brevità delle scene, e il parlare serrato dei personaggi, se non alto e profondo”. Un giudizio quasi profetico si legge in un altro articolo: “L’autore apparve due o tre volte alla ribalta, la tragedia avrà due o tre repliche, sarà rappresentata in qualche altra piazza, e tra qualche mese non se ne parlerà più”.
Diversi i pareri poco lusinghieri, come quello di L.R.Montecchi, il quale scrive: “Vogliamo anche fare l’analisi del successo? Non è il caso; a me basta lealmente contestarlo e, dirò di più, lietamente contestarlo, perché se anche l’opera del Pantini non mi sembri teatralmente e letteralmente felice, riconosco ch’egli è un solerte e studioso lavoratore ed è forse per questa sua nobile qualità che deve soprattutto giustificarsi il successo”. Mentre in altra critica si legge: “Il suo tentativo è caduto inesorabilmente. I suoi personaggi sono vuoti e fiacchi; manca ad essi e psicologia e fisiologia; tanto è arida e nulla l’azione che egli non ha saputo nemmeno sfruttare l’analogia di certe situazioni con le condizioni odierne della società, con quelle condizioni, cioè che devono avergli ispirata la tragedia”.

Presenti in sala, oltre all’aristocrazia romana, anche l’on. Francesco Ciccarone e il comm. Nasci, con le rispettive famiglie, e anche illustri personalità abruzzesi fra quali Francesco Paolo Tosti e Benedetto Croce.
Lino Spadaccini





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