domenica 22 maggio 2011

CARLO D'ALOISIO DA VASTO, A 40 ANNI DALLA MORTE (seconda parte)



INTERVISTA AL FIGLIO DEL PITTORE VASTESE, GIOVANNI D'ALOISIO (seconda parte)

DI LINO SPADACCINI

Carlo D’Aloisio e Elisabetta Mayo, due grandi artisti. C’era rivalità o complicità tra i due?
Mai stata rivalità tra i due. Pur operando nello stesso studio, lui pittore e lei scultrice, fra i due, che io ricordi, non c’era interferenza. C’era invece tanta complicità. Come nell’arte così nella vita familiare. Una complicità che ha generato cinque figli voluti e allevati e che, nella discussione sulle iniziative nel campo delle arti, molte idee, anche quelle generate da mia madre, hanno dato forza ai movimenti intrapresi insieme, anche se poi svolti prevalentemente nel nome di mio padre.
Mio padre fumava il classico toscano diviso in due, metà per la mattina metà per il pomeriggio, ma per lo più tenuto spento in bocca, come si vede nel suo autoritratto; amava mangiare all’abruzzese e mia madre ogni mattina prima di iniziare il suo lavoro di scultrice chiedeva sempre a mio padre cosa volesse mangiare per pranzo e per cena; mia madre, dopo la nascita del quinto figlio, cessò gradualmente di produrre sculture e rivolse il suo estro creativo alla pittura, al disegno e allo scrivere. A chi le chiedeva il perché mai avesse abbandonato la scultura lei rispondeva: quando mai, io ho messo in produzione cinque sculture viventi e ancora le sto plasmando!
Quale eredità le hanno lasciato?
Tra tanta parentela benestante i miei genitori sul piano economico come si dice “hanno tirato avanti”: Mio padre vendeva i suoi quadri e godeva di un non elevato stipendio per la sua funzione di dirigente dei musei e gallerie comunali. Mia madre ha venduto alcune sue sculture. Queste erano le entrate. Abbiamo vissuto sempre in case in affitto. Dunque, in quanto ad una eredità economica ne’ io ne’ i miei fratelli abbiamo ereditato alcunché. Però per tutti e cinque noi figli una grande eredità c’è stata : quella morale, quella artistica e quella delle opere, intendendo per queste alcuni quadri, incisioni, disegni e illustrazioni da parte di nostro padre e da parte di nostra madre alcune sculture, dipinti, disegni e tanti e tanti manoscritti. Tutte cose che ci siamo divisi tra noi.
Suo padre ha lasciato Vasto a 16 anni. Sua madre era figlio del vastese Equizio Mayo. Qual era il rapporto di Carlo e Elisabetta con Vasto? E suo padre le ha mai spiegato perché ad un certo punto ha aggiunto alla sua firma “da Vasto”?
Mio padre lasciò Vasto a 16 anni perché già da allora aveva compreso che per esprimere tutto il potenziale interesse per l’arte che sentiva dentro di lui doveva subito trasferirsi a Roma per immergersi in un campo ben più ampio, dove nuotare, seminarsi e coltivarsi. E questa sua giovanissima certezza fu infatti poi confermata dal suo operare nel muovere il mondo artistico nazionale e a volte persino internazionale. E non per se’ stesso ma per agitare con tutti e per tutti il momento artistico giunto ad una fase di sua incertezza esistenziale. Le sue prime opere vastesi e romane erano da lui firmate C. D’ALOISIO. L’aggiunta “DA VASTO” lui la decise per affermare la sua origine non appena si rese conto che ormai, come del resto aveva previsto, Roma era il luogo certo da cui non si sarebbe potuto più allontanare. Ha però pensato ogni giorno alla “sua” Vasto, ne sono testimone. Mia madre, pur essendo figlia di vastesi era nata a Napoli, e quindi non ha avuto rapporti giovanili con Vasto. Successivamente vi si recò per un non breve periodo accompagnata dal fratello Beniamino Mayo, giovane ingegnere, che aveva progettato per Vasto una centrale elettrica atta a illuminare la città ma poi, non avendone ottenuto il credito, si trasferì in Congo Belga dove impiantò i famosi “Garage Mayo” nonché i “Traghetti Mayo” lungo tutto il fiume Congo.
L’Almanacco degli artisti “Il Vero Giotto”, ha rappresentato il centro culturale di tutto il movimento artistico degli anni ’30. Suo padre aveva molti amici pittori e letterati, anche molto famosi, che ricordo ha di quel periodo?
Io sono nato nel 1930 e quindi ero in fasce quando uscì il primo numero dell’Almanacco e avevo tre anni quando uscì il quarto. Ricordo però benissimo i pacchi dei volumi riposti in un armadio nello studio di viale Giulio Cesare. Le così dette “rese”. Non so se avrò avuto sette o nove anni quando ebbi l’occasione di cominciare a sfogliarli uno dopo l’altro. Più che altro per guardare i disegni che vi erano pubblicati. Comunque ricordo che lo studio era un andirivieni di artisti, dei quali ho ancora presente qualche volto e qualche nome : Melli, Trifoglio, Scipione, Cardarelli, Frateili, Tosi, Vellani Marchi e persino Bontempelli. Soprattutto la sera e fino a tarda notte, quando io e Beniamino andavamo a dormire, si sentivano le voci delle discussioni in atto. Un vero “cenacolo”.
Ricorda qualche aneddoto particolare su suo padre?
Non proprio un aneddoto ma un profondo ricordo: “due compagni di banco”. Nel 1947 mio padre espose le sue opere in una mostra personale a Milano, io ero con lui come sempre presente come assistente ed aiutante nell’organizzazione di tali manifestazioni (avevo diciassette anni). Prima di allora non ero mai stato a Milano. Ricordo che, grazie agli inviti inviati e alla pubblicità giornalistica dell’evento, la mostra era affollata di visitatori soprattutto nelle ore pomeridiane e serali. Accadde che in un pomeriggio arrivò alla mostra un personaggio che io non conoscevo e quindi rimasi stupito dal fatto che quasi tutti i visitatori tolsero lo sguardo dalle opere esposte e si girarono verso questo personaggio. Era Raffaele Mattioli, il Presidente della Banca Commerciale Italiana. Ricordo ancora che cercai con gli occhi di interrogare mio padre. Ma mio padre aveva gli occhi che brillavano di luce e così quelli di Mattioli: si abbracciarono come due fratelli sperduti, tutti gli astanti, io compreso, rimasero stupiti. E, come se fossero soli e ancora bambini, ad alta voce gridarono:
- Carlè, amiche me’. Gna štì, štì bbone?
- Raffaè, štinghe bbone, štinghe bbone, ma quanda tembe è passàte!
Poi Raffaele Mattioli si mise a guardare le opere esposte, una per una, con molta passione. E ben ricordo che, quando si fermò davanti ad un delicatissimo acquerello intitolato “natura morta sul mare”, esclamò:
- Li ciammajèche, Carlè, t'aricurde li ciammajìche a rrive a lu mare?
Avevano cinquantacinque anni ciascuno. Io ne avevo solo diciassette. Ma li rivedo lì insieme felici a Milano come due bambini. La sera stessa mio padre mi spiegò il grande affetto con Raffaele: erano stati da giovani grandi amici e compagni di banco alla Scuola Tecnica di Vasto.
Il prossimo 21 novembre ricorrerà il quarantesimo della morte di suo padre. Come le piacerebbe che fosse commemorato?  
In data 21 novembre dello scorso hanno ho contattato alcuni amici per formulare l’idea di celebrare la figura di mio padre. Siamo rimasti d’accordo di mettere in azione una “petizione” che, promossa dalla Città di Vasto, dalla Provincia di Chieti e dalla Regione Abruzzo, raccolga le più autorevoli e significative firme. Siamo comunque tutti d’accordo che l’iniziativa partirà subito dopo le elezioni amministrative per il Comune di Vasto.
Il mio auspicio è anche quello che in occasione della commemorazione di mio padre si dia corpo a nuove intestazioni delle vie di Vasto a personaggi come: Elisabetta Mayo, Venceslao Mayo, Equizio Mayo, Nicola D’Aloisio e Luigi D’Aloisio.

Lino Spadaccini

2 commenti:

Alessandro ha detto...

È proprio vero il detto "nemo propheta in patria". Peccato, perché trovo l'opera di questo pittore davvero di gran pregio.

maria ha detto...

Le opere d'arte, non dovrebbero avere patria... a differenza dell'autore.
Le opere d'arte dovrebbero girare e girare ed essere date a disposizione dello sguardo di tutti... e non dovrebbero avere influenze di alcun genere ne della nazionalità o origini dell'autore e ne di nulla... dovrebbero solo poter dare liberamente le emozioni che esprimono, esattamente come la musica!
Ma anche su quella si fa preferenza in base a mode o origini degli autori...