Dopo il successo al Teatro Valle di Roma l’11 giugno 1914, il dramma “La notte di San Giuliano”, del vastese Romualdo Pantini, viene rappresentato il 21 gennaio 1915 al Teatro dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano.
Giornalista, critico d’arte, traduttore e drammaturgo, Romualdo Pantini è stata una delle figure letterarie meno conosciute e sottovalutate, riscoperta solo negli ultimi anni grazie agli studi svolti dal prof. Gianni Oliva e da Anna Rita Savino.
Il battesimo del Pantini a teatro avvenne nel 1912 con il Tiberio Gracco, tragedia in cinque atti, scritta due anni prima e rappresentata per la prima volta nel prestigioso Teatro Argentina di Roma dalla Compagnia Paladini. Notevoli furono i consensi da parte dei maggiori critici dell’epoca. In particolare, il critico Domenico Oliva definì l’opera tumultuosa ed esuberante, con una concezione teatrale originalissima.
Altro successo di critica e di pubblico ottenne il dramma mistico La notte di S. Giuliano, rappresentata al Teatro Valle di Roma l’11 giugno 1914 dalla Compagnia Della Porta-Capodaglio.
L’azione di svolge nel decimo secolo in Sicilia sul Monte Erice. Giuliano (interpretato da Annibale Ninchi) è misterioso cavaliere che sconfigge e uccide il Califfo aggressore, conducendo alla vittoria gli uomini del Conte d’Erice. Questi, come segno di gratitudine vorrebbe tenerlo con lui, ma Giuliano rifiuta e gli confessa una profezia che lo angoscia: un pellegrino un giorno gli ha rivelato che ucciderà suo padre. Ma Giuliano non resiste all’amore di Diomira, la figlia del conte, che la prega di rimanere. I due innamorati si sposano, ma ciò non basta a calmare l’animo di Giuliano, oppresso dalle sue angosce. Un giorno non resiste alla tentazione di andare a caccia. Mentre è fuori, giunge al castello un pellegrino, lontano da casa da cinque anni in cerca di suo figlio. Il pellegrino è il padre di Giuliano. Tornando a casa dalla caccia, Giuliano scopre qualcuno nel suo letto. Accecato dalla gelosia lo trafigge con il pugnale. Diomira entra nella stanza sorridente, lieta di annunciare al marito l’arrivo del padre, ma quando vede il pugnale sanguinante urla “Che hai fatto?”. “Ho ucciso!”. Ma arriva inesorabile la fatale rivelazione: “Hai ucciso tuo padre!”. Il destino si è avverato. Il protagonista vuole uccidersi, ma gli appare in visione Cristo, sotto forma di lebbroso, che gli porta il segno della pace.
I due atti molto avvincenti, scritti con versi armoniosi, sono stati molto apprezzati dal pubblico romano, il quale ha chiamato in scena attori e autore due volte al termine del primo atto e quattro volte al termine del secondo.
Numerosi i commenti favorevoli pubblicati dai critici sui vari quotidiani e giornali dell’epoca. “Il significato della tragedia”, scrisse Giulio Caprin sul Marzocco, “è nella imprecazione di Giuliano che, compiuto il delitto, grida la sua angoscia di creatura umana che ha fatto il male e non sa perché lo ha fatto. La tragedia di Giuliano è, nella intenzione del Pàntini, la tragedia universale dell’uomo cieco tra le forze cieche del bene e del male”. La forza del dramma va cercato nell’energia che ciascuna scena riesce a trasmettere, in cui il lirismo di contiene entro un limite drammatico. “Questa è la felice novità del dramma del Pàntini in confronto del solito così detto teatro di poesia”, scrisse ancora Giulio Caprin, “…le immagini sono lampi di mondo interiore, non decorazione sovrapposta; se c’è del lirismo, è quello naturale della passione tesa, non quello artificiale del poeta che vuol crear la passione dove non c’è, a furia di parole”.
Il Pantini incassò anche qualche isolata critica negativa, accusato di aver messo in scena una tragedia povera e non molto originale. Di parere differente il pubblico, che per cinque serate consecutive riempì il teatro fino all’ultimo posto disponibile.
L’anno successivo il dramma venne rappresentato con eguale successo al Teatro dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano.
Lino Spadaccini
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