Il 16 aprile del 1864, da Federico, stimato ingegnere, e Isabella Celano, nasceva uno dei figli più illustri della nostra città: l’esploratore Ernesto Cordella.
Sin da ragazzo Ernesto mostrò una particolare inclinazione per le armi e andò a studiare all’Accademia militare di Torino, dove ne uscì a 19 anni col grado di sottotenente di artiglieria.
L’anno successivo, nel 1884, durante il colera scoppiato a Napoli, prestò servizio come volontario della Croce Bianca e meritò la medaglia d’argento dei benemeriti della salute pubblica.
Scoppiata la guerra in Africa, spinto da quello spirito indomito che lo portava a trovarsi sempre protagonista in prima linea, fu tra i primi a recarsi in Eritrea. Dopo aver combattuto il 25 febbraio 1896 a Mai-Maret, ad Adua, si ricoprì di gloria: dell’eroica artiglieria della Brigata Albertone, fu l’unico ufficiale superstite. Seguirono tredici mesi di dura prigionia. Per quasi tre mesi passò da un villaggio all’altro quasi denudato e a piedi scalzi; la notte dormiva all’aperto sotto la rugiada e la pioggia e riusciva ad alleviare la fame mangiando erba e bevendo l’acqua putrida dei pantani.
Furono momenti molto difficili, ma Ernesto Cordella non si diede mai per vinto e, passati i momenti duri, cominciò a farsi apprezzare operando per lo sviluppo di quelle regioni ancora profondamente arretrate, costruendo ponti, nuove strade, insegnando nuove tecniche di coltivazione dei campi e come si costruisce una casa.
Alla vigilia del suo rientro in Italia scrisse alla madre: “Dall’Italia ho ricevuto e ricevo continuamente belle lettere, esse formano la mia unica gioia e mi confermano nell’idea che fare il proprio dovere è il maggior vanto di un uomo. Al mio ritorno sentirete che son degno figlio dell’Abruzzo, e che mai, come adesso, mi sento di essere vastese…”.
Tornato in Italia fu promosso capitano e decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Il continente africano aveva affascinato talmente tanto il giovane Cordella, che appena si rimise da una lunga malattia, il 30 aprile 1903 partì per il Congo con una spedizione belga. Fu nominato prima comandante a Kasongo e poi a Ponthierwille. Per lui rappresentava una carica prestigiosa perché fino a quel momento non era mai stata affidata ad un ufficiale non belga.
Sempre desideroso di contribuire alla rivelazione scientifica di quella parte del pianeta ancora inesplorata, per due anni visitò le terre verso il bacino del fiume Elila, fra il lago Tanganika e il fiume Congo, percorrendo oltre mille chilometri attraverso un paese montuoso, abitato da una tribù di nani selvaggi, i Batua, che avevano già massacrato una precedente spedizione belga di venticinque uomini.
La spedizione durò ottantotto giorni, di cui settantacinque di marcia effettiva, e risultò più difficoltosa del previsto con gli uomini che quasi non volevano più seguirlo. “Ho fatto appello a tutta la mia energia”, scrisse in una lettera al fratello Emilio, “e minacciando quei vili, io solo in mezzo a loro, col revolver in pugno, sono riuscito a farmi seguire”.
Il desiderio di esplorare il continente africano era troppo forte. Tutti i disagi passati non erano riusciti a fermarlo, anzi lo avevano stimolato ancor più, tanto che l’anno successivo organizzò una nuova spedizione, purtroppo fatale per la sua stessa vita, formata da circa duecento uomini, per l’esplorazione verso il lago Mokoto, non registrato dalle carte, per Lubutu e Walikale. Nel novembre del 1905, giunti nel villaggio di N’Pena, a 1300 sul livello del mare, Ernesto Cordella si ammalò gravemente di una malattia tropicale e, dopo una settimana di agonia, il 17 novembre spirò all’età di 41 anni.
Due anni più tardi, dietro le insistenti richieste inoltrate dalle autorità competenti per riavere in patria il corpo del nostro concittadino, la bara venne esumata e trasportata in mare fino a Genova, per poi proseguire in treno fino a Vasto.
La commemorazione funebre fu imponente: davanti al feretro in legno grezzo del Congo, con una croce metallica realizzata con la fusione di monete congolesi, offerte dagli indigeni, porsero omaggio le più alte cariche cittadine e una folla immensa che non era voluta mancare all’ultimo saluto di quell’uomo che aveva affascinato le giovani menti vastesi, che avevano seguito le sue tante avventure, ma anche le sue sofferenze, attraverso le pagine del giornale locale Istonio.
Lino Spadaccini
Sin da ragazzo Ernesto mostrò una particolare inclinazione per le armi e andò a studiare all’Accademia militare di Torino, dove ne uscì a 19 anni col grado di sottotenente di artiglieria.
L’anno successivo, nel 1884, durante il colera scoppiato a Napoli, prestò servizio come volontario della Croce Bianca e meritò la medaglia d’argento dei benemeriti della salute pubblica.
Scoppiata la guerra in Africa, spinto da quello spirito indomito che lo portava a trovarsi sempre protagonista in prima linea, fu tra i primi a recarsi in Eritrea. Dopo aver combattuto il 25 febbraio 1896 a Mai-Maret, ad Adua, si ricoprì di gloria: dell’eroica artiglieria della Brigata Albertone, fu l’unico ufficiale superstite. Seguirono tredici mesi di dura prigionia. Per quasi tre mesi passò da un villaggio all’altro quasi denudato e a piedi scalzi; la notte dormiva all’aperto sotto la rugiada e la pioggia e riusciva ad alleviare la fame mangiando erba e bevendo l’acqua putrida dei pantani.
Furono momenti molto difficili, ma Ernesto Cordella non si diede mai per vinto e, passati i momenti duri, cominciò a farsi apprezzare operando per lo sviluppo di quelle regioni ancora profondamente arretrate, costruendo ponti, nuove strade, insegnando nuove tecniche di coltivazione dei campi e come si costruisce una casa.
Alla vigilia del suo rientro in Italia scrisse alla madre: “Dall’Italia ho ricevuto e ricevo continuamente belle lettere, esse formano la mia unica gioia e mi confermano nell’idea che fare il proprio dovere è il maggior vanto di un uomo. Al mio ritorno sentirete che son degno figlio dell’Abruzzo, e che mai, come adesso, mi sento di essere vastese…”.
Tornato in Italia fu promosso capitano e decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Il continente africano aveva affascinato talmente tanto il giovane Cordella, che appena si rimise da una lunga malattia, il 30 aprile 1903 partì per il Congo con una spedizione belga. Fu nominato prima comandante a Kasongo e poi a Ponthierwille. Per lui rappresentava una carica prestigiosa perché fino a quel momento non era mai stata affidata ad un ufficiale non belga.
Sempre desideroso di contribuire alla rivelazione scientifica di quella parte del pianeta ancora inesplorata, per due anni visitò le terre verso il bacino del fiume Elila, fra il lago Tanganika e il fiume Congo, percorrendo oltre mille chilometri attraverso un paese montuoso, abitato da una tribù di nani selvaggi, i Batua, che avevano già massacrato una precedente spedizione belga di venticinque uomini.
La spedizione durò ottantotto giorni, di cui settantacinque di marcia effettiva, e risultò più difficoltosa del previsto con gli uomini che quasi non volevano più seguirlo. “Ho fatto appello a tutta la mia energia”, scrisse in una lettera al fratello Emilio, “e minacciando quei vili, io solo in mezzo a loro, col revolver in pugno, sono riuscito a farmi seguire”.
Il desiderio di esplorare il continente africano era troppo forte. Tutti i disagi passati non erano riusciti a fermarlo, anzi lo avevano stimolato ancor più, tanto che l’anno successivo organizzò una nuova spedizione, purtroppo fatale per la sua stessa vita, formata da circa duecento uomini, per l’esplorazione verso il lago Mokoto, non registrato dalle carte, per Lubutu e Walikale. Nel novembre del 1905, giunti nel villaggio di N’Pena, a 1300 sul livello del mare, Ernesto Cordella si ammalò gravemente di una malattia tropicale e, dopo una settimana di agonia, il 17 novembre spirò all’età di 41 anni.
Due anni più tardi, dietro le insistenti richieste inoltrate dalle autorità competenti per riavere in patria il corpo del nostro concittadino, la bara venne esumata e trasportata in mare fino a Genova, per poi proseguire in treno fino a Vasto.
La commemorazione funebre fu imponente: davanti al feretro in legno grezzo del Congo, con una croce metallica realizzata con la fusione di monete congolesi, offerte dagli indigeni, porsero omaggio le più alte cariche cittadine e una folla immensa che non era voluta mancare all’ultimo saluto di quell’uomo che aveva affascinato le giovani menti vastesi, che avevano seguito le sue tante avventure, ma anche le sue sofferenze, attraverso le pagine del giornale locale Istonio.
Lino Spadaccini
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