prof. Luigi Murolo |
di Luigi
Murolo
Raccolgo in
questo intervento alcune mie considerazioni espresse nel corso di un dibattito
all’ interno della sezione vastese “Italia Nostra”. Data la provvisorietà che
rivestono, ho voluto mantenere il tono discorsivo della formulazione.
La domanda
che mi pongo da qualche tempo è la seguente: in qual modo è possibile praticare
oggi una politica civica dei beni culturali? Si noti bene: non
una politica culturale genericamente intesa, ma una specifica politica
civica per i beni culturali.
Onde evitare
confusioni o incorrere in equivoci si tratta di definire con precisione il
significato di «bene culturale» e l’ambito in cui tale politica deve essere
esercitata. Per entrare in quest’ordine
di idee si deve per forza ricorrere alla legislazione italiana per capire in che modo lo Stato nazionale definisce la nozione di «ben culturale». Riferimento obbligato è il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002 n. 137). Al §1 del citato art. 10 si legge quanto segue:
di idee si deve per forza ricorrere alla legislazione italiana per capire in che modo lo Stato nazionale definisce la nozione di «ben culturale». Riferimento obbligato è il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002 n. 137). Al §1 del citato art. 10 si legge quanto segue:
«1. Sono
beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni,
agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto
pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli
enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico».
A ulteriore
specificazione di ciò, il §2 dell’art. 10 recita in questi termini:
«2. Sono
inoltre beni culturali:
a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico […]».
a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico […]».
La
definizione è estensiva: «sono beni culturali le cose immobili e mobili […],
che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico».
Malgrado l’estensività, va sempre sottolineato che, fuori da tale contesto, non
è possibile parlare di beni culturali. Che una politica ad hoc deve
riguardare solo e esclusivamente tale ambito. Ma è davvero così? Vogliamo fare qualche
esempio? Presto detto. Secondo tale nozione, il dialetto vastese rientra nella
sfera dei beni culturali etnoantropologici? E il cimitero ottocentesco insieme
con quello degli anni Trenta del Novecento?Sono considerati bene culturalistorico-artisticoi?
E che cosa dire della villa Ritucci-Chinni donata al Comune? E’ un bene
culturale artistico? E l’Asilo “Carlo Della Penna”? È o non è un bene culturale
storico? E l’acquedotto delle Luci? Certo, la storia di cui sono portatori li
riconosce come tali. Ma sono beni culturali solo in astratto. Di fatto, dal
punto di vista civico, non c’è alcun atto formale (una delibera comunale
[essendo di pertinenza comunale]) che li definisca, li vincoli e li tuteli in
quanto tali. Se l’asilo Della Penna è un bene culturale storico (e non vedo il
motivo per cui non dovrebbe esserlo) perché lo si è lasciato in abbandono? Se
il cimitero ottocentesco è un bene culturale storico perché lo si è trasformato
in un disordinato sistema edilizio «necropolitano»? Come mai si è posta in
vendita la villa Ritucci-Chinni? Perché
si vuole abbattere l’asilo Della Penna?
Di fronte a
tanto sfacelo, la questione di fondo resta una e una sola: che fare?
Come può operare per salvare il salvabile un’associazione come “Italia Nostra”?
Dal punto di
vista strategico (il che vuol dire, lungo periodo) deve operare per favorire la
istituzione di uno specifico Ufficio
comunale per i beni culturali (ripeto: beni
culturali, senza altre aggettivazioni o determinazioni), per garantire una
costante attenzione nei confronti della memoria storica della città (ad
esempio, non è accettabile che, dopo numerosesegnalazioni, nessun membro del precedente
consiglio comunale abbia provveduto a far modificare l’art. 2 §6 dello Statuto che indica il giallo/rosso e non
il bianco/rosso come metallo e colore dello Stemma di Vasto. Oppure intitolare vie a personaggi mai
esistiti. E sto parlando di operazioni semplicissime a costo zero). Non
solo. Deve essere formalizzato il rapporto tra istituzione e cittadini. Ma a
una condizione: che occorre tenere sempre nettamente distinti i ruoli di
amministratore e amministrato. Non esiste altro modo per rendere patrimonio
culturale fruibile dai cittadini ciò che, nei fatti, è bene culturale di per
sé.
Anche in
questo caso un esempio non guasta.Da homo civicus – per “Italia Nostra”
– ho scritto la breve relazione per dichiarare bene culturale (nel contesto
degli alberi monumentali) il “viale della Rimembranza” della villa comunale di
Vasto. La relazione ha prodotto l’effetto voluto. Benissimo. Le cose stanno in
questi termini. Ma c’è un problema. Un problema che, al tempo stesso, è un nome
e una pratica: comunicazione. Che cosa significa tutto questo? Molto
semplice. Quanti, oggi, sono a conoscenza del fatto che i lecci del “viale
della Rimembranza” di Vasto saranno tutelati e salvaguardati, per l’appunto,
come “bene culturale”?
Il tema della comunicazione è fondamentale. Non va confuso con la banale informazione, con un semplice messaggio tra un emittente e un ricevente. Comunicazione è, prima di ogni altra cosa, un rapporto pedagogico-formativo. Nel suo originario valore semantico, un cum-munus. Un “qualcosa” che si costruisce intorno a un impegno; un impegno che “mette insieme” soggetti, che li “rende partecipi”. Da questo punto di vista, “bene culturale” diventa comunicazione; un “bene” che organizza intorno a se stesso un gruppo sociale e lo trasforma in una comunità. Un bene in cui la stessa comunità si “riconosce” e in cui riesce a trovare la propria “identità” culturale. E qui diventa fondamentale la duplice funzione di “Italia Nostra”. Da un lato, l’aspetto determinante della vigilanza sull’esistente; dall’altro, la funzione pedagogico-formativa dei cittadini. Una domanda. Archivi, musei, raccolte librarie sono o devono diventare “beni culturali”? Chiedo: esistono deliberazioni comunali che lo attestano? C’è un ufficio comunale ad hoc che ne garantisce il funzionamento? Oppure il tutto è legato alla buona volontà del politico di turno che cerca di mettere qualche pezza laddove risulta necessaria? Se sapremo porre questi interrogativi, sapremo anche rispondere al ruolo che dovràassumerere “Italia Nostra”.
Ecco. Vorrei che si facesse attenzione su di un punto. “Bene culturale” è nozione giuridica. E gli enti in questione sono tali. Ma perché questi ultimi possano diventare “significativi” per un insieme sociale occorre che essi siano “comuni”; che siano, cioè, comunicati. E qui, ovviamente, non si parla dell’istituto latino della vindicatio in rem (che presuppone la patrimonialità dell’oggetto: res mea est [la cosa è mia]); ma quello dello ius in rem [il diritto è mio, non la cosa]. E ciò vuol dire che il diritto sulla cosa funziona solo se siamo partecipi del suo stesso funzionamento. E cioè, se gli archivi, i musei, le raccolte librarie esistono solo in se stessi e non sono usati, ciò vuol dire che non sono intesi comebeni comunicati; in altre parole, beni della comunità. Nei fatti, si presentano come banali depositi di cose. Il che vuole dire – tanto per fare un esempio desunto da Facebook – «sei di Vasto se …» solo se qualche volta ti rivolgi a questi luoghi, li utilizzi, per trovare qualche risposta alle ragioni storiche della tua identità antropologica di «vastese». Come facciamo a parlare di centro storico o di centro antico se non sappiamo che cosa sono o in qual modo devono (o dovrebbero) essere definiti? Come facciamo a salvaguardare i «suoni» storici del dialetto se non ne conosciamo la classificazione e non sappiamo che suono assume la <a> tonica in sillaba chiusa? E come facciamo a conoscere i fines del municipiumhistoniensium se l’epigrafe che li attesta non è esposta nel museo (incredibile dictu!) ma conservata solo nei depositi? E se non frequentiamo tali istituzioni come facciamo a sapere che, malgrado i restauri eseguiti presso l’ala nord di Palazzo d’Avalos, le sale sono ancora vuote in attesa di ricevere opere d’arte che gridano a tutti i cittadini per essere esposte? E poi, senza comunicazione, come facciamo a essere informati che l’Archivio della Curia di Vasto (sede contitolare con Chieti dell’omonimo Arcivescovado), dopo la classificazione eseguita dalla Sovrintendenza archivistica per l’Abruzzo e il restauro del palazzo vescovile, è stato trasferito in silenzio a Chieti? Per quale motivo? Non esistono giustificazioni. Per sede c’è un intero palazzo rimesso a nuovo del tutto inoccupato. E nemmeno si può parlare di assenza di personale della curia. Per quale motivo? Sarebbe bastato un semplice accordo tra Sovrintendenza, Comune e Curia per trovare una ragionevole soluzione. Mi chiedo: sono stati compiuti passi in tal senso? Si potrebbero avere risposte? Perché la città è stata depauperata di un pezzo della sua storia senza che nessuno abbia levato la voce? Quali sono state le ragioni che hanno indotto l’Arcivescovo a decretare il trasferimento degli atti vastesi?
Il tema della comunicazione è fondamentale. Non va confuso con la banale informazione, con un semplice messaggio tra un emittente e un ricevente. Comunicazione è, prima di ogni altra cosa, un rapporto pedagogico-formativo. Nel suo originario valore semantico, un cum-munus. Un “qualcosa” che si costruisce intorno a un impegno; un impegno che “mette insieme” soggetti, che li “rende partecipi”. Da questo punto di vista, “bene culturale” diventa comunicazione; un “bene” che organizza intorno a se stesso un gruppo sociale e lo trasforma in una comunità. Un bene in cui la stessa comunità si “riconosce” e in cui riesce a trovare la propria “identità” culturale. E qui diventa fondamentale la duplice funzione di “Italia Nostra”. Da un lato, l’aspetto determinante della vigilanza sull’esistente; dall’altro, la funzione pedagogico-formativa dei cittadini. Una domanda. Archivi, musei, raccolte librarie sono o devono diventare “beni culturali”? Chiedo: esistono deliberazioni comunali che lo attestano? C’è un ufficio comunale ad hoc che ne garantisce il funzionamento? Oppure il tutto è legato alla buona volontà del politico di turno che cerca di mettere qualche pezza laddove risulta necessaria? Se sapremo porre questi interrogativi, sapremo anche rispondere al ruolo che dovràassumerere “Italia Nostra”.
Ecco. Vorrei che si facesse attenzione su di un punto. “Bene culturale” è nozione giuridica. E gli enti in questione sono tali. Ma perché questi ultimi possano diventare “significativi” per un insieme sociale occorre che essi siano “comuni”; che siano, cioè, comunicati. E qui, ovviamente, non si parla dell’istituto latino della vindicatio in rem (che presuppone la patrimonialità dell’oggetto: res mea est [la cosa è mia]); ma quello dello ius in rem [il diritto è mio, non la cosa]. E ciò vuol dire che il diritto sulla cosa funziona solo se siamo partecipi del suo stesso funzionamento. E cioè, se gli archivi, i musei, le raccolte librarie esistono solo in se stessi e non sono usati, ciò vuol dire che non sono intesi comebeni comunicati; in altre parole, beni della comunità. Nei fatti, si presentano come banali depositi di cose. Il che vuole dire – tanto per fare un esempio desunto da Facebook – «sei di Vasto se …» solo se qualche volta ti rivolgi a questi luoghi, li utilizzi, per trovare qualche risposta alle ragioni storiche della tua identità antropologica di «vastese». Come facciamo a parlare di centro storico o di centro antico se non sappiamo che cosa sono o in qual modo devono (o dovrebbero) essere definiti? Come facciamo a salvaguardare i «suoni» storici del dialetto se non ne conosciamo la classificazione e non sappiamo che suono assume la <a> tonica in sillaba chiusa? E come facciamo a conoscere i fines del municipiumhistoniensium se l’epigrafe che li attesta non è esposta nel museo (incredibile dictu!) ma conservata solo nei depositi? E se non frequentiamo tali istituzioni come facciamo a sapere che, malgrado i restauri eseguiti presso l’ala nord di Palazzo d’Avalos, le sale sono ancora vuote in attesa di ricevere opere d’arte che gridano a tutti i cittadini per essere esposte? E poi, senza comunicazione, come facciamo a essere informati che l’Archivio della Curia di Vasto (sede contitolare con Chieti dell’omonimo Arcivescovado), dopo la classificazione eseguita dalla Sovrintendenza archivistica per l’Abruzzo e il restauro del palazzo vescovile, è stato trasferito in silenzio a Chieti? Per quale motivo? Non esistono giustificazioni. Per sede c’è un intero palazzo rimesso a nuovo del tutto inoccupato. E nemmeno si può parlare di assenza di personale della curia. Per quale motivo? Sarebbe bastato un semplice accordo tra Sovrintendenza, Comune e Curia per trovare una ragionevole soluzione. Mi chiedo: sono stati compiuti passi in tal senso? Si potrebbero avere risposte? Perché la città è stata depauperata di un pezzo della sua storia senza che nessuno abbia levato la voce? Quali sono state le ragioni che hanno indotto l’Arcivescovo a decretare il trasferimento degli atti vastesi?
Un’osservazione
non guasta. Il vecchio collegio dei
clerici regolari – l’attuale chiesa del Carmine – era stato concesso per
l’istituzione (in amministrazione perpetua) della diocesi di Vasto nel 1853.
Istituzione tra l’altro duramente contestata dalla curia teatina e attuata solo
quattro anni più tardi (mi riprometto di tornare sul tema in un prossimo
intervento). Con decreto cardinalizio del 24 agosto 1982 la diocesi di Vasto
veniva resa aequeprincipaliter con
quella di Chieti. In questo caso, con l’istituzione della Arcidiocesi
Chieti-Vasto, quella di Chieti rimaneva concessionaria della sede di Vastocon
un effetto immediato: che, graziealla denominazione Vasto, la chiesa potevacontinuare
a essere proprietaria del palazzo, evitando che lo stesso potesse ritornare
nelle disponibilità del Comune. Che bella, questa storia! Tutta da scrivere.
Già, scriverla! Ma come si fa se l’archivio diocesano di Vasto è stato
trasferito in quel di Chieti? Ma andiamo avanti. Non conosco le ragioni che
abbiano indotto nel 2006 l’allora sindaco pro-tempore di Vasto – Filippo Pietrocola – a procedere allo
scambio a dir poco improvvido tra comune e diocesi: il primo cedeva alla
seconda il Palazzo del Carmine (oggi restaurato) ottenendo per sessant’anni la
proprietà del Palazzo Genova Rulli in via Anelli con la seguente clausola:
«passati 15 anni, qualora il comodatario non avesse dato corso ad alcun tipo di
azione finalizzata al recupero, il Comodante può recedere dal contratto». Che
cosa significa tutto questo? Molto semplice. Che se tra quattro anni il Comune
non inizierà il lavori di restauro, il palazzo ritornerà alla Curia. Già! Ma dove dovrebbe trovare il comune i fondi
necessari per tale impresa? Da quale misterioso pozzo dovrebbero uscire? Hanno
riflettuto gli attuali amministratori su questa incombente “minaccia”? Che cosa
ne pensano i cittadini? Saranno loro a trarne le debite conclusioni.
Di là da tali incomprensibili decisioni stabilite top down (oh perbacco!E’ bello poter usare l’inglese al posto di “dall’alto verso il basso”), va sottolineato che in città esistono comunquedei beni culturali comunicati (o il che è lo stesso, partecipati). Da un lato, la cappella di Madonna del Soccorso. Che nei fatti vuol dire: una piccola comunità organizzata intorno a una famiglia per la gestione fino a oggi di questo antico manufatto (e sessant’anni non sono pochi!). E quanti lo sanno? Dall’altro, l’ottimo lavoro di benemerite associazioni di volontariato che hanno saputo restituire all’uso pubblico antichi manufatti prima inaccessibili (Torre Diomede del Moro, Cappella di S. Teodoro, Chiesa di S. Filomena). Mi chiedo: si può dire lo stesso per le Terme di Histonium, che non sono gestite dal Comune, ma da un’associazione?
Di là da tali incomprensibili decisioni stabilite top down (oh perbacco!E’ bello poter usare l’inglese al posto di “dall’alto verso il basso”), va sottolineato che in città esistono comunquedei beni culturali comunicati (o il che è lo stesso, partecipati). Da un lato, la cappella di Madonna del Soccorso. Che nei fatti vuol dire: una piccola comunità organizzata intorno a una famiglia per la gestione fino a oggi di questo antico manufatto (e sessant’anni non sono pochi!). E quanti lo sanno? Dall’altro, l’ottimo lavoro di benemerite associazioni di volontariato che hanno saputo restituire all’uso pubblico antichi manufatti prima inaccessibili (Torre Diomede del Moro, Cappella di S. Teodoro, Chiesa di S. Filomena). Mi chiedo: si può dire lo stesso per le Terme di Histonium, che non sono gestite dal Comune, ma da un’associazione?
Guardare a
questo esempio con gli occhi della communitas significa davvero capire
che cosa significa «aver cura» e «responsabilità» nei confronti della «cosa»,
che non è oggetto ma relazione.
E qui concludo il mio intervento. Limitato, è vero. Ma con qualche spunto di discussione, spero. Per quanto mi riguarda, ho l’impressione che gli esempi appena citati possano essere assunto come paradigma di un diverso modo di affrontare il bene culturale. Che non è solo ius, ma vita dello stesso. Che, al di fuori di questo orizzonte di senso, il bene diventa strumento per qualcos’altro.
E la politica civica dei beni culturali? Comincia sempre dopo. Come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
E qui concludo il mio intervento. Limitato, è vero. Ma con qualche spunto di discussione, spero. Per quanto mi riguarda, ho l’impressione che gli esempi appena citati possano essere assunto come paradigma di un diverso modo di affrontare il bene culturale. Che non è solo ius, ma vita dello stesso. Che, al di fuori di questo orizzonte di senso, il bene diventa strumento per qualcos’altro.
E la politica civica dei beni culturali? Comincia sempre dopo. Come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
Appendice
RESTI E
STRUTTURE: UN ELENCO PROVVISORIO a c. di Luigi Murolo
Per gli iscritti di “Italia Nostra” procedo a una veloce ricognizione – nient’altro che un elenco – sul patrimonio storico esistenti nel territorio comunale. Resti antichi, resti altomedievali e XVI secolo sono indicati per tutta la superficie comunale. Gli altri solo per quelli esterni al centro antico (Su questi argomenti cfr. il mio intervento Confini e centro antico di Vastoinluigimurolovasto.com).
Per gli iscritti di “Italia Nostra” procedo a una veloce ricognizione – nient’altro che un elenco – sul patrimonio storico esistenti nel territorio comunale. Resti antichi, resti altomedievali e XVI secolo sono indicati per tutta la superficie comunale. Gli altri solo per quelli esterni al centro antico (Su questi argomenti cfr. il mio intervento Confini e centro antico di Vastoinluigimurolovasto.com).
A.RESTI
ANTICHI
1. Fonte
Fico
2. Luci
3. Madonna del Soccorso
4. Via del Cimitero
5. Torricella
6. Via Ospedale vecchio
7. Vico Tagliamento
8. Cisterne Maggiori
9. Cisterne Minori
10. Via S. Pietro
11. Via Laccetti
12. Piazza Rossetti
13. Terme
14. Via Sportello
15. Palazzo Palmieri
16. Chiesa della Trinità
17. Palazzo Pietrocola
18. Via Aimone
2. Luci
3. Madonna del Soccorso
4. Via del Cimitero
5. Torricella
6. Via Ospedale vecchio
7. Vico Tagliamento
8. Cisterne Maggiori
9. Cisterne Minori
10. Via S. Pietro
11. Via Laccetti
12. Piazza Rossetti
13. Terme
14. Via Sportello
15. Palazzo Palmieri
16. Chiesa della Trinità
17. Palazzo Pietrocola
18. Via Aimone
B. RESTI
PALEOCRISTIANI
1. Via Roma
2. Piazza Rossetti
2. Piazza Rossetti
C. RESTI ALTOMEDIEVALI
1.S. Maria
in Valle
D. RESTI
MEDIEVALI
1. Bastione S. Antonio
2. Cona di Mare (?)
3. S. Leonardo alle Procine
4. Torre Bacchetta
5. Torricella
6. Pennaluce
7. Annunziata di Pennaluce
8. Colle Martino
9. S. Giovanni
10. S. Onofrio
11.Via Donizetti
1. Bastione S. Antonio
2. Cona di Mare (?)
3. S. Leonardo alle Procine
4. Torre Bacchetta
5. Torricella
6. Pennaluce
7. Annunziata di Pennaluce
8. Colle Martino
9. S. Giovanni
10. S. Onofrio
11.Via Donizetti
E.STRUTTURE XVI secolo
1. Palazzo Aragona
2. Palazzo Bassano
3. Palazzo De Benedictis
4. Palazzo La Palombara
5. Torre Cavallara
6. Madonna delle Grazie
F. RESTI
XVII secolo
1. Barco la
Canale
2. Cona di Fuori
3. Madonna della Neve
4. Palazzo della Penna
5. S. Lucia
6. S. Michele
7. S. Antonio Abate
8. S. Nicola
9. Chiesa Maddalena
10. Villa Cipressi
11. Villa de Rubeis
12. Villa Spataro
13. Villa S. Lorenzo (Avalos)
14. Casino Ponza
2. Cona di Fuori
3. Madonna della Neve
4. Palazzo della Penna
5. S. Lucia
6. S. Michele
7. S. Antonio Abate
8. S. Nicola
9. Chiesa Maddalena
10. Villa Cipressi
11. Villa de Rubeis
12. Villa Spataro
13. Villa S. Lorenzo (Avalos)
14. Casino Ponza
G. RESTI
XVIII secolo
1. Borgo San
Lorenzo
2. Chiesa S. Lorenzo
3. Resto muro di cinta Villa Genova
4. Villa Maddalena
5. Villa Tambelli (ristrutturata)
2. Chiesa S. Lorenzo
3. Resto muro di cinta Villa Genova
4. Villa Maddalena
5. Villa Tambelli (ristrutturata)
H. RESTI XIX
secolo
1. Villa
barone Cardone
2. Villa Frutteto
3. Villa Nasci
4. Villa Genova (S.Anna)
5. Palazzo della Penna
6. Borgo Madonna delle Grazie
7. Borgo S. Lucia
8. Borgo S. Michele
9. Case Carfagna (Càsәranùvә)
10. Cimitero
11. Fonte Nuova
12. Case di Fórә la pórtә
13. Ginese
14. Stazione Ferroviaria
15. Li Filanżìrә
16. Cappella dell’Addolorata
2. Villa Frutteto
3. Villa Nasci
4. Villa Genova (S.Anna)
5. Palazzo della Penna
6. Borgo Madonna delle Grazie
7. Borgo S. Lucia
8. Borgo S. Michele
9. Case Carfagna (Càsәranùvә)
10. Cimitero
11. Fonte Nuova
12. Case di Fórә la pórtә
13. Ginese
14. Stazione Ferroviaria
15. Li Filanżìrә
16. Cappella dell’Addolorata
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