martedì 11 maggio 2021

70 ANNI FA LO SCHIANTO DI UN AEREO SULLE CASE DI SAN MICHELE: SETTE VITTIME E PARECCHI FERITI


di Lino Spadaccini

11 maggio 1951: un caccia militare Lightning P-38 pilotato dal vastese Francesco della Guardia si  schianta su alcune case del quartiere San Michele, provocando la morte del pilota e di altre sei persone.

Non è facile parlare di questo episodio che ha distrutto famiglie ed ha segnato psicologicamente e, in alcuni casi, fisicamente, le persone scampate per miracolo alla morte. Sono passati esattamente settant’anni da quel triste giorno, ma ancora tanti sono i rancori che accompagnano questa vicenda, forse per le cause dell’incidente mai del tutto chiarite, ed anche perché la stessa commissione tecnica, nominata per l’occasione, ammise il possibile errore del pilota, ma non escluse possibili guasti tecnici.


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Molte testimonianze parlano di acrobazie effettuate dal pilota prima dello schianto. Tesi questa sottolineata anche da alcune testate giornalistiche nazionali, che l’indomani della sciagura titolarono «Un aereo precipita a Vasto durante un’ardita evoluzione», e che senza mezzi termini affermarono che «…il pilota era un giovane vastese che evidentemente intendeva salutare i suoi familiari e vedere dall’alto i luoghi che gli ricordavano la sua adolescenza». Queste tesi non trovarono d’accordo il periodico locale Histonium, che scrisse: «Si è parlato purtroppo con leggerezza di apparenti evoluzioni su qualche giornale. No, non era un carosello di baldanza, ma una tremenda giostra con la morte. La gioia e la sventura si son date un unico convegno. La macchina e l’uomo si sono assaltati in un duello terribile. Ogni aviatore si porta il segreto della fine ed ha questo vantaggio sui pigmei della terra, che si appagano d’una diagnosi. Era buono, calmo, prudente, riservato… non poteva buttare il nome, l’onore, il valore in pasto alla esecrazione, non poteva. Invano cercheremo il segreto della morte con una artificiosa costruzione di ipotesi tecniche. Povero figlio, poveri innocenti…».

Errore umano o avaria tecnica? Mai nessuno saprà dare una risposta certa a questa domanda. Sicuramente se il pilota vastese non si fosse staccato dal suo compagno di volo, per compiere alcuni giri sopra Vasto, la sciagura si sarebbe potuta evitare. Dalla relazione dell’ufficiale tecnico, compilato in data 16 maggio 1951, il commento fu eloquente: «si escludono le cause tecniche». Anche se bisogna precisare che la valutazione venne fatta soprattutto sulla base delle testimonianze delle persone e sulla verifica dei motori «che non sono sbiellati e che sicuramente erano funzionanti all’atto dell’incidente». Tutto il resto del materiale «per esigenze di Polizia e di soccorso»venne immediatamente rimosso dopo l’incidente da parte dei Carabinieri e dei Vigili del Fuoco.

In mancanza di prove certe, venne chiesta l’archiviazione, anche se gli indizi lasciarono «dubitare della prudenza, perizia e disciplina del pilota».

Il Sottotenente Della Guardia aveva al suo attivo 266 ore complessive di volo, di cui 30 ore e 25 minuti con il tipo di veicolo incidentato, l’ultimo dei quali fatto 9 giorni prima: sicuramente troppe poche ore di volo su di un aereo pieno d’insidie e difficile da gestire. Dal rapporto dell’inchiesta tecnico-disciplinare del 20 agosto 1951, si legge: «…è da escludersi a priori una sua adeguata conoscenza sulle complesse installazioni dell’F.38, installazioni che richiedono attenzione continua e riflessi immediati per quanto concerne condotta e guida del velivolo».

Dalla loro comparsa in Italia, molti furono gli incidenti gravi dovuti soprattutto a guasti al motore o scoppi di pneumatici, che provocarono vittime fra i piloti ed in alcuni casi anche fra i civili. In mancanza di motori nuovi e parti di ricambio, spesso gli aerei vennero arrangiati alla meglio, e ciò bastò a fargli guadagnare la fama di “aereo pericoloso”, oppure di “trappola”.

Basti pensare che solo nel 1951 furono nove gli incidenti in cui rimasero coinvolti i Lightning P38, tutti in forze al 3° Stormo. Se poi ci soffermiamo sulle cause c’è da rimanere davvero perplessi: «precipitato per avaria motori e incendiato», «atterraggio di fortuna per arresto motore», «danneggiato a seguito atterraggio pesante», «danneggiato in atterraggio a seguito retrazione carrello»,«perduto per piantata motori». Troppi gli incidenti concentrati in pochi mesi, purtroppo anche mortali, come quello di Vasto, che provocò l’inevitabile decisione di sospendere il montaggio delle rimanenti cellule e di completare solo i biposto ordinati. Nell’ottobre del 1955, dopo l’ennesimo incidente mortale, venne sospesa ogni attività di volo e avviata la radiazione e la demolizione, completata nel 1956.

Nato da Nicolino e Anna Ruzzi il 18 gennaio 1926, Francesco Della Guardia era il settimo di undici figli, anche se quattro morirono in tenera età, e lo stesso padre venne a mancare quando lui aveva soli dodici anni, lasciando tutte le fatiche di portare avanti la famiglia sulle spalle della moglie.

Appassionato di volo, il giovane Francesco Della Guardia sin da giovanelasciò la sua città natale per seguire il suo sogno, quello di volare. Persona rispettosa e disciplinata, proseguì gli studi presso l’Accademia Aeronautica di Nisida, dove ottenne la promozione a sottotenente con ottimi voti. Il coraggio non gli mancava di certo, ma sapeva anche che il suo primo fondamento, alla quale non poteva transigere, era la prudenza e la disciplina di volo. Ma in quella sciagurata mattina soleggiata dell’11 maggio 1951, qualcosa non funzionò nel verso giusto.

Cerchiamo di ricostruire come si sono svolti i fatti attraverso l’articolo apparso sul giornale Histonium: «Verso le nove due caccia militari, partiti dal campo di Palese (Bari) in normale volo d’allenamento, sorvolavano la nostra città con provenienza dal mare, allorché l’apparecchio pilotato dal concittadino tenente Francesco Paolo Della Guardia lanciava un'alta fiammata e sprofondava a picco nel popoloso rione S. Michele, abbattendo due case, che delimitavano Vico del Giglio. Cittadini del rione Croci e di Vasto Marina hanno confermato l’incendio prima della caduta dell’aereo».

Questo, invece, è quello che si desume dalle testimonianze delle persone, che vissero quei tragici momenti. Emilia Celenza, che nella sciagura perse la sorella ed il padre, verso le nove del mattino,vide l’aereo fare alcuni giri intorno alla città equalche acrobazia.Lo seguì con gli occhi fino a quando scomparve tra le case, seguito da un boato e da molto fumo nero. Capì subito che l’aereo si era schiantato vicino casa e, temendo per la sua famiglia, cominciò a correre verso il Rione San Michele, ma non la fecero passare.

«L’ultimo giro – si legge ancora nella ricostruzione fatta dal giornale Histoniumvilissima crudeltà della sorte, lo proietta davanti alle case… al balcone la mamma plorante, la vecchia mamma… povera mamma, che ha intuito come tanti, il dramma della carlinga pur ignorando lo spaventoso epilogo e non può udire l’estremo grido del figlio tra gli artigli feroci della morte… e sfiora il tetto della sua casa, scorre ancora verso il campo Boario come inseguito, braccato, ma vi sono i bimbi sul prato… c’è chi vede sporgersi un braccio atteggiato al gesto disperato di chi implora di sgombrare… inutilmente… punta alla parte opposta verso S. Antonio Abate col fiataccio freddo della morte alle spalle, vira ancora nel tentativo supremo di buttarsi col fatale carico verso il mare… uno scoppio, alta la fiamma, s’innabissa in un rogo spaventoso abbattendo, schiantando… Vico del Giglio s’imporpora di bagliori e di sangue…».

L’aereo fece alcuni giri intorno a Vasto ed anche alcune acrobazie, ma c’era qualcosa che non andava per il verso giusto: il pilota cominciò a volare a quota bassa e sembrava che volesse atterrare sul campo sportivo. Giovanni Di Rosso, improvvisamente scomparso pochi giorni fa, all’epoca aveva dieci anni e, insieme ad una decina di ragazzi, stava giocando proprio nel campo sportivo; vedendo l’aereo in difficoltà, si portarono su un lato e fecero segno al pilota di atterrare (prima di questa testimonianza diretta, avevo sempre sentito raccontare dalla gente che il pilota volendo atterrare sul campo sportivo, fece segno ai ragazzi che giocavano di andarsene, ma loro, incoscienti, pensando di essere stati salutati dal pilota, contraccambiarono il saluto rimanendo a giocare).

Un’altra preziosa testimonianza è quella di Angelo Del Lupo, che poco prima dell’incidente stava giocando sul terrazzo di casa in prossimità del campo sportivo: «Avevo cinque anni e stavo giocando sulla terrazza quando udii il rombo dei motori e vidi apparire l’aereo che sorvolava via Tobruk, inclinato in virata verso il campo sportivo. L’aereo era a non più di 20 metri di distanza da me e potei osservare distintamente il pilota nella carlinga. Nell’incoscienza legata all’età ebbi tempo per un moto di delusione derivante dal fatto che mi aspettavo di vedere un pilota con cuffia di pelle ed occhialoni così come nei film postbellici in cui i piloti da caccia americani abbattevano i cattivi “musi gialli”. E invece il pilota indossava un semplice berretto da ufficiale, con una cuffia molto voluminosa per le comunicazioni radio. L’aereo si allineò perfettamente al lato lungo del campo sportivo e vi passò ad una quota di 2-3 metri, come se effettivamente volesse compiere un impossibile atterraggio. Alcuni giocatori della Pro Vasto che stavano allenandosi si gettarono a terra ma l’aereo non toccò mai il campo. Quando mi aspettavo ormai lo schianto sulla curva alta del velodromo in terra battuta, l’aereo riprese quota e ciò mi diede una sensazione di sollievo. In effetti l’aereo dopo essere salito di venti metri, a causa della bassa velocità, andò in stallo e precipitò come un sasso; ricordo benissimo la vampata, il boato ed un’ala che intatta fu proiettata in alto».

Osvaldo Santoro, appassionato di aerei, si trovava quel giorno nell’officina del padre in via S. Michele. Egli afferma che l’aereo non avrebbe mai potuto atterrare allo stadio perché, pur andando ad una velocità non eccessivamente sostenuta, aveva comunque bisogno di molto più spazio che i centoventi metri che aveva a disposizione.

Il padre di Osvaldo Santoro, “Mastro Peppino”, possedeva un’officina meccanica, dove ancora oggi si trova, e costruiva bruciatori per la nafta, inoltre si dilettava nelle invenzioni e, proprio quellamattina, insieme a Zì Paolo, padre di Lello Petroro, era andato a Vasto Marina per provare la “cioccolara”, una piccola barchetta per prendere le vongole. Come aiutante si erano portati il giovane Michele Celenza, marito di Maria Baiocco, deceduta nell’incidente. Osvaldo aveva 21 anni e si trovava dentro la bottega insieme ad un amico, Tonino. Sentendo arrivare l’aereo, uscì fuori, dalla porta posta sul retro dell’officina, che ha la vista verso il mare. Il padre in quel periodo stava scavando dietro la bottega per allargare il locale e tutta la terra ammucchiata formava una piccola collinetta su cui Osvaldo Santoro salì per osservare meglio. L’aereo come rotazione andava piano ed emetteva un sibilo, perché si sentiva il vortice delle eliche piuttosto che il rumore dei motori. Secondo Santoro, il pilota doveva fare la virata con cabrata, ma non vi riuscì essendo troppo basso e con poca forza. Capì subito che non poteva riprendersi. All’ultimo momento lo vide girare verso il mare e si buttò a terra per paura che gli venisse addosso. Mentre fissava l’aereo ripeteva: «Mo cade, mo cade!».Tonino non credeva ai presagi di Osvaldo e rimase impalato in piedi, ma lui, prontamente, lo spinse buttandolo a terra.Egli stesso si buttò all’interno delle fondamenta.

In pochi attimi, saranno passati davanti agli occhi del pilota le fredde immagini fisse della sua breve vita. La rupe, che forse poteva rappresentare la salvezza, era a poche decine di metri, ma a Della Guardia sembravano chilometri, interminabili chilometri da percorrere. Fu inevitabile, incontrollabile, il precipitare a picco verso le case che delimitavano vico Del Giglio.

La sciagura.    Dietro la schiena Santoro sentì una forte sensazione di calore a causa dell’olio bollente che lo aveva sfiorato e si sentì toccare da qualcosa, forse un pezzo dell’aereo. Il tetto dell’officina era sfondato, dentro c’era fuoco dappertutto ma, essendoci solo ferraglie, capì che non poteva bruciare nulla. Passando sul lato esterno dell’officina, vide l’amico appoggiato su una trave, immobile: aveva le orbite degli occhi verdi e la faccia gialla. Vicino a lui, dal tetto, colava alluminio fuso causato da un pezzo di fusoliera, che era rimasto incastrato penzoloni sul tetto.

Sul luogo del disastro intervennero subito le forze dell’ordine, i pompieri e tante persone che richiamate dall’enorme boato e dalla coltre di fumo nero, che si era alzata verso il cielo, si erano riversate su via San Michele per soccorrere le vittime e scavare tra le macerie nella speranza di trovare qualche persona ancora in vita.

I primi a soccorrere furono i generosi volontari che abitavano in zona, tra questi, Silvio Petroro, che al momento del disastro si trovava nella piana dell’Aragona, nelle vicinanze della sua abitazione a Palazzo Mariani. Il ricordo di quei tragici momenti è rimasto indelebile nella sua memoria come in una limpida fotografia. Quando l’ho incontrato per sentire la testimonianza di chi ha vissuto in prima persona quei momenti drammatici, sono rimasto impietrito mentre lo sentivo rivivere le scene strazianti di dolore delle vittime.

Ecco come si presentava la scena del disastro secondo il racconto di Silvio Petroro: «…guardavo il campo sportivo quando il rombo di un aereo che solcava il cielo attirò la mia attenzione: arrivava dal mare ed il mio sguardo lo seguì e lo vide fare un giro per Vasto, poi rispuntò verso Sant’Onofrio per prendere la direzione del mare.

Sentii all’improvviso un gran boato ed il mio pensiero andò subito alla grande disgrazia: mi trovavo a soli trecento metri dal luogo dove era caduto l’aereo, avevo vent’anni, ed arrivare sul posto si è trattato di frazioni di secondo.

Uno scenario terrificante apparse ai miei occhi: la strada era cosparsa di detriti, mattoni, pezzi di aereo, case demolite, un gran fumo che s’innalzava nel cielo, l’aria irrespirabile per la puzza della carne umana e di pecora che bruciavano e la grande paura che la pompa di benzina dell’Agip, posta sulla strada a pochi metri dalla caduta dell’aereo, potesse andare a fuoco».

La signora Sputore Incoronata era vicino alla porta di casa e stava per entrare, l’aereo cadde proprio sulla sua abitazione, che crollò mestamente nell’urto, era rimasto solo un quadretto di Sant’Antonio appeso ad una parete. Probabilmente una borsa che si mise in testa le salvò la vita.

Nicola Celenza, 59 anni, lavorava come usciere al tribunale di Vasto ed era ricordato da tutti come un vero gentiluomo. Quella mattina, come suo solito, si recò, a piedi, al convento dell’Incoronata per ascoltare la Santa Messa e prendere la comunione. Così fece anche quella mattina e, al ritorno, si fermò a comprare la verdura da cucinare per il pranzo. Nicola portava il lutto per la morte della moglie avvenuta quaranta giorni prima.

Tornato a casa, comandò la figlia Emilia di andare dalla sorella Natuccia (Liberata), perché Olimpia, sua figlia, era a letto con la febbre. Emilia obiettò dicendo che non poteva andare perché doveva lavare i panni; l’altra sorella, Anna, scherzando le disse: «Se mi dai mille lire, te li lavo io i panni!». Michele, l’altro figlio di Nicola, si trovava ad Ancona come Brigadiere di Finanza.

Al momento del disastro, Anna era affacciata alla finestra intenta a stendere i panni e venne investita dal serbatoio della benzina. Il padre, che si trovava in una stanza sotto casa, sentendo gridare la figlia, uscì fuori e anche lui venne investito dalle terribili fiamme. Osvaldo Santoro ricorda che Nicola aveva la testa che sembrava uno “scafandro”. Era tutto pelato e grigio, gli si toglieva la pelle dal corpo e ripeteva in modo gutturale: «Aiutatemi, aiutatemi!». Era tutto bruciato e Maria Cristina Bile, figlia del primario dell’Ospedale Civile di Vasto, tra le protagoniste dei soccorsi, prese delle coperte per avvolgerlo.

Il ricordo di Silvio Petroro: «Da quelle rovine vidi uscire la figura di una persona che porterò nella mia memoria per tutta la vita: l’aspetto irriconoscibile, senza più vestiti, completamente nudo, privato degli occhi, si incamminò per la strada senza emettere grida ma solo sommessi lamenti per l’intensità dei dolori.

Gli stavo accanto e non sapevo cosa fare: dopo una ventina di passi quella figura stava per crollare e la presi tra le mie braccia per adagiarla sul terreno avvertendo le dita delle mie mani conficcarsi dentro la sua stessa carne.

Sono passati gli anni ma il ricordo di quelle dita immerse nel corpo bruciato, come fosse burro, non mi ha ancora abbandonato: era il corpo di Nicola Celenza che, caricato sull’autoambulanza, scortai, seduto a fianco del lettino, nella corsa sino all’ospedale. Mi trovai così, chiuso, solo con quest’uomo che gridava, gesticolava con le mani, privo degli occhi a seguito dello scoppio della miscela del serbatoio dell’aereo. Ebbi tanta paura perché gridava e con le mani cercava di aggrapparsi come per prendere qualcosa che non trovava; i suoi lamenti erano strazianti e, chiuso nell’autoambulanza, cercavo di non farmi toccare, volevo uscire, volevo fuggire perché, da vicino e rinchiuso nell’abitacolo del furgone, la figura di quella degnissima persona che conoscevo per la sua bontà e signorilità frequentando da bambino la sua casa, mi incuteva spavento». Nicola Celenza morì alle ore 23 dello stesso giorno in un letto dell’ospedale.

Anche la figlia, Anna, venne presto trasportata in ospedale. Prese la comunione e prima di spirare disse alla sorella Emilia: «Ringrazia la Madonna che non ti sei trovata in questo inferno!». Anche il cane di famiglia, Alì, venne investito dalla benzina e, reso cieco e sofferente dal carburante, venne soppresso. Poco dopo l’incidente, Peppino Cianci (lu Langianese), che affittava le macchine a piazza Rossetti, consegnò ad Emilia il portafoglio, che gli aveva consegnato il padrepoco prima di morire.

Maria Baiocco aveva 21 anni. A 18 anni sposò Michele Celenza. Dalla loro unione nacque prima una figlia, che morì, e poi Giuseppe, che all’epoca del disastro aveva 7 mesi. Il marito, come già accennato in precedenza, si trovava a Vasto Marina con Mastro Peppino Santoro. Maria era davanti casa e vicino a lei,adagiato sopra il seggiolone,c’era suo figlio. Le fiamme avvolsero i corpi dei due sventurati. Maria in preda alla disperazione scappò subito verso la casa di Elena, un’infermiera che abitava lì vicino, la quale la fece sdraiare a terra avvolgendola con delle coperte; ricordandosi del figlio Giuseppe, tornò indietro, in mezzo alle fiamme, cadde a terra e non si rialzò più. Era completamente nuda. Raccolta, venne coperta al meglio e trasportata in ospedale in moto. Peppino Baiocco, fratello di Maria, apprezzato falegname della nostra città, aveva 17 anni e ricorda che Don Nicola Di Clemente, la sera della sciagura andò in ospedale a trovare le vittime della sciagura, ma non volle confessare Maria perché vide che il suo volto era completamente intatto e non gli sembrò in pericolo di vita. In realtà, tutto il resto del corpo era bruciato. Quella stessa notte cominciò a delirare e si mise anche a cantare Faccetta nera. Morì dopo tre giorni di agonia il 14 maggio alle ore 23.

Ma torniamo sul luogo del disastro con il racconto di Silvio Petroro: «Dopo il ricovero in ospedale tornai con lo stesso mezzo del pronto soccorso sul luogo del disastro per ricominciare l’opera di soccorso: in mezzo a tante macerie sentii un lamento ed entrato in una casa distrutta cercai di trovare uno spiraglio, ma non potevo andare avanti per il fumo e l’odore nauseante di carne bruciata; fui così costretto a ritirarmi, ma il pensiero di quel lamento di bimbo mi spinse ad arrampicarmi sul muro che era rimasto della casa per poter vedere meglio. In quello stesso momento si alzò un grido dalla folla per preavvertirmi che il muro sul quale mi trovavo stava crollando e così con grande riflesso mi buttai giù prima di essere travolto: ma quel lamento di bimbo non mi permise di rinunziare al soccorso e, strappatomi la camicia davanti all’officina di Santoro, la immersi in un fusto con dentro dell’acqua nel tentativo di arrivare sino in fondo da dove si erano uditi i lamenti». Ma tutti gli sforzi risultarono vani poiché la respirazione non era sufficiente. Il corpo del piccolo Giuseppe Celenza, di appena sette mesi, fu estratto e portato via dai pompieri e da altri volontari.

La signora Ciarallo Anna aveva 45 anni e si trovava dentro casa intenta a lavare la biancheria. Il marito era fuori Vasto per lavoro. Maria, la figlia, era andata dalla sarta, mentre suo fratello, Vincenzo, lavorava di fronte casa presso la ditta Desiati. Quando cadde l’aereo, lo spostamento d’aria sbalzò la povera Anna fuori casa e venne travolta dalle macerie. Mattoni, calcinacci, mobili in frantumi e quant’altro si cercò di rimuovere celermente, ma quanto affiorò una ciocca di capelli si capì subito che non c’era più nulla da fare. Era la sig.ra Anna Ciarallo. «Mi guardavo intorno e mi vedevo sempre più solo, mancando ai più il coraggio di prendere un corpo straziato – ricordava ancora Silvio Petroro –assieme alla signora Maria Cristina Bile incitammo la gente affinché ci desse una mano. Il corpo straziato della poveretta si presentava alla nostra vista con il volto e la testa maciullati: lo spettacolo non era per tutti e la gente arretrava per non vedere; per tirarla fuori dovetti prenderla sotto le braccia e così la sua testa penzoloni e senza vita poggiava sulla mia guancia mentre lo sforzo per sollevarla era enorme a causa dei vestiti che opponevano resistenza sotto il groviglio dei detriti e mattoni».

La famiglia di Scipione Neri era originaria di Termoli e viveva in una delle due case sulle quali cadde l’aereo. La moglie di Scipione, Zi Spinucce (Zia Spina), era davanti casa a stendere i panni sulla corda. La figlia, Nicoletta, era sul seggiolone lì vicino. Quando cadde l’aereo la signora Spina venne investita dalle fiamme, riportando gravi ferite al volto che la segnarono per sempre. Capito la gravità dell’incidente, cercò di raggiungere la figlia, ma venne trattenuta dagli uomini che erano intervenuti: ormai per la piccina non c’era più nulla da fare. Il piccolo corpicino martoriato venne recuperato verso le ore 15 del pomeriggio.

Subito dopo il disastro, tutti i cittadini della zona si prodigarono nell’opera di soccorso. Tra di essi, oltre a quelli già citati, ricordiamo Mario Caldarelli, Espedito Sarodi, Alessandro Borrelli, Mimì Molino, Adelmo Cipollone, il personale della ditta Di Fonzo, il Consigliere di Corte d’Appello dr. Florio Longo, il pretore dr. Vittorio Liberati, e tanti altri. Tutti gli estintori furono portati sul posto e messi in funzione dai volenterosi cittadini, mentre accorreva la vicina motopompa in servizio sulla strada Vasto-Cupello. Dopo qualche ora arrivarono in rinforzo le squadre dei pompieri di Chieti, al comando del tenente Giuseppe Menci, e Termoli.

Dodici furono le persone coinvolte nell’incidente investite dall’urto dell’aereo e dalle alte fiammate provocate dalla benzina. Verso le tredici, dai rottami dell’aereo, fu estratto il corpo irriconoscibile del tenente Della Guardia. La sua figura era tutta un groviglio di carne e ferro, ma un lato del suo viso rimase completamente intatto.

La camera ardente venne allestita all’interno dell’Aula Magna dell’Istituto Tecnico Commerciale, concessa dal preside Nino Nanni. Sei bare, una accanto all’altra, circondate dai fiori e dall’affetto delle tante persone, che in rispettoso silenzio davano l’ultimo commosso saluto ai propri cari.«Impossibile descrivere le scene strazianti di dolore –racconta il cronista dell’Histoniumla città intera, che conosce lo sfortunato e valoroso pilota e le innocenti vittime del disastro, è costernata. Da tutte le parti in muto pellegrinaggio di dolore muovono i cittadini; le campane suonano mestamente; al caduto e alle vittime si apprestano solenni onoranze.

Nel pomeriggio sono giunte le autorità civili e militari, le quali si sono recate sul luogo del disastro, hanno fatto visita alle famiglie e alle vittime. Vasto si è abbrunata nei cuori; si stringe attorno al dolore delle case così duramente provate ed esprime tutta la sua solidarietà affettuosa in questa ora tristissima della vita cittadina».

La locale Camera del Lavoro, unitamente alle Sezioni comunista e socialista, provvide all’affissione di un manifesto di cordoglio, che qualche ora dopo, per ordine del prefetto, venne fatto sparire. Questo il testo del manifesto:

«Cittadini, la sciagura abbattutasi stamane sulla nostra città ci porta col pensiero a tutte le vittime provocate da ordigni bellici e ci fa manifestare più forte la nostra volontà di pace.

Esprimiamo tutta la nostra profonda solidarietà per le famiglie colpite ed inchiniamoci reverenti e commossi di fronte alle salme delle vittime.

Il popolo tutto sia presente alle onoranze funebri».

Tante le autorità civili e militari presenti: tra loro il Sen. Giuseppe Spataro, l’amministrazione comunale al completo, guidata dal sindaco Florindo Ritucci Chinni, gli ufficiali e sottufficiali del 3° Stormo, le scuole di volo di Brindisi e Lecce, quindi i famigliari delle vittime, le orfanelle e le suore, i confratelli della Congrega del SS. Sacramento, S. Spina e del Gonfalone, i frati del Collegio Serafico dell’Incoronata, il Concerto musicale dei Combattenti e dei Reduci, i picchetti armati dell’Aviazione, della Marina, dei Carabinieri e della Finanza.

Dall’istituto, una lunga processione sfilò a passo lento tra due ali immense di folla, fino alla chiesa di Santa Maria Maggiore. Attorno alla salma del ten. Della Guardia si notarono le spade dei giovani ufficiali, mentre le note gravi e dolorose della Banda Musicale dei Combattenti e Reduci, diffusero una pena struggente.Dalle finestre e dai balconi vennero lanciati fiori. Nella chiesa di S. Maria Maggiore, stracolma di gente, ai piedi del presbiterio giacevano allineate le bare: davanti quelle di Anna Ciarallo, Nicola Celenza e Anna Celenza, nella fila dietro, al centro, quella del pilota ed ai lati le piccole bare di Giuseppe Celenza e Nicoletta Neri. La messa funebre venne celebrata dal pastore diocesano, l’Arcivescovo Giambattista Bosio, davanti alle autorità militari, civili, ai parenti delle vittime e alla numerosa folla che si è stretta intorno ai suoi concittadini.Al termine della funzione la Schola Cantorum, diretta dal M° Antonio Zaccardi, eseguì il Libera me, Domine del Perosi. Al Cimitero rivolsero l’estremo saluto il Sindaco, l’Avv. Florindo Ritucci Chinni, e il Rag. Romeo Muzi, amico del pilota.

Incidente, fatalità o responsabilità del pilota, non tocca a noi giudicare: è successo, sicuramente si sarebbe potuto evitare, o forse, sarebbe potuto accadere con conseguenze meno drammatiche, ma le sette persone innocenti non potranno mai più tornare in vita e, come scrisse il generale Vittorio Giovine, in una lettera indirizzata al cugino Peppino Perrozzi, «io sento che di fronte alla morte uno spirito solo anima i nostri concittadini, un solo comune impulso, quello d’inginocchiarsi e pregare in silenzio».

 

Le vittime della sciagura decedute l’11 maggio:

 

Neri Nicoletta di Scipione e di Di Rosso Maria Spina

Nata a Termoli nel settembre del 1950

Età: 8 mesi

Ciarallo Anna fu Pasquale e di Marchesani Elisabetta

Nata a Vasto il 01/1/1906

Età: 45 anni

 Celenza Anna fu Nicola e di Di Cicco Maria

Nata a Vasto il 15/7/1922

Età: 28 anni

 Celenza Giuseppe di Michele e Baiocco Maria

Nato a Vasto il 01/10/1950

Età: 7 mesi

 Della Guardia Francesco Paolo fu Nicola e di Ruzzi Anna

Nato a Vasto il 18/1/1926

Età: 25 anni


Il giorno seguente, 12 maggio, si spense

Celenza Nicola fu Michele e di Caravaggio Liberata

Nato a Vasto il 15/12/1890

Età: 60 anni

 

Il 14 maggio alle ore 23, dopo due giorni di agonia spirò la giovane

Baiocco Maria di Sebastiano e di Pollutri Amina

Nata a Vasto il 30/8/1929

Età: 21 anni

 

Le altre persone coinvolte nella sciagura, ma scampate alla morte sono: Giannagostino Giulia di anni 22, Di Falco Luisa di anni 29, il figlio Angelo di 3 anni, Di Cicco Rosa di anni 49, Sputore Incoronata di anni 48, Di Rosso Maria Spina di anni 32.

 Quando ero bambino, ogni anno nella ricorrenza della commemorazione dei defunti, insieme a mia madre, facevo il giro del cimitero per portare i fiori e rivolgere una preghiera ai nostri cari. Nel “cimitero nuovo”, giunti presso la tomba di Francesco Della Guardia, mia madre mi raccontava di quella tragica giornata con l’aereo caduto a non più di cinquanta metri da casa nostra. Rimasi molto affascinato da quel racconto così triste e, ogni qualvolta tornavo al cimitero mi facevo accompagnare davanti alla tomba del pilota. Rileggevo con attenzione le parole scritte sulla lapide, soffermandomi sull’aereo in fiamme scolpito sul marmo, che tante volte avevo visto nei fumetti o nei film di guerra, e cercavo di immaginarmi la dinamica dell’incidente di quella triste sciagura.

Nell’aprile del 2013 ho pubblicato il volumetto “La morte che viene dal cielo”. Non dimenticherò mai il racconto dei familiari delle persone coinvolte e le lacrime di Emilia Celenza quando le ho consegnato il libro.

Ho sempre sperato nell’intitolazione di una via o di una piazza, o più semplicemente l’apposizione di una targa per ricordare le vittime. Ormai ho quasi perso ogni speranza.

Nel mio piccolo, fino a quando potrò, continuerò a ricordare e raccontare questa triste pagina di storia vastese.

 LINO SPADACCINI


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