di Lino Spadaccini
11 maggio 1951: un caccia militare Lightning P-38 pilotato dal vastese Francesco della Guardia si schianta su alcune case del quartiere San Michele, provocando la morte del pilota e di altre sei persone.
Non è facile parlare di questo episodio che ha
distrutto famiglie ed ha segnato psicologicamente e, in alcuni casi,
fisicamente, le persone scampate per miracolo alla morte. Sono passati esattamente
settant’anni da quel triste giorno, ma ancora tanti sono i rancori che accompagnano
questa vicenda, forse per le cause dell’incidente mai del tutto chiarite, ed
anche perché la stessa commissione tecnica, nominata per l’occasione, ammise il
possibile errore del pilota, ma non escluse possibili guasti tecnici.
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Molte testimonianze parlano di acrobazie effettuate
dal pilota prima dello schianto. Tesi questa sottolineata anche da alcune
testate giornalistiche nazionali, che l’indomani della sciagura titolarono «Un aereo precipita a Vasto durante un’ardita
evoluzione», e che senza mezzi termini affermarono che «…il pilota era un giovane vastese che
evidentemente intendeva salutare i suoi familiari e vedere dall’alto i luoghi
che gli ricordavano la sua adolescenza». Queste tesi non trovarono
d’accordo il periodico locale Histonium,
che scrisse: «Si è parlato purtroppo con
leggerezza di apparenti evoluzioni su qualche giornale. No, non era un
carosello di baldanza, ma una tremenda giostra con la morte. La gioia e la
sventura si son date un unico convegno. La macchina e l’uomo si sono assaltati
in un duello terribile. Ogni aviatore si porta il segreto della fine ed ha
questo vantaggio sui pigmei della terra, che si appagano d’una diagnosi. Era
buono, calmo, prudente, riservato… non poteva buttare il nome, l’onore, il
valore in pasto alla esecrazione, non poteva. Invano cercheremo il segreto
della morte con una artificiosa costruzione di ipotesi tecniche. Povero figlio,
poveri innocenti…».
Errore umano o avaria tecnica? Mai
nessuno saprà dare una risposta certa a questa domanda. Sicuramente se il
pilota vastese non si fosse staccato dal suo compagno di volo, per compiere
alcuni giri sopra Vasto, la sciagura si sarebbe potuta evitare. Dalla relazione
dell’ufficiale tecnico, compilato in data 16 maggio 1951, il commento fu
eloquente: «si escludono le cause tecniche».
Anche se bisogna precisare che la valutazione venne fatta soprattutto sulla
base delle testimonianze delle persone e sulla verifica dei motori «che non sono sbiellati e che sicuramente
erano funzionanti all’atto dell’incidente». Tutto il resto del materiale «per esigenze di Polizia e di soccorso»venne
immediatamente rimosso dopo l’incidente da parte dei Carabinieri e dei Vigili
del Fuoco.
In mancanza di prove certe, venne
chiesta l’archiviazione, anche se gli indizi lasciarono «dubitare della prudenza, perizia e disciplina del pilota».
Il Sottotenente Della Guardia aveva al
suo attivo 266 ore complessive di volo, di cui 30 ore e 25 minuti con il tipo
di veicolo incidentato, l’ultimo dei quali fatto 9 giorni prima: sicuramente
troppe poche ore di volo su di un aereo pieno d’insidie e difficile da gestire.
Dal rapporto dell’inchiesta tecnico-disciplinare del 20 agosto 1951, si legge: «…è da escludersi a priori una sua adeguata
conoscenza sulle complesse installazioni dell’F.38, installazioni che richiedono
attenzione continua e riflessi immediati per quanto concerne condotta e guida
del velivolo».
Dalla loro comparsa in Italia, molti
furono gli incidenti gravi dovuti soprattutto a guasti al motore o scoppi di
pneumatici, che provocarono vittime fra i piloti ed in alcuni casi anche fra i
civili. In mancanza di motori nuovi e parti di ricambio, spesso gli aerei
vennero arrangiati alla meglio, e ciò bastò a fargli guadagnare la fama di
“aereo pericoloso”, oppure di “trappola”.
Basti pensare
che solo nel 1951 furono nove gli incidenti in cui rimasero coinvolti i
Lightning P38, tutti in forze al 3° Stormo. Se poi ci soffermiamo sulle cause
c’è da rimanere davvero perplessi: «precipitato
per avaria motori e incendiato», «atterraggio
di fortuna per arresto motore», «danneggiato
a seguito atterraggio pesante», «danneggiato
in atterraggio a seguito retrazione carrello»,«perduto per piantata motori». Troppi gli incidenti concentrati in
pochi mesi, purtroppo anche mortali, come quello di Vasto, che provocò l’inevitabile
decisione di sospendere il montaggio delle rimanenti cellule e di completare
solo i biposto ordinati. Nell’ottobre del 1955, dopo l’ennesimo incidente
mortale, venne sospesa ogni attività di volo e avviata la radiazione e la
demolizione, completata nel 1956.
Nato da Nicolino
e Anna Ruzzi il 18 gennaio 1926, Francesco Della Guardia era il settimo di
undici figli, anche se quattro morirono in tenera età, e lo stesso padre venne
a mancare quando lui aveva soli dodici anni, lasciando tutte le fatiche di
portare avanti la famiglia sulle spalle della moglie.
Appassionato di
volo, il giovane Francesco Della Guardia sin da giovanelasciò la sua città natale
per seguire il suo sogno, quello di volare. Persona rispettosa e disciplinata, proseguì
gli studi presso l’Accademia Aeronautica di Nisida, dove ottenne la promozione
a sottotenente con ottimi voti. Il coraggio non gli mancava di certo, ma sapeva
anche che il suo primo fondamento, alla quale non poteva transigere, era la
prudenza e la disciplina di volo. Ma in quella sciagurata mattina soleggiata
dell’11 maggio 1951, qualcosa non funzionò nel verso giusto.
Cerchiamo di ricostruire come si sono svolti i fatti
attraverso l’articolo apparso sul giornale Histonium:
«Verso le nove due caccia militari,
partiti dal campo di Palese (Bari) in normale volo d’allenamento, sorvolavano
la nostra città con provenienza dal mare, allorché l’apparecchio pilotato dal
concittadino tenente Francesco Paolo Della Guardia lanciava un'alta fiammata e
sprofondava a picco nel popoloso rione S. Michele, abbattendo due case, che
delimitavano Vico del Giglio. Cittadini del rione Croci e di Vasto Marina hanno
confermato l’incendio prima della caduta dell’aereo».
Questo, invece, è quello che si desume dalle
testimonianze delle persone, che vissero quei tragici momenti. Emilia Celenza,
che nella sciagura perse la sorella ed il padre, verso le nove del mattino,vide
l’aereo fare alcuni giri intorno alla città equalche acrobazia.Lo seguì con gli
occhi fino a quando scomparve tra le case, seguito da un boato e da molto fumo
nero. Capì subito che l’aereo si era schiantato vicino casa e, temendo per la
sua famiglia, cominciò a correre verso il Rione San Michele, ma non la fecero
passare.
«L’ultimo giro
– si legge ancora nella ricostruzione fatta dal giornale Histonium – vilissima
crudeltà della sorte, lo proietta davanti alle case… al balcone la mamma
plorante, la vecchia mamma… povera mamma, che ha intuito come tanti, il dramma
della carlinga pur ignorando lo spaventoso epilogo e non può udire l’estremo
grido del figlio tra gli artigli feroci della morte… e sfiora il tetto della
sua casa, scorre ancora verso il campo Boario come inseguito, braccato, ma vi
sono i bimbi sul prato… c’è chi vede sporgersi un braccio atteggiato al gesto
disperato di chi implora di sgombrare… inutilmente… punta alla parte opposta
verso S. Antonio Abate col fiataccio freddo della morte alle spalle, vira
ancora nel tentativo supremo di buttarsi col fatale carico verso il mare… uno
scoppio, alta la fiamma, s’innabissa in un rogo spaventoso abbattendo,
schiantando… Vico del Giglio s’imporpora di bagliori e di sangue…».
L’aereo fece alcuni giri intorno a Vasto ed anche
alcune acrobazie, ma c’era qualcosa che non andava per il verso giusto: il
pilota cominciò a volare a quota bassa e sembrava che volesse atterrare sul
campo sportivo. Giovanni Di Rosso, improvvisamente scomparso pochi giorni fa, all’epoca
aveva dieci anni e, insieme ad una decina di ragazzi, stava giocando proprio
nel campo sportivo; vedendo l’aereo in difficoltà, si portarono su un lato e
fecero segno al pilota di atterrare (prima di questa testimonianza diretta,
avevo sempre sentito raccontare dalla gente che il pilota volendo atterrare sul
campo sportivo, fece segno ai ragazzi che giocavano di andarsene, ma loro,
incoscienti, pensando di essere stati salutati dal pilota, contraccambiarono il
saluto rimanendo a giocare).
Un’altra preziosa testimonianza è quella di Angelo Del
Lupo, che poco prima dell’incidente stava giocando sul terrazzo di casa in
prossimità del campo sportivo: «Avevo
cinque anni e stavo giocando sulla terrazza quando udii il rombo dei motori e
vidi apparire l’aereo che sorvolava via Tobruk, inclinato in virata verso il
campo sportivo. L’aereo era a non più di 20 metri di distanza da me e potei
osservare distintamente il pilota nella carlinga. Nell’incoscienza legata
all’età ebbi tempo per un moto di delusione derivante dal fatto che mi
aspettavo di vedere un pilota con cuffia di pelle ed occhialoni così come nei
film postbellici in cui i piloti da caccia americani abbattevano i cattivi
“musi gialli”. E invece il pilota indossava un semplice berretto da ufficiale,
con una cuffia molto voluminosa per le comunicazioni radio. L’aereo si allineò
perfettamente al lato lungo del campo sportivo e vi passò ad una quota di 2-3
metri, come se effettivamente volesse compiere un impossibile atterraggio.
Alcuni giocatori della Pro Vasto che stavano allenandosi si gettarono a terra
ma l’aereo non toccò mai il campo. Quando mi aspettavo ormai lo schianto sulla
curva alta del velodromo in terra battuta, l’aereo riprese quota e ciò mi diede
una sensazione di sollievo. In effetti l’aereo dopo essere salito di venti
metri, a causa della bassa velocità, andò in stallo e precipitò come un sasso;
ricordo benissimo la vampata, il boato ed un’ala che intatta fu proiettata in
alto».
Osvaldo Santoro, appassionato di aerei, si trovava quel
giorno nell’officina del padre in via S. Michele. Egli afferma che l’aereo non
avrebbe mai potuto atterrare allo stadio perché, pur andando ad una velocità
non eccessivamente sostenuta, aveva comunque bisogno di molto più spazio che i
centoventi metri che aveva a disposizione.
Il padre di Osvaldo Santoro, “Mastro Peppino”,
possedeva un’officina meccanica, dove ancora oggi si trova, e costruiva
bruciatori per la nafta, inoltre si dilettava nelle invenzioni e, proprio quellamattina,
insieme a Zì Paolo, padre di Lello Petroro, era andato a Vasto Marina per
provare la “cioccolara”, una piccola barchetta per prendere le vongole. Come
aiutante si erano portati il giovane Michele Celenza, marito di Maria Baiocco,
deceduta nell’incidente. Osvaldo aveva 21 anni e si trovava dentro la bottega
insieme ad un amico, Tonino. Sentendo arrivare l’aereo, uscì fuori, dalla porta
posta sul retro dell’officina, che ha la vista verso il mare. Il padre in quel
periodo stava scavando dietro la bottega per allargare il locale e tutta la
terra ammucchiata formava una piccola collinetta su cui Osvaldo Santoro salì per
osservare meglio. L’aereo come rotazione andava piano ed emetteva un sibilo,
perché si sentiva il vortice delle eliche piuttosto che il rumore dei motori.
Secondo Santoro, il pilota doveva fare la virata con cabrata, ma non vi riuscì
essendo troppo basso e con poca forza. Capì subito che non poteva riprendersi.
All’ultimo momento lo vide girare verso il mare e si buttò a terra per paura
che gli venisse addosso. Mentre fissava l’aereo ripeteva: «Mo cade, mo cade!».Tonino non credeva ai presagi di Osvaldo e
rimase impalato in piedi, ma lui, prontamente, lo spinse buttandolo a terra.Egli
stesso si buttò all’interno delle fondamenta.
In pochi attimi, saranno passati davanti agli occhi
del pilota le fredde immagini fisse della sua breve vita. La rupe, che forse
poteva rappresentare la salvezza, era a poche decine di metri, ma a Della Guardia
sembravano chilometri, interminabili chilometri da percorrere. Fu inevitabile,
incontrollabile, il precipitare a picco verso le case che delimitavano vico Del
Giglio.
La sciagura. Dietro la schiena Santoro sentì una forte
sensazione di calore a causa dell’olio bollente che lo aveva sfiorato e si
sentì toccare da qualcosa, forse un pezzo dell’aereo. Il tetto dell’officina
era sfondato, dentro c’era fuoco dappertutto ma, essendoci solo ferraglie, capì
che non poteva bruciare nulla. Passando sul lato esterno dell’officina, vide
l’amico appoggiato su una trave, immobile: aveva le orbite degli occhi verdi e
la faccia gialla. Vicino a lui, dal tetto, colava alluminio fuso causato da un
pezzo di fusoliera, che era rimasto incastrato penzoloni sul tetto.
Sul luogo del disastro intervennero subito le forze
dell’ordine, i pompieri e tante persone che richiamate dall’enorme boato e
dalla coltre di fumo nero, che si era alzata verso il cielo, si erano riversate
su via San Michele per soccorrere le vittime e scavare tra le macerie nella
speranza di trovare qualche persona ancora in vita.
I primi a soccorrere furono i generosi volontari che
abitavano in zona, tra questi, Silvio Petroro, che al momento del disastro si
trovava nella piana dell’Aragona, nelle vicinanze della sua abitazione a
Palazzo Mariani. Il ricordo di quei tragici momenti è rimasto indelebile nella
sua memoria come in una limpida fotografia. Quando l’ho incontrato per sentire
la testimonianza di chi ha vissuto in prima persona quei momenti drammatici,
sono rimasto impietrito mentre lo sentivo rivivere le scene strazianti di
dolore delle vittime.
Ecco come si presentava la scena del disastro secondo
il racconto di Silvio Petroro: «…guardavo
il campo sportivo quando il rombo di un aereo che solcava il cielo attirò la
mia attenzione: arrivava dal mare ed il mio sguardo lo seguì e lo vide fare un
giro per Vasto, poi rispuntò verso Sant’Onofrio per prendere la direzione del
mare.
Sentii
all’improvviso un gran boato ed il mio pensiero andò subito alla grande
disgrazia: mi trovavo a soli trecento metri dal luogo dove era caduto l’aereo,
avevo vent’anni, ed arrivare sul posto si è trattato di frazioni di secondo.
Uno scenario
terrificante apparse ai miei occhi: la strada era cosparsa di detriti, mattoni,
pezzi di aereo, case demolite, un gran fumo che s’innalzava nel cielo, l’aria
irrespirabile per la puzza della carne umana e di pecora che bruciavano e la
grande paura che la pompa di benzina dell’Agip, posta sulla strada a pochi
metri dalla caduta dell’aereo, potesse andare a fuoco».
La signora Sputore Incoronata era vicino alla porta di
casa e stava per entrare, l’aereo cadde proprio sulla sua abitazione, che
crollò mestamente nell’urto, era rimasto solo un quadretto di Sant’Antonio
appeso ad una parete. Probabilmente una borsa che si mise in testa le salvò la
vita.
Nicola Celenza, 59 anni, lavorava come usciere al
tribunale di Vasto ed era ricordato da tutti come un vero gentiluomo. Quella
mattina, come suo solito, si recò, a piedi, al convento dell’Incoronata per
ascoltare la Santa Messa e prendere la comunione. Così fece anche quella
mattina e, al ritorno, si fermò a comprare la verdura da cucinare per il
pranzo. Nicola portava il lutto per la morte della moglie avvenuta quaranta
giorni prima.
Tornato a casa, comandò la figlia Emilia di andare
dalla sorella Natuccia (Liberata), perché Olimpia, sua figlia, era a letto con
la febbre. Emilia obiettò dicendo che non poteva andare perché doveva lavare i
panni; l’altra sorella, Anna, scherzando le disse: «Se mi dai mille lire, te li lavo io i panni!». Michele, l’altro
figlio di Nicola, si trovava ad Ancona come Brigadiere di Finanza.
Al momento del disastro, Anna era affacciata alla
finestra intenta a stendere i panni e venne investita dal serbatoio della
benzina. Il padre, che si trovava in una stanza sotto casa, sentendo gridare la
figlia, uscì fuori e anche lui venne investito dalle terribili fiamme. Osvaldo
Santoro ricorda che Nicola aveva la testa che sembrava uno “scafandro”. Era
tutto pelato e grigio, gli si toglieva la pelle dal corpo e ripeteva in modo
gutturale: «Aiutatemi, aiutatemi!». Era
tutto bruciato e Maria Cristina Bile, figlia del primario dell’Ospedale Civile
di Vasto, tra le protagoniste dei soccorsi, prese delle coperte per avvolgerlo.
Il ricordo di Silvio Petroro: «Da quelle rovine vidi uscire la figura di una persona che porterò
nella mia memoria per tutta la vita: l’aspetto irriconoscibile, senza più
vestiti, completamente nudo, privato degli occhi, si incamminò per la strada
senza emettere grida ma solo sommessi lamenti per l’intensità dei dolori.
Gli stavo
accanto e non sapevo cosa fare: dopo una ventina di passi quella figura stava
per crollare e la presi tra le mie braccia per adagiarla sul terreno avvertendo
le dita delle mie mani conficcarsi dentro la sua stessa carne.
Sono passati
gli anni ma il ricordo di quelle dita immerse nel corpo bruciato, come fosse
burro, non mi ha ancora abbandonato: era il corpo di Nicola Celenza che,
caricato sull’autoambulanza, scortai, seduto a fianco del lettino, nella corsa
sino all’ospedale. Mi trovai così, chiuso, solo con quest’uomo che gridava,
gesticolava con le mani, privo degli occhi a seguito dello scoppio della
miscela del serbatoio dell’aereo. Ebbi tanta paura perché gridava e con le mani
cercava di aggrapparsi come per prendere qualcosa che non trovava; i suoi
lamenti erano strazianti e, chiuso nell’autoambulanza, cercavo di non farmi
toccare, volevo uscire, volevo fuggire perché, da vicino e rinchiuso
nell’abitacolo del furgone, la figura di quella degnissima persona che
conoscevo per la sua bontà e signorilità frequentando da bambino la sua casa,
mi incuteva spavento». Nicola Celenza
morì alle ore 23 dello stesso giorno in un letto dell’ospedale.
Anche la figlia, Anna, venne presto trasportata in
ospedale. Prese la comunione e prima di spirare disse alla sorella Emilia: «Ringrazia la Madonna che non ti sei trovata
in questo inferno!». Anche il cane di famiglia, Alì, venne investito dalla
benzina e, reso cieco e sofferente dal carburante, venne soppresso. Poco dopo
l’incidente, Peppino Cianci (lu
Langianese), che affittava le macchine a piazza Rossetti, consegnò ad
Emilia il portafoglio, che gli aveva consegnato il padrepoco prima di morire.
Maria Baiocco aveva 21 anni. A 18 anni sposò Michele
Celenza. Dalla loro unione nacque prima una figlia, che morì, e poi Giuseppe,
che all’epoca del disastro aveva 7 mesi. Il marito, come già accennato in
precedenza, si trovava a Vasto Marina con Mastro Peppino Santoro. Maria era davanti
casa e vicino a lei,adagiato sopra il seggiolone,c’era suo figlio. Le fiamme
avvolsero i corpi dei due sventurati. Maria in preda alla disperazione scappò
subito verso la casa di Elena, un’infermiera che abitava lì vicino, la quale la
fece sdraiare a terra avvolgendola con delle coperte; ricordandosi del figlio
Giuseppe, tornò indietro, in mezzo alle fiamme, cadde a terra e non si rialzò
più. Era completamente nuda. Raccolta, venne coperta al meglio e trasportata in
ospedale in moto. Peppino Baiocco, fratello di Maria, apprezzato falegname
della nostra città, aveva 17 anni e ricorda che Don Nicola Di Clemente, la sera
della sciagura andò in ospedale a trovare le vittime della sciagura, ma non
volle confessare Maria perché vide che il suo volto era completamente intatto e
non gli sembrò in pericolo di vita. In realtà, tutto il resto del corpo era
bruciato. Quella stessa notte cominciò a delirare e si mise anche a cantare Faccetta nera. Morì dopo tre giorni di
agonia il 14 maggio alle ore 23.
Ma torniamo sul luogo del disastro con il racconto di
Silvio Petroro: «Dopo il ricovero in
ospedale tornai con lo stesso mezzo del pronto soccorso sul luogo del disastro
per ricominciare l’opera di soccorso: in mezzo a tante macerie sentii un
lamento ed entrato in una casa distrutta cercai di trovare uno spiraglio, ma
non potevo andare avanti per il fumo e l’odore nauseante di carne bruciata; fui
così costretto a ritirarmi, ma il pensiero di quel lamento di bimbo mi spinse
ad arrampicarmi sul muro che era rimasto della casa per poter vedere meglio. In
quello stesso momento si alzò un grido dalla folla per preavvertirmi che il
muro sul quale mi trovavo stava crollando e così con grande riflesso mi buttai
giù prima di essere travolto: ma quel lamento di bimbo non mi permise di
rinunziare al soccorso e, strappatomi la camicia davanti all’officina di
Santoro, la immersi in un fusto con dentro dell’acqua nel tentativo di arrivare
sino in fondo da dove si erano uditi i lamenti». Ma tutti gli sforzi
risultarono vani poiché la respirazione non era sufficiente. Il corpo del
piccolo Giuseppe Celenza, di appena sette mesi, fu estratto e portato via dai
pompieri e da altri volontari.
La signora Ciarallo Anna aveva 45 anni e si trovava
dentro casa intenta a lavare la biancheria. Il marito era fuori Vasto per
lavoro. Maria, la figlia, era andata dalla sarta, mentre suo fratello, Vincenzo,
lavorava di fronte casa presso la ditta Desiati. Quando cadde l’aereo, lo
spostamento d’aria sbalzò la povera Anna fuori casa e venne travolta dalle macerie.
Mattoni, calcinacci, mobili in frantumi e quant’altro si cercò di rimuovere
celermente, ma quanto affiorò una ciocca di capelli si capì subito che non
c’era più nulla da fare. Era la sig.ra Anna Ciarallo. «Mi guardavo intorno e mi vedevo sempre più solo, mancando ai più il
coraggio di prendere un corpo straziato – ricordava ancora Silvio Petroro –assieme alla signora Maria Cristina Bile
incitammo la gente affinché ci desse una mano. Il corpo straziato della
poveretta si presentava alla nostra vista con il volto e la testa maciullati:
lo spettacolo non era per tutti e la gente arretrava per non vedere; per
tirarla fuori dovetti prenderla sotto le braccia e così la sua testa penzoloni
e senza vita poggiava sulla mia guancia mentre lo sforzo per sollevarla era
enorme a causa dei vestiti che opponevano resistenza sotto il groviglio dei
detriti e mattoni».
La famiglia di Scipione Neri era originaria di Termoli
e viveva in una delle due case sulle quali cadde l’aereo. La moglie di
Scipione, Zi Spinucce (Zia Spina), era davanti casa a stendere i panni sulla
corda. La figlia, Nicoletta, era sul seggiolone lì vicino. Quando cadde l’aereo
la signora Spina venne investita dalle fiamme, riportando gravi ferite al volto
che la segnarono per sempre. Capito la gravità dell’incidente, cercò di
raggiungere la figlia, ma venne trattenuta dagli uomini che erano intervenuti:
ormai per la piccina non c’era più nulla da fare. Il piccolo corpicino
martoriato venne recuperato verso le ore 15 del pomeriggio.
Subito dopo il disastro, tutti i cittadini della zona
si prodigarono nell’opera di soccorso. Tra di essi, oltre a quelli già citati,
ricordiamo Mario Caldarelli, Espedito Sarodi, Alessandro Borrelli, Mimì Molino,
Adelmo Cipollone, il personale della ditta Di Fonzo, il Consigliere di Corte
d’Appello dr. Florio Longo, il pretore dr. Vittorio Liberati, e tanti altri.
Tutti gli estintori furono portati sul posto e messi in funzione dai
volenterosi cittadini, mentre accorreva la vicina motopompa in servizio sulla
strada Vasto-Cupello. Dopo qualche ora arrivarono in rinforzo le squadre dei
pompieri di Chieti, al comando del tenente Giuseppe Menci, e Termoli.
Dodici furono le persone coinvolte nell’incidente
investite dall’urto dell’aereo e dalle alte fiammate provocate dalla benzina.
Verso le tredici, dai rottami dell’aereo, fu estratto il corpo irriconoscibile
del tenente Della Guardia. La sua figura era tutta un groviglio di carne e
ferro, ma un lato del suo viso rimase completamente intatto.
La camera ardente venne allestita all’interno
dell’Aula Magna dell’Istituto Tecnico Commerciale, concessa dal preside Nino
Nanni. Sei bare, una accanto all’altra, circondate dai fiori e dall’affetto
delle tante persone, che in rispettoso silenzio davano l’ultimo commosso saluto
ai propri cari.«Impossibile descrivere le
scene strazianti di dolore –racconta il cronista dell’Histonium – la città intera,
che conosce lo sfortunato e valoroso pilota e le innocenti vittime del
disastro, è costernata. Da tutte le parti in muto pellegrinaggio di dolore
muovono i cittadini; le campane suonano mestamente; al caduto e alle vittime si
apprestano solenni onoranze.
Nel
pomeriggio sono giunte le autorità civili e militari, le quali si sono recate
sul luogo del disastro, hanno fatto visita alle famiglie e alle vittime. Vasto
si è abbrunata nei cuori; si stringe attorno al dolore delle case così
duramente provate ed esprime tutta la sua solidarietà affettuosa in questa ora
tristissima della vita cittadina».
La locale Camera del Lavoro, unitamente alle Sezioni
comunista e socialista, provvide all’affissione di un manifesto di cordoglio,
che qualche ora dopo, per ordine del prefetto, venne fatto sparire. Questo il
testo del manifesto:
«Cittadini, la
sciagura abbattutasi stamane sulla nostra città ci porta col pensiero a tutte
le vittime provocate da ordigni bellici e ci fa manifestare più forte la nostra
volontà di pace.
Esprimiamo
tutta la nostra profonda solidarietà per le famiglie colpite ed inchiniamoci reverenti
e commossi di fronte alle salme delle vittime.
Il popolo
tutto sia presente alle onoranze funebri».
Tante le autorità civili e militari presenti: tra loro
il Sen. Giuseppe Spataro, l’amministrazione comunale al completo, guidata dal
sindaco Florindo Ritucci Chinni, gli ufficiali e sottufficiali del 3° Stormo,
le scuole di volo di Brindisi e Lecce, quindi i famigliari delle vittime, le
orfanelle e le suore, i confratelli della Congrega del SS. Sacramento, S. Spina
e del Gonfalone, i frati del Collegio Serafico dell’Incoronata, il Concerto
musicale dei Combattenti e dei Reduci, i picchetti armati dell’Aviazione, della
Marina, dei Carabinieri e della Finanza.
Dall’istituto, una lunga processione sfilò a passo
lento tra due ali immense di folla, fino alla chiesa di Santa Maria Maggiore.
Attorno alla salma del ten. Della Guardia si notarono le spade dei giovani
ufficiali, mentre le note gravi e dolorose della Banda Musicale dei Combattenti
e Reduci, diffusero una pena struggente.Dalle finestre e dai balconi vennero
lanciati fiori. Nella chiesa di S. Maria Maggiore, stracolma di gente, ai piedi
del presbiterio giacevano allineate le bare: davanti quelle di Anna Ciarallo,
Nicola Celenza e Anna Celenza, nella fila dietro, al centro, quella del pilota
ed ai lati le piccole bare di Giuseppe Celenza e Nicoletta Neri. La messa funebre
venne celebrata dal pastore diocesano, l’Arcivescovo Giambattista Bosio,
davanti alle autorità militari, civili, ai parenti delle vittime e alla
numerosa folla che si è stretta intorno ai suoi concittadini.Al termine della
funzione la Schola Cantorum, diretta dal M° Antonio Zaccardi, eseguì il Libera me, Domine del Perosi. Al
Cimitero rivolsero l’estremo saluto il Sindaco, l’Avv. Florindo Ritucci Chinni,
e il Rag. Romeo Muzi, amico del pilota.
Incidente, fatalità o responsabilità del pilota, non
tocca a noi giudicare: è successo, sicuramente si sarebbe potuto evitare, o
forse, sarebbe potuto accadere con conseguenze meno drammatiche, ma le sette
persone innocenti non potranno mai più tornare in vita e, come scrisse il
generale Vittorio Giovine, in una lettera indirizzata al cugino Peppino
Perrozzi, «io sento che di fronte alla
morte uno spirito solo anima i nostri concittadini, un solo comune impulso,
quello d’inginocchiarsi e pregare in silenzio».
Le vittime della sciagura decedute l’11 maggio:
Neri
Nicoletta di Scipione e di Di Rosso
Maria Spina
Nata a Termoli nel settembre del 1950
Età: 8 mesi
Ciarallo Anna fu Pasquale e di Marchesani Elisabetta
Nata a Vasto il 01/1/1906
Età: 45 anni
Nata a Vasto il 15/7/1922
Età: 28 anni
Nato a Vasto il 01/10/1950
Età: 7 mesi
Nato a Vasto il 18/1/1926
Età: 25 anni
Il giorno seguente, 12 maggio, si spense
Celenza
Nicola fu Michele e di Caravaggio
Liberata
Nato a Vasto il 15/12/1890
Età: 60 anni
Il 14 maggio alle ore 23, dopo due giorni di agonia
spirò la giovane
Baiocco
Maria di Sebastiano e di Pollutri
Amina
Nata a Vasto il 30/8/1929
Età: 21 anni
Le altre persone coinvolte nella sciagura, ma scampate
alla morte sono: Giannagostino Giulia di anni 22, Di Falco Luisa di anni 29, il
figlio Angelo di 3 anni, Di Cicco Rosa di anni 49, Sputore Incoronata di anni
48, Di Rosso Maria Spina di anni 32.
Nell’aprile del 2013 ho pubblicato il volumetto “La
morte che viene dal cielo”. Non dimenticherò mai il racconto dei familiari
delle persone coinvolte e le lacrime di Emilia Celenza quando le ho consegnato
il libro.
Ho sempre sperato nell’intitolazione di una via o di una
piazza, o più semplicemente l’apposizione di una targa per ricordare le
vittime. Ormai ho quasi perso ogni speranza.
Nel mio piccolo, fino a quando potrò, continuerò a
ricordare e raccontare questa triste pagina di storia vastese.
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