lunedì 19 aprile 2021

L'ANTICA ARTE DI "LU ZUCARE" (FUNAIO), UN AUTENTICO TUFFO NEL PASSATO!


A girare la ruota del funaio era quasi sempre un ragazzo
Lu zucäre (il funaio)

di ENZO LA VERGHETTA

Hai mai sentito la frase che in vastese suona: “vi arréte gné lu zucäre” (vai indietro come il funaio). Una frase dei nostri genitori che risuona ancora nelle nostre orecchie, tipica dopo il colloquio con i professori. L’unica nostra difesa era di consigliare di non perdere tempo e rimandare questo triste appuntamento con: “tanto dicono sempre le stesse cose”, spesso infruttuoso. Sarà il loro sesto senso? Purtroppo,dopo la pagella, ogni nostra difesa era inutile, e immancabile questo rito.Il responso era sempre: “il ragazzo è intelligente, potrebbe fare di più, ma non si applica”. Così partivano rimproveri, punizioni e qualche scapaccione.

Ritornando a questo mestiere, a chi ha meno di 60 anni,e non ha vissuto in un paese,questo mestiere è sconosciuto, non vedrà mai nu zucäre all’opera. E’ uno dei tanti mestieri scomparsi, sicuramente uno dei primi, certo non era ad alto reddito al contrario e questo ne ha accelerato la scomparsa. Anche se umile, consentiva di “campare” dignitosamente la famiglia, e questo era un successo per molti padri. Parliamo di una società dove assicurarsi la sopravvivenza era un obiettivo per molti, c’erano ancora gli strascichi della guerra e c’era molto da ricostruire, ma tanto su cui sperare per un futuro per i figli migliore del loro. Anche l’emigrazione temporanea era una carta da giocare buttando sul tavolo un carico di sacrifici e rinunce sperando in un futuro migliore.

In quegli anni, gli inter scambi fra le economie locali parzialmente autoctone, per problemi di percorribilità e mezzi di trasporto, che si cominciavano a evolversi mandando in pensione i vecchi carretti per il trasporto delle merci. Strade più agibili e mezzi più veloci consentivano sempre più la penetrazione dei prodotti industriali.

Questo mestiere era sempre più un retaggio del passato. Restava qualche anziano che resisteva per consuetudine e per raggranellare qualche soldo, ormai erano altre le strade da percorrere per soddisfare le necessità familiari.

I miei ricordi partono da una realtà, che mostrava ancora i residui della guerra, dove restavano spazi ancora da reinventare, dei ruderi da abbattere e aree da riedificare, questo anche in pieno centro cittadino.

Uno di questi spazi era di fronte alla bottega di mio padre, era ciò che restava di un palazzo abbattuto durante la II guerra mondiale (Area in cui dopo fu costruito il palazzo ex Monti confezioni ndr). Si era salvato un minuscolo edificio adibito poi a tipografia e lo spazio per un “funaio”. Durante la festa patronale veniva riempito dalle giostre.Nel resto dell’anno era la “bottega del funaio”.

La produzione girava intorno ad una grossa ruota di legno che era la forza propulsiva per far ruotare i rocchetti da cui partivano prima i fili di canapa e poi le funi che venivano intrecciate fra di loro per arrivare a una fune più doppia e resistente. Tutto hand made, un aiutante con una manovella faceva girare la ruota da cui partiva una cinghia di trasmissione che metteva in moto i rocchetti, posizionati su un apposito supporto in legno parallelo alla ruota.

L’artigiano legava i capi dei singoli fili di canapa da intrecciare, uno per ogni rocchetto, poi prendeva i fili partendo dal lato dei rocchetti e dava il via all’aiutante che iniziava a girare la ruota. Le cinghie mettevano in azione i rocchetti che girando su se stessi arrotolando i fili che davano vita alla corda.

L’artigiano, valutata,dopo ogni passo, la consistenza raggiunta e omogeneità del prodotto,e proseguiva con un passo cadenzato indietreggiando, mentre la funediventava più lunga e prendeva la forma definitiva. Se la corda doveva essere più doppia, più funi venivano riattaccate ai rocchetti e si ripeteva l’operazione fino a raggiungere lo spessore voluto. Un’operazione che appare elementare ma certo non priva di professionalità nella scelta della materia prima e nell’esecuzione.

Una breve sintesi di un mestiere scomparso, ma resta una visione plastica di un mondo che con l’illusione di progredire va perdendo alcuni dei suoi valori. Un cambiamento vorticoso che brucia sempre più velocemente quelle che avevamo assunto come nostre certezze.

“La vita diventa sempre più difficile”, come dissi tanti anni fa (1986 o giù di lì) a Parigi, davanti ad un piatto di ostriche, offerte dall’azienda,dopo un’intensa giornata di lavoro.Confronto con l’affilata francese sulle procedure nazionali, primo stepper istaurare un unico sistema che integrava e ottimizzava, le procedure delle affiliate europee e successivamente arrivare ad un unico approccio per tutta la company.

Entrambi eravamo padroni degli argomenti che trattavamo, ma io col mio limitato inglese, durante l’incontro fui in difficoltà nell’esprimermi, usai ogni mezzo, anche mani e piedi, ma mio malgrado in alcuni passaggi fui costretto a rivolgermi al “translator”. Prova tangibile che l’inglese diventava sempre più la lingua ufficiale in una company che stava abbattendo i confini delle singole affiliate nazionali. Anche le in funzioni, come l’amministrativo, che fino a quel momento erano fuori da contatti extra nazionali dovevano iniziare a dialogare fra loro. Quella mia frase che aveva la forma di una battuta, nascondeva da parte mia una dura presa di coscienza.

In sintesi in quella giornata di lavoro, prendevo consapevolezza di un nuova interpretazione delmio ruolo e quello che per la mia generazione “no english” che si andava delineando. La company metteva le basi per identificare il meglio delle logiche e procedure dalle singole affiliate, “the best practices” per trasformarle in company standard. Un approccio che archiviava il passato per unificare in un’unica struttura la gestione del business. Sfortunatamente,per la nostra generazione la lingua inglese diventava un handicap non trascurabile, che ci metteva fuori gioco. Il “tu sapresti come dirlo ma io saprei cosa dire” perdeva sempre più la sua efficacia come auto difesa verso le nuove generazioni. Erano i primi segnali di un futuro da vecchi tromboni obsoleti che ci attendeva.

Avevamo iniziato il cammino de “lu zucäre”.

ENZO LA VERGHETTA


1 commento:

Unknown ha detto...

Signor Enzo, anch'io da bambino per curiosità e per gioco ho spesso girato quella ruota durante le vacanze estive nella casa dei miei nonni. Quando non scendevo al mare con le mie zie andavo dal funaio che aveva il suo "impianto" in via Tobruk a fianco del consorzio agrario.
Con lui lavorava un figlio che all'incirca aveva la mia età.

Mi piacerebbe sapere come si chiamava quell'artigiano, notizie su di lui e sulla sua famiglia.

Rodolfo Molino