UN TUFFO NEL PASSATO
Dalla “cascia armonica” all’opera
di ENZO LA VERGHETTA
Negli anni ’50, i complessini musicali erano agli albori e c’erano poche possibilità di ascoltare la musica dal vivo. Per molti di noi, ragazzi dell’epoca, la” cascia armonica” era un’occasione e il primo passo verso la musica operistica.Lo stimolo a frequentare in seguito il Politeama Ruzzi, quando qualche compagnia transitava per la nostra città.
Non c’era festa patronale senza una o più bande musicali, una per accompagnare la processione del patrono e portare allegria per le strade cittadine, la seconda per il concerto serale in piazza sulla cassa
armonica.Si iniziava con il buon giorno n musica alla città. Due colpi di tamburo preannunciavanoche la festa aveva inizio, invitava i bandisti all’adunata e di lì a poco la banda sarebbe sfilata per le vie cittadine. I musicisti allineati e coperti, al segnale del maestro intonavano la marcetta e iniziavano a percorrere le strade principali della città. Fra un brano e l’altro c’erano brevi soste programmate li dove l’auditorio era più presente, terminato il brano una pausa e si ripartiva con una nuova marcetta. Questo fino al rompete le righe finale.
Durante la sfilata i ragazzi si alternavano nell’accodarsi, più per gioco che per la passione musicale. Era anche una gioia per tutti, chi si affacciava dalle finestre chi si fermava sul marciapiede in attesa del passaggio.Qualcuno anche se non più giovanissimo si accodava per qualche breve tratto.
Il
repertorio comprendeva soprattutto delle marcette, famose e meno, alcune erano
state scritte dai maestri che si erano succeduti alla guida del complesso
bandistico.
Un “pettegolezzo bandistico”: il
contratto con gli organizzatori della manifestazione prevedeva un numero
predefinito di bandisti. Per problemi di organico contingenti e non, per
raggiungere il numero prefissato si ricorreva a coinvolgere nella
manifestazione degli allievi non ancora pronti, che inforcati i loro strumenti
sfilavano per le strade.Per evitare attentati alle armonie musicali si provvedeva
a tappare gli strumenti che facevano volume e non musica.
La sera poi, era il momento più atteso, il concerto.
La Cassa armonica, che brillava con tutte le lampadine accese, era
montata davanti all’entrata della chiesa di San Giuseppe, di fronte alla
Società di Mutuo Soccorso, sul cui balcone si cercava un posto da uditore
privilegiato.I bandisti erano ora “maestri”,indossavano l’uniforme di gala che
era più adatta alla solennità dell’avvenimento.I soliti colpi di tamburo
annunciavano l’inizio e invitavano i maestri a prender il loro posto sulla cassa
armonica. Il bandista più anziano, che aveva dato i tempi e le cadenze durante
le esibizioni giornaliere, consegnava la bacchetta del comando al maestro. Lo
spettacolo poteva aver inizio.
Il programma prevedeva una serie
di brani operistici fra i più conosciuti, si spaziava da Verdi a Rossini, da
Leoncavallo a Puccini. Le arie, eseguite sui palcoscenici da tenori, baritoni, ecc.venivano eseguiti dai
maestri solisti che con i loro strumenti reinterpretavano tonalità e passaggi dei
singoli brani. Dei veri virtuosismi, la ciliegina che mandava in estasi
l’uditorio e che dava maggior lustro all’esibizione tutta. Poi finito il
repertorio concordato, si passava agli immancabili i bis a gentile richiesta, erano
il giusto compenso a chi aveva resistito fino in fondo. Il tutto si chiudeva con
immancabile patriottico “Fratelli d’Italia”.
L'uditorio che si radunava tutt’intorno era
variegato e interessante da scoprire. Approcci diversi al concerto,emergevano
coloro che sfoggiavano le competenze musicali reali o da pubblicizzare a
conoscenti e vicini. Poi c’erano anche ineofiti, che spinti dalla curiosità,
loro malgrado, mostravano la difficoltà a seguire ed erano costretti a rivolgersi a
chi sembrava saperne di più, con fare circoscritto, chiedevano“ma cosa stanno
suonando?”,e i più sprovveduti “qual è lo strumento del bandista in terza fila?”.
Poi non sempre arrivano fino in fondo e preferivano ritirarsi, dopo aver fatto il
pieno simulavano, perfino, impegni improrogabili.
L’uditorio era nobilitato da “Chi
sapeva”. Concentrato non perdeva neppure una nota, e una sfumatura
dell’esecuzione. Purtroppo, più volte era costretto a chiedere ai vicini un
sacro silenzio. Giudicava e poi rimarcava, con un gesto impercettibile, errori
e momenti di eccellenza dell’esecuzione.
La serata non si concludeva con l’ultima nota, ma proseguiva con i commenti dei “professori” che ripercorrevano i punti salienti: inciampi nell’esecuzione. Il massimo della professionalità ed esperienza si raggiungeva con chi andava oltre e riusciva a cogliere anche le differenze d’esecuzione rispetto alle orchestre degli anni precedenti. I pareri erano talvolta discordanti, e le obiezioni non sempre erano ben accolte, poi,come sempre, ognuno rimaneva col proprio parere. Ma era un passaggio che dava lustro ai partecipanti a cui non da tutti veniva riconosciuta la competenza.
C’eravamo anche noi giovani
neofiti, un po’ per celio e anche per darci un tono ci prendevamo “sta botta di
cultura”. I più piccoli partecipavano spinti dai genitori e anche dal desiderio
di prolungare la festa scoprivano i vari strumenti visti su libri e riviste: clarinetti,
sassofoni, trombe, corni inglesi, piatti e il grosso tamburo.
Per molti di noi era anche l’occasione scoprire le inaspettate conoscenze musicali dei genitori. Leggendo sulla bacheca i titoli dei brani ci introducevano all’esecuzione, attraverso la trama dell’opera da cui era tratto il brano, per poi intonare anche le prime note. Non era esibizionismo, ma solo un automatismo di chi era cresciuto ascoltando quella musica. La loro era una generazione che aveva vissuto un periodo di magra,piena di rinunce, che vedeva l’iscriversi ai corsi da bandista anche come un espediente per riempire le serate invernali a un costo sostenibile. Quei momenti diventavano un amarcord. Questo ci spingeva all’emulazione e ci accostavaa quest’esperienza, anche se i nostri gusti musicali erano diversi.
Nei primi anni sessanta, anche se la sopravvivenza delle compagnie operistiche era sempre più difficile,alcune facevano tappa a Vasto. Si esibivano al politeama Ruzzi che aveva gli spazi per montare le scenografie e qualche camerino per gli artisti, si fermano mediamente per uno o due spettacoli.
Un evento mondano, ma fra gli
spettatori c’eravamo anche noi giovani, pronti a partecipare ogni nuova
esperienza, anche se non sempre riverenti verso la “sacralità” dell’avvenimento.
Poi pronti a vivere lo spettacolo nello spettacolo. Spiavamo le reazioni del
pubblico: l'estasi di chi ne sapeva, i condirettori che con la mano scandivano
il tempo, i suggeritori che precedevano a voce bassa le singole parole delle
aree che venivano cantate. Certo non mancava il sottofondo musicale “in russo”
che saliva dalla platea, interrotto dal brusco risveglio.
Occupavamo la prima fila del
“loggione” anche per controllare l’uditorio, la parte interna più nascosta e
buia era riservata ai giovani innamorati, a cui bisognava poi raccontare cosa
era successo.
Come significare la nostra
presenza? Simulavamo un alto gradimento, ripartendo con gli applausi quando gli
altri avevano finito e richiedendo a gran voce il bis delle aree più note e
d’effetto. Abbiamo raggiunto il massimo quando riuscimmo a far ripetere per tre
volte l'aria “di quella pira…” al tenore, che, preso dall'entusiasmo,
sguainando la spada tagliò uno dei teli della scenografia.
Tutto questo è una parte importante della mia storia di giovane vastese. Dopo oltre cinquanta anni tutto ciò mi lega a quei anni e soprattutto a mio padre Gino. Anche lui era di quella generazione che uscita dalla bottega riempiva le serate e la voglia di “bello” con la musica. Frequentò la Banda di Vasto da sassofonista, per lui come per tanti altri artigiani, fu una bella parentesi che l’ha accompagnato negli anni successivi. Il suo strumento era riposto nel cassettone,nella custodia che aveva cucito, fra le cose da preservare con cura. Purtroppo, non fui un buon allievo, non ressi allo stress del solfeggio. Oggi lo custodisco in una campana di vetro che fa da base a una lampada. Di questo suo amore per la musica ho tanti piccoli episodi che talvolta si riaffacciano. Quello che resterà indelebile nella mia memoria è una scena dei suoi ultimi anni di vita.
Ormai il suo grande cuore affaticato cominciava a dare segni sempre più frequenti di fragilità, ma restava intatta la passione per la musica. Era il solito concerto della festa patronale in piazza. Riuscii a convincerlo a uscire e portarlo in piazza, purtroppo mostrò subito segni di stanchezza, fortunatamente riuscii a rimediare una sedia ma non fu sufficiente per arrivare alla conclusione del concerto. Lo ricordo come un’esperienza irripetibile, anche se le sensazioni provate possono essere frutto della mia immaginazione.Mentre ascoltava quei brani, lo vidi pian piano rianimarsi, i suoi occhi brillare per i ricordi che cancellavano il suo presente: un corpo sempre più stremato dal male. Si era lì, idealmente era salito al suo posto di giovane bandista sulla cassa armonica insieme ai suoi colleghi di allora. Fu un breve ma intenso bagno di musica e di gioventù.
Un veloce amarcord che lo
riportava a quando con il fratello Vincenzo e il nipote Peppino tanti anni fa
erano parte di quell’evento. Zio Vincenzo, l’ho sempre visto, come un uomo a
cui le necessità hanno scippato le sue aspirazioni di musicista: ma la musica
l’ha sempre accompagnato in tutte le giornate e la sua calzoleria risuonava di
brani d’opera che canticchiava fra una suola da riparare e un tacco da attaccare. Anche
il figlio Peppino, seguì l’esempio familiare. Ebbe buoni risultati come bandista
e come sarto.Papà lo descriveva come il suo miglior allievo, purtroppo, fu
strappato alla vita in giovanissima età.
Oggi la tradizione della banda
per “S. Micchele” (la doppia C è voluta), anche se in tono minore, resiste.
I ricordi sono più belli della
realtà
ENZO LA VERGHETTA
ndr
RINGRAZIAMO L'AMICO ENZO CHE CI HA FATTO RIVIVERE L'ATMOSFERA DI QUEGLI ANNI CON DESCRIZIONI DETTAGLIATE, SCOMPARSE ORMAI NELLA MEMORIA DI MOLTI DI NOI. GRAZIE ENZO!!!
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