di Gabriella Izzi Benedetti
Romualdo Pantini fa parte del mio immaginario infantile. Nell’immediato dopoguerra ho ricordo di questo signore che mi pareva molto alto, non so se lo era, da piccoli tutto ci appare grande, e che arrivava nella casa di campagna a far visita soprattutto alle mie zie, Anna in Tosone e Rosa in Bile, ma poi come spesso avveniva, essendo i giardini contigui, dai loro approdavano nel nostro; pomeriggi sereni pieni di voci, scambio di vedute. Di questo anziano signore amavo la gestualità, il modo di parlare, anche se non tutto
ero in grado di comprendere. Poi con gli anni l’ho dimenticato, salvo ritrovarlo nella lettura delle poesie di Dante Gabriel Rossetti da lui tradotte dall’inglese che conosceva assai bene.La sua rivalutazione, per merito soprattutto di Gianni Oliva, docente universitario, dopo una deplorevole e lunga trascuratezza, mi ha molto rallegrata, perché Romualdo Pantini (1877 – 1945), appartiene alla schiera di quei raffinati e autentici intellettuali di un tempo, non poi così tanto lontano, ma che oggi ci sembra siderale, tanto la società è cambiata in pochi decenni.
Ma il discorso a riguardo sarebbe troppo lungo e toglierebbe spazio alla nostra pur breve analisi su di un concittadino che merita tutta la nostra attenzione.
Pantini è un personaggio che con la sua partecipazione alla vita culturale italiana tra fine ‘800 e prima metà del ‘900, ha innalzato il livello valutativo della nostra città proponendola ai connazionali nelle sue notevoli potenzialità, non sempre sfruttate, ma sicuramente esistenti.
Romualdo Pantini è l’intellettuale puro, che vive per respirare cultura, arte. Che prende le distanze da ciò che è limitato, angusto. Di lui ricordo le ghette di color grigio chiaro e il bastone col pomo d’argento. Essendo piccola, il ricordo è sfumato, ma alcune sue frasi mi sono rimaste impresse. Ricordo quando entrò in polemica con mia zia Anna, polemica assai garbata peraltro, sulla moda anni trenta che lui giudicava bellissima e di cui era nostalgico, mentre mia zia che l’aveva “subìta”, disse proprio così, la trovava orrenda. “Ma, Annina cara”, diceva Pantini“fidati di chi è molti anni più di te; ti dico che tu, raffinata come sei, eri perfetta con quegli abiti fluidi”. I miei sono flash. Ascoltavo attentamente, talvolta lo trovavo buffo, fuori tempo.
Una delle sue visite dové essere a settembre inoltrato perché è abbinato all’odore di mosto; e soprattutto a un insieme di foglie ingiallite che mulinava intorno alle sue ghette. C’è qualcosa di magico nei ricordi d’infanzia, e in quel qualcosa includiamo i personaggi che ne hanno fatto parte. Romualdo Pantini avrà sempre un posto particolare nel mio ricordo.
La famiglia Pantini era di lontana provenienza bergamasca, che Vittorio d’Anelli definisce ricca e antica; alla fine del 1600 si era spostata da Bergamo a Vasto. In seguito, per vicissitudini che non conosco il padre di Romualdo era stato adottato dallo zio materno Antonino, per cui al nome Pantini si era aggiunto quello di Celano, ma Romualdo non volle mai usarlo. Comprese ben presto la sua inclinazione per l’arte e la letteratura conseguì la laurea in Lettere a Firenze nel 1899 con una tesi su Dante Gabriele Rossetti; e proseguì nel suo percorso letterario, divenendo poeta, oltre che critico d’arte, giornalista, drammaturgo. Ma l’attenzione verso Dante Gabriele Rossetti non finì mai,contribuendo alla conoscenza del poeta in Italia. Tradusse i suoi sonetti,La Casa di Vita, le Ballate. La conoscenza delle lingue antiche e moderne (agevolate queste ultime dal suo continuo viaggiare) gli fu molto utile nella veste di traduttore, operazione mai semplice, che ha bisogno di una capacità linguista, ma anche intuitiva non comune.
Mal si adattava al suo temperamento irrequieto la staticità, era alla continua ricerca di stimoli sul piano creativo, desideroso di contatti con il mondo culturale italiano e straniero, legandosi ad ambienti intellettuali e riscuotendo buoni successi come quello derivato dalla pubblicazione dei sonetti di Torquato Tasso, nel 1895, che diede nuova linfa alla figura del grande poeta cinquecentesco.
Importante fu il rapporto con i giovani intellettuali fiorentini che rifiutavano gli schemi tradizionali. Tra la fine dell’ ‘800 e la prima metà del ‘900 assistiamo a un grande fervore innovativo in campo artistico, ad ampio raggio; molte furono le voci, e le riviste a trasmetterle. A Firenze nacque nel 1896 la rivista letteraria il “Marzocco”, fondata da Angelo e Adolfo Orvieto, caratterizzata da un eclettismo estetizzante. La cooperazione alla rivista fu di alto livello, oltre al Pantini, leggiamo nomi illustri tra i quali Pascoli, Fogazzaro, D’Annunzio, Bontempelli. Ma la collaborazione di Romualdo non si fermò al “Marzocco”, lo vediamo attivo su “Critica Letteraria ed Artistica”, “l’Illustrazione Italiana”, la “Nuova Antologia”, il “Corriere della Sera”, la “Gazzetta del Popolo”,“la Stampa”“il Mattino”.
Il Pantini aveva l’anima di un poeta e non solo. Se alla poesia dedicò versi, alcuni dei quali troviamo sulla rivista “Nella poesia”, e pubblicò Un epitalamio di Saffo ricostruito , Antifonario, Canti di Vita, si cimentò anche nel teatro drammatico ottenendo un bel successo nel 1912 con il Tiberio Gracco, tragedia in cinque atti, rappresentato presso il Teatro Argentina a Roma. I critici furono concordi nel definire l’opera originale e vivace. Ugualmente ben accolta fu la tragedia La notte di S. Giuliano, rappresentato al Teatro Valle di Roma nel 1914, mentre poco successo riscosse laPersonaggi della Vasto d’un tempo: Romualdo Pantini Schiavona, messa in scena l’anno seguente a Milano, al Teatro Manzoni.
Tra i suoi interessi non ultimo fu quello per la critica d'arte; molti sono gli studi da lui realizzati su artisti come Masaccio, Rembrandt e tanti altri, di ogni epoca.
Dicono che avesse un carattere riservato e pochi amici; penso che fosse un selezionatore di amicizie. Certamente con gli amici Francescopaolo Michetti e Gabriele D'Annunzio aveva più motivi di dialogo che con altri e magari le chiacchiere fine a se stesse, prive di quelle sottigliezze mentali a lui care, lo annoiavano.
Un uomo siffatto che viveva per l’arte, la cultura, non possedendo un carattere pratico e probabilmente non dando peso alla questione economica, si trovò alla fine in una situazione finanziaria disagiata e morì povero. Ma non credo che,tutto sommato, fosse il suo cruccio maggiore.
A mio avviso era un uomo disinteressato a questo aspetto dell’esistenza. Era un teorico; per lui, riflettere, pensare, sognare, discutere di argomenti culturali valeva di più. C’è una mia poesia a lui dedicata. Non so se tutto quello che ricordo è esatto, ma credo di non avere stravolto più di tanto. Certo le sue considerazioni, che trasmetto con linguaggio adulto, su di me hanno avuto un impatto non indifferente. Di questo gli sono stata sempre grata.
Lungimiranza
Le ghette grigio perla e il bastone
dal pomo d’argento, alto e sottile,
il vecchio signore giungeva, dispnoico
per l’afa e la fatica.
Agitava la testa canuta e raccontava
storie del passato. Rimpiangeva
la moda anni trenta.
Recriminava il presente.
Rammentava frequentazioni,
D’Annunzio con vanità,
Croce con orgoglio.
Parlava di poesia, di viaggi,
di un amore finito tragicamente,
causa, forse, della sua solitudine.
C’era chi lo giudicava bizzarro
perché diceva:
“Rarissimamente la guerra
è frutto d’ideali; gl’idealisti
comunque, non sono mai al potere.
La guerra miei cari è sostenuta
dai fabbricanti d’armi:
ne decidono il momento,
quando la produzione eccede;
e tramano assieme ai governanti,
manovrando l’opinione pubblica”
Qualcuno si scandalizzava se diceva:
“E’ ingiustizia la sperequazione sociale,
l’istruzione dev’essere di tutti,
è necessario il benessere globale”.
Qualcuno sussurrava “Comunista”.
Il vecchio liberale scuoteva la testa,
raddrizzava il papillon,
leggeva passi d’autori settecenteschi.
Illuminismo.
Quando non ritornò per il pendio,
prendendo altra via, definitiva,
la sciocca, presuntuosa irriverenza,
che provavo, bambina,
si convertì in ossequio.
Non ne rammento il volto, ma la voce bassa,
stanca e dolce. E’ rimasta nell’animo
avvertimento e avvenimento.
Le ghette, modello rétro,
metafora di lungimiranza
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