Pubblichiamo qui di seguito due note - due racconti - del Corso di “Storia dell’Arte/Educazione alla visione” della docente BIANCA CAMPLI. La professoressa nella prima recensione parla di Giotto, in particolare della Cappella degli Scrovegni di Padova, “Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d'oro - 1300/1303”; nella seconda parla di Frida Khalo ed analizza l'opera "Il Cerbiatto Ferito", 1946.
GIOTTO La grandezza di Giotto, il pittore fiorentino vissuto tra il 1267 e il 1337, è nota anche a coloro che non sono interessati all’arte figurativa, perché la sua fama è all’origine di aneddoti che si raccontano anche ai bambini ed è, quindi, indiscussa. E’ interessante, invece, sottolineare - in pochissime battute che consentano di cogliere il senso del mio racconto - a cosa si deve la sua grandezza. Il punto principale della svolta radicale, che il pittore ha impresso alla Storia dell’Arte, consiste nella rottura degli schemi figurativi medievali improntati ad un forte simbolismo e alla rappresentazione stereotipata del corpo umano, del volto e delle espressioni. Con Giotto, invece, la realtà e l’umanità irrompono nella pittura: lo spazio si riempie di architetture, di alberi veri (quanti ulivi nella sua pittura!), le persone si abbracciano, si toccano, parlano tra loro, sorridono e i volti corrispondono a questi gesti con espressioni mutevoli.
Infatti nell’ affresco con Anna e Gioacchino, inserito nel grande ciclo della Cappella degli Scrovegni, che Giotto dipinse per il ricco banchiere Enrico Scrovegni a Padova, tra il 1303 e il 1305, le donne che accompagnano Anna sorridono e i due vecchi coniugi si abbracciano, con gesti di profonda tenerezza e dedizione: è stato proprio questo condensato di umane emozioni, magistralmente raccontato con i colori, a farmi sempre amare questo particolare e a spingermi a scrivere il breve racconto che, spero, incontrerà il vostro gradimento.
LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI - PADOVA
Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d'oro - 1300/1303
Anna non vedeva Gioacchino da molto tempo. Era andato via, partito, esiliato, per placare lo scandalo che opprimeva i cuori dei due sposi che erano vissuti sempre con modestia e sobrietà, amandosi e accudendosi teneramente.
Gioacchino era andato tra i pastori a purificarsi da colpe che non aveva, ma che sentiva di avere perché così dicevano tutti: gli
amici, i parenti, il sacerdote nel Tempio .
Era sterile e cioè non amato da Dio.
Tra i pastori la vita era serena, immersa nel silenzio e nella contemplazione a cui l’accudimento del gregge lasciava ampio spazio.
Gli mancava Anna, però.
Non avere avuto figli aveva reso il loro rapporto ancora più stretto: erano stati loro due, i loro corpi la reciproca e comune consolazione. Avevano passato tanti anni assieme ed erano diventati vecchi- le teste canute lo ricordavano ad entrambi- eppure i loro corpi si cercavano ancora. Le spalle di Anna si erano leggermente incurvate, ma sembravano ancora più tenere da accarezzare; la barba di Gioacchino era sempre più bianca, ma ad Anna sembrava che rendesse ancora più desiderabile il calore rassicurante delle labbra che tante volte le avevano sfiorato la fronte e il corpo.
Anna si consolava come poteva. Le altre donne, famigliari e amiche, le facevano compagnia. Preparava il pane, pregava Dio di conservarle il suo Gioacchino, respirava felice l’aria della sera, pensando che quel cielo stellato era lo stesso che qualcun altro contemplava tra i pascoli lontani.
Poi, un giorno, sentì uno strano fremito sotto il seno: era come un leggero battito d’ali e le mise addosso una strana ansietà.
Si mise in attesa che si ripetesse, per poterlo meglio decifrare. Stesa sul letto aspettava. Ed ecco, ancora, la discesa dell’angelo.
Il fremito si ripeteva, qualcosa dentro di lei batteva le ali.
Le vennero in mente i racconti delle amiche, ascoltati prima con il desiderio e la certezza che anche per lei sarebbe accaduta la meraviglia che raccontavano, poi con invidia, infine con rassegnazione: lei non sarebbe mai stata madre, non avrebbe mai intravisto in un piccolo nato gli occhi amati del marito.
E ora, ora che i capelli erano bianchi, il seno avvizzito, i rimpianti addormentati, com’era possibile?
Eppure l’angelo batteva le ali e il fremito diventava nella sua gola gorgoglio di colomba e scoppiava in un’alternanza di allerta e giocondità. Sui monti Gioacchino non sapeva, ma una notte un angelo, le cui ali avevano destato il ventre di Anna, giunse a ventilare la notizia nei suoi sogni: doveva tornare a casa, c’era un’incredibile, straordinaria novità.
Gioacchino non perse tempo, non aveva che il suo corpo da riportare ad Anna e lei, spinta dall’amore che le regalava un passo di giovinetta, gli andò incontro. Gioacchino riabbracciò finalmente quelle spalle che aveva sfiorato tante volte e mentre Anna gli stringeva il volto e gli sfiorava le labbra gli sussurrò: nascerà una bambina, si chiamerà Maria.
All’annuncio la lietezza divampò nel cuore e dilagò nel cielo, fugandone tutte le nubi e inondò i volti delle compagne di Anna, cacciandone crucci e paure: questo vide Enrico Scrovegni quando, ammirato, spalancò gli occhi sugli affreschi di Giotto nella Cappella che avrebbe preso il suo nome.
Il pittore fiorentino aveva osato l’impossibile: aveva ridato vita ai palpiti ed alle tenerezze di un amore lontano, da cui sarebbe nata Maria, l’eletta tra le donne, la madre del figlio di Dio.
Docente Bianca Campli
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FRIDA KHALO
Frida Khalo è nata in Messico nel 1907 e lì è morta a soli 47 anni nel 1954.
Un terribile incidente, quando aveva soli 18 anni, le aveva spezzato la colonna vertebrale, costringendola ad estenuanti operazioni e a dolorosissime terapie.
Il suo spirito, tuttavia, rimase indomito e le fece amare con la stessa intensità la pittura e suo marito, il pittore, famosissimo in Messico, Diego Rivera.
La loro fu una relazione tormentata, a causa dei numerosissimi amori di Diego che corteggiava qualsiasi donna, pur amando e ammirando profondamente Frida, di cui sostenne sempre il grande talento.
Mi sembra che il quadro che ha ispirato il mio racconto “IL CERVO FERITO” del 1946 condensi questa relazione appassionata e dolente, e, come tutta la grande arte, la sublimi in un simbolo universale di innocenza tradita.
“IL CERVO FERITO”
La sensazione fisica di sentire che il sangue sta per erompere dal corpo, come fosse un fiume in piena, è sconvolgente. Proprio questo aveva avvertito Frida Khalo quando il suo corpo era stato letteralmente attraversato dal corrimano del tram sul quale viaggiava: aveva diciotto anni, era bella, intelligente, anticonformista e con una violenta voglia di vivere.
Dopo l’incidente continuò ad essere tutte queste cose, meno la prima. Non era bella, o a dir meglio non si sentiva più bella come prima. Non avrebbe più potuto correre a perdifiato, la sua colonna era spezzata in più punti e il dolore, d’ora in avanti, non l’avrebbe abbandonata mai più.
Eppure la voglia di vivere non passava, anche perché dopo l’incidente erano accadute due cose importanti: cominciò a dipingere e incontrò Diego Rivera, il suo amore, l’uomo della sua vita, il suo due volte marito. Anzi le due cose, ad un certo punto, si erano incastrate: aveva incontrato Diego, allora pittore famosissimo, mentre affrescava il Ministero della Pubblica Istruzione.
Era stata lei ad andarlo a cercare per fargli vedere i suoi dipinti e averne un parere.
Lei si innamorò di lui subito e non smise mai di amarlo, perché aveva due grandi occhi bovini, una grande pancia ed un grandissimo talento.
Lui era famoso, amava il cibo, il vino, l’arte e le donne, tutte le donne, perché ne adorava il fascino nascosto in ogni onda del vestito, in ogni nastro, in ogni sguardo furtivo, in ogni piega della pelle. E adorò subito quello scricciolo capace di diventare, in un secondo, una leonessa furibonda.
Nei suoi occhi c’era tutto il furore della grande madre Coatlicue e tutta la dolcezza, tutta la seduzione di Ochiquetzal, la dea messicana delle arti e del piacere.
L’adorava, soprattutto quando si vestiva da tehuana come le donne splendide e regali che abitavano la regione sud-occidentale del Messico, adorne di merletti e gioielli magnifici.
Frida era brava. Questo vide Diego Rivera quando quello scricciolo gli sottopose i suoi lavori: aveva una straordinaria forza espressiva, una sensualità vitale, arricchita da una capacità di osservazione ricca di sensibilità, ma anche spietata.
Aveva la stoffa di una vera artista.
Se ne innamorò e si sposarono.
Diego dipingeva e viveva con passione; Frida dipingeva, soffriva e viveva con furore.
Le continue operazioni, i tentativi disperati di dipingere, facendo finta che il dolore non esistesse, la stremavano.
La sua pittura diventava sempre più intensa e consapevole, anche se le era difficile allontanarsi da se stessa: d’altronde era se stessa che conosceva più di qualunque altra cosa e il pennello era la barca con cui ripeteva il periplo della sua vita, continuamente.
E nella sua vita c’era Diego, il suo inizio, il suo sposo, il suo amante, il suo amico, suo padre, sua madre, suo figlio.
Amava poche altre cose semplici: gli animali, i bambini, i fiori, i paesaggi.
Diego, poco dopo il matrimonio, riprese ad amoreggiare con le altre.
Non sapeva resistere a nessuna donna e nessuna gli sembrava affascinante come quelle che non era opportuno desiderasse: per esempio Cristina, la sorella di Frida.
La corteggiò, divennero amanti.
Quando Frida lo scoprì le si spezzò il cuore. Li amava entrambi ed entrambi l’avevano tagliata fuori dal loro amore. Li odiava.
Chiese il divorzio, ma senza Diego era terribile vivere.
I dolori del corpo non cessavano né con l’alcool né con le medicine e ora c’era anche, devastante, quello dell’anima.
Un giorno trovò il suo cerbiatto, che aveva allevato da piccolo, ferito e sofferente. Qualche bambino doveva averlo colpito per dispetto o infantile crudeltà.
Sanguinava e solo Dio sa se Frida partecipava con compassione al suo dolore.
Riprese in mano i pennelli che aveva abbandonato da quando Diego se ne era andato.
Dipinse il cerbiatto con nove frecce conficcate nel corpo; dalle nove ferite sgorgava quel sangue che lei aveva visto scorrere tante volte dal suo proprio corpo martoriato.
Il cervo dipinto aveva due splendide corna giovanili e gli occhi, dolenti, profondi e consapevoli di tutto il dolore del mondo, si aprivano su un volto umano, quello di Frida Khalo.
Dedicò il quadro al cacciatore che aveva procurato quelle ferite e che, nonostante tutto, sarebbe rimasto per sempre suo marito, suo figlio, suo padre , suo fratello, il suo amante, il suo Diego. Per sempre.
Docente Bianca Campli
GIOTTO La grandezza di Giotto, il pittore fiorentino vissuto tra il 1267 e il 1337, è nota anche a coloro che non sono interessati all’arte figurativa, perché la sua fama è all’origine di aneddoti che si raccontano anche ai bambini ed è, quindi, indiscussa. E’ interessante, invece, sottolineare - in pochissime battute che consentano di cogliere il senso del mio racconto - a cosa si deve la sua grandezza. Il punto principale della svolta radicale, che il pittore ha impresso alla Storia dell’Arte, consiste nella rottura degli schemi figurativi medievali improntati ad un forte simbolismo e alla rappresentazione stereotipata del corpo umano, del volto e delle espressioni. Con Giotto, invece, la realtà e l’umanità irrompono nella pittura: lo spazio si riempie di architetture, di alberi veri (quanti ulivi nella sua pittura!), le persone si abbracciano, si toccano, parlano tra loro, sorridono e i volti corrispondono a questi gesti con espressioni mutevoli.
Infatti nell’ affresco con Anna e Gioacchino, inserito nel grande ciclo della Cappella degli Scrovegni, che Giotto dipinse per il ricco banchiere Enrico Scrovegni a Padova, tra il 1303 e il 1305, le donne che accompagnano Anna sorridono e i due vecchi coniugi si abbracciano, con gesti di profonda tenerezza e dedizione: è stato proprio questo condensato di umane emozioni, magistralmente raccontato con i colori, a farmi sempre amare questo particolare e a spingermi a scrivere il breve racconto che, spero, incontrerà il vostro gradimento.
LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI - PADOVA
Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d'oro - 1300/1303
Anna non vedeva Gioacchino da molto tempo. Era andato via, partito, esiliato, per placare lo scandalo che opprimeva i cuori dei due sposi che erano vissuti sempre con modestia e sobrietà, amandosi e accudendosi teneramente.
Gioacchino era andato tra i pastori a purificarsi da colpe che non aveva, ma che sentiva di avere perché così dicevano tutti: gli
amici, i parenti, il sacerdote nel Tempio .
Era sterile e cioè non amato da Dio.
Tra i pastori la vita era serena, immersa nel silenzio e nella contemplazione a cui l’accudimento del gregge lasciava ampio spazio.
Gli mancava Anna, però.
Non avere avuto figli aveva reso il loro rapporto ancora più stretto: erano stati loro due, i loro corpi la reciproca e comune consolazione. Avevano passato tanti anni assieme ed erano diventati vecchi- le teste canute lo ricordavano ad entrambi- eppure i loro corpi si cercavano ancora. Le spalle di Anna si erano leggermente incurvate, ma sembravano ancora più tenere da accarezzare; la barba di Gioacchino era sempre più bianca, ma ad Anna sembrava che rendesse ancora più desiderabile il calore rassicurante delle labbra che tante volte le avevano sfiorato la fronte e il corpo.
Anna si consolava come poteva. Le altre donne, famigliari e amiche, le facevano compagnia. Preparava il pane, pregava Dio di conservarle il suo Gioacchino, respirava felice l’aria della sera, pensando che quel cielo stellato era lo stesso che qualcun altro contemplava tra i pascoli lontani.
Poi, un giorno, sentì uno strano fremito sotto il seno: era come un leggero battito d’ali e le mise addosso una strana ansietà.
Si mise in attesa che si ripetesse, per poterlo meglio decifrare. Stesa sul letto aspettava. Ed ecco, ancora, la discesa dell’angelo.
Il fremito si ripeteva, qualcosa dentro di lei batteva le ali.
Le vennero in mente i racconti delle amiche, ascoltati prima con il desiderio e la certezza che anche per lei sarebbe accaduta la meraviglia che raccontavano, poi con invidia, infine con rassegnazione: lei non sarebbe mai stata madre, non avrebbe mai intravisto in un piccolo nato gli occhi amati del marito.
E ora, ora che i capelli erano bianchi, il seno avvizzito, i rimpianti addormentati, com’era possibile?
Eppure l’angelo batteva le ali e il fremito diventava nella sua gola gorgoglio di colomba e scoppiava in un’alternanza di allerta e giocondità. Sui monti Gioacchino non sapeva, ma una notte un angelo, le cui ali avevano destato il ventre di Anna, giunse a ventilare la notizia nei suoi sogni: doveva tornare a casa, c’era un’incredibile, straordinaria novità.
Gioacchino non perse tempo, non aveva che il suo corpo da riportare ad Anna e lei, spinta dall’amore che le regalava un passo di giovinetta, gli andò incontro. Gioacchino riabbracciò finalmente quelle spalle che aveva sfiorato tante volte e mentre Anna gli stringeva il volto e gli sfiorava le labbra gli sussurrò: nascerà una bambina, si chiamerà Maria.
All’annuncio la lietezza divampò nel cuore e dilagò nel cielo, fugandone tutte le nubi e inondò i volti delle compagne di Anna, cacciandone crucci e paure: questo vide Enrico Scrovegni quando, ammirato, spalancò gli occhi sugli affreschi di Giotto nella Cappella che avrebbe preso il suo nome.
Il pittore fiorentino aveva osato l’impossibile: aveva ridato vita ai palpiti ed alle tenerezze di un amore lontano, da cui sarebbe nata Maria, l’eletta tra le donne, la madre del figlio di Dio.
Docente Bianca Campli
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FRIDA KHALO
Frida Khalo è nata in Messico nel 1907 e lì è morta a soli 47 anni nel 1954.
Un terribile incidente, quando aveva soli 18 anni, le aveva spezzato la colonna vertebrale, costringendola ad estenuanti operazioni e a dolorosissime terapie.
Il suo spirito, tuttavia, rimase indomito e le fece amare con la stessa intensità la pittura e suo marito, il pittore, famosissimo in Messico, Diego Rivera.
La loro fu una relazione tormentata, a causa dei numerosissimi amori di Diego che corteggiava qualsiasi donna, pur amando e ammirando profondamente Frida, di cui sostenne sempre il grande talento.
Mi sembra che il quadro che ha ispirato il mio racconto “IL CERVO FERITO” del 1946 condensi questa relazione appassionata e dolente, e, come tutta la grande arte, la sublimi in un simbolo universale di innocenza tradita.
“IL CERVO FERITO”
La sensazione fisica di sentire che il sangue sta per erompere dal corpo, come fosse un fiume in piena, è sconvolgente. Proprio questo aveva avvertito Frida Khalo quando il suo corpo era stato letteralmente attraversato dal corrimano del tram sul quale viaggiava: aveva diciotto anni, era bella, intelligente, anticonformista e con una violenta voglia di vivere.
Dopo l’incidente continuò ad essere tutte queste cose, meno la prima. Non era bella, o a dir meglio non si sentiva più bella come prima. Non avrebbe più potuto correre a perdifiato, la sua colonna era spezzata in più punti e il dolore, d’ora in avanti, non l’avrebbe abbandonata mai più.
Eppure la voglia di vivere non passava, anche perché dopo l’incidente erano accadute due cose importanti: cominciò a dipingere e incontrò Diego Rivera, il suo amore, l’uomo della sua vita, il suo due volte marito. Anzi le due cose, ad un certo punto, si erano incastrate: aveva incontrato Diego, allora pittore famosissimo, mentre affrescava il Ministero della Pubblica Istruzione.
Era stata lei ad andarlo a cercare per fargli vedere i suoi dipinti e averne un parere.
Lei si innamorò di lui subito e non smise mai di amarlo, perché aveva due grandi occhi bovini, una grande pancia ed un grandissimo talento.
Lui era famoso, amava il cibo, il vino, l’arte e le donne, tutte le donne, perché ne adorava il fascino nascosto in ogni onda del vestito, in ogni nastro, in ogni sguardo furtivo, in ogni piega della pelle. E adorò subito quello scricciolo capace di diventare, in un secondo, una leonessa furibonda.
Nei suoi occhi c’era tutto il furore della grande madre Coatlicue e tutta la dolcezza, tutta la seduzione di Ochiquetzal, la dea messicana delle arti e del piacere.
L’adorava, soprattutto quando si vestiva da tehuana come le donne splendide e regali che abitavano la regione sud-occidentale del Messico, adorne di merletti e gioielli magnifici.
Frida era brava. Questo vide Diego Rivera quando quello scricciolo gli sottopose i suoi lavori: aveva una straordinaria forza espressiva, una sensualità vitale, arricchita da una capacità di osservazione ricca di sensibilità, ma anche spietata.
Aveva la stoffa di una vera artista.
Se ne innamorò e si sposarono.
Diego dipingeva e viveva con passione; Frida dipingeva, soffriva e viveva con furore.
Le continue operazioni, i tentativi disperati di dipingere, facendo finta che il dolore non esistesse, la stremavano.
La sua pittura diventava sempre più intensa e consapevole, anche se le era difficile allontanarsi da se stessa: d’altronde era se stessa che conosceva più di qualunque altra cosa e il pennello era la barca con cui ripeteva il periplo della sua vita, continuamente.
E nella sua vita c’era Diego, il suo inizio, il suo sposo, il suo amante, il suo amico, suo padre, sua madre, suo figlio.
Amava poche altre cose semplici: gli animali, i bambini, i fiori, i paesaggi.
Diego, poco dopo il matrimonio, riprese ad amoreggiare con le altre.
Non sapeva resistere a nessuna donna e nessuna gli sembrava affascinante come quelle che non era opportuno desiderasse: per esempio Cristina, la sorella di Frida.
La corteggiò, divennero amanti.
Quando Frida lo scoprì le si spezzò il cuore. Li amava entrambi ed entrambi l’avevano tagliata fuori dal loro amore. Li odiava.
Chiese il divorzio, ma senza Diego era terribile vivere.
I dolori del corpo non cessavano né con l’alcool né con le medicine e ora c’era anche, devastante, quello dell’anima.
Un giorno trovò il suo cerbiatto, che aveva allevato da piccolo, ferito e sofferente. Qualche bambino doveva averlo colpito per dispetto o infantile crudeltà.
Sanguinava e solo Dio sa se Frida partecipava con compassione al suo dolore.
Riprese in mano i pennelli che aveva abbandonato da quando Diego se ne era andato.
Dipinse il cerbiatto con nove frecce conficcate nel corpo; dalle nove ferite sgorgava quel sangue che lei aveva visto scorrere tante volte dal suo proprio corpo martoriato.
Il cervo dipinto aveva due splendide corna giovanili e gli occhi, dolenti, profondi e consapevoli di tutto il dolore del mondo, si aprivano su un volto umano, quello di Frida Khalo.
Dedicò il quadro al cacciatore che aveva procurato quelle ferite e che, nonostante tutto, sarebbe rimasto per sempre suo marito, suo figlio, suo padre , suo fratello, il suo amante, il suo Diego. Per sempre.
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