D'Annunzio (Ex Libris 1988 - Franco Dugo) |
Tra le numerose avventure amorose di Gabriele D’Annunzio c’è da includere quella, non andata a lieto fine, che ha avuto come mancata preda Vinca Sorge Delfico.
Gabriele D’Annunzio, appena sedicenne, se ne era invaghito perdutamente, durante una vacanza estiva sulla spiaggia di Montesilvano. Vinca era già sposata con Simone Sorge, a venti anni, nel 1881, andando ad abitare con il marito a Nereto.
La giovane donna era figlia di Filippo Delfico, di Teramo,
discendente dello storico e filosofo Melchiorre. I due compari di anello (Francesco Paolo Michetti fu testimone del Vate per le nozze con Maria Hardouini e Gabriele D’Annunzio, a sua volta, fu testimone, insieme a Luigi Luise, alle nozze di Michetti con Annunziata Carmignani) furono più volte ospiti della donna nella villa di Nereto, insieme ad altri intellettuali che frequentavano il “Cenacolo” di Francavilla. Anche Vinca spesso andava a Francavilla intrattenendosi in “lunghe conversazioni” come ricorda Paola Sorge nel suo libro “Sono dieci anni che vi giro intorno” (ed. Le impronte degli uccelli – Roma 2001).
Gabriele D’Annunzio invano si adoperò per ammaliare la “riservata e religiosissima donna” della quale si era invaghito e che non nascose nemmeno di definire come “la chimera più desiderabile”. A Vinca Sorge, peraltro, il Vate dedicava, mano a mano che venivano pubblicate, le sue opere di poesia e di letteratura.
Ne abbiamo traccia nell’annotazione sul frontespizio del romanzo “Il Piacere”, che porta la data del maggio 1889, con dedica aggiunta “Ciccillo Michetti che la saluta tanto tanto”.
Il romanzo, però, sembra che non andasse a genio, nonostante l’allettante dedica del Vate, alla donna perché, nella lettera che Vinca Sorge scrisse il 21 maggio 1889, in risposta all’invio del libro con dedica, sono scritte delle espressioni non certo lusinghiere per il contenuto scabroso del romanzo che narra una vicenda poco esaltante e troppo provinciale.
Alle espressioni di ringraziamento della Vinca susseguono altre ben chiare che suonano, come la donna stessa sottolinea testualmente: “Ma avrò tutta l’aria di farvi un predicozzo e forse vi secco”. Ma il rimprovero severo traspare dalle seguenti frasi: “Ma perché scrivete voi di questi libri? Un giorno dovrete renderne conto a Dio; io ve lo dico. E come farete allora? Dovrete rendere conto de’ vostri talenti così bassamente spesi, dovrete render conto del male incalcolabile che fate. Nel vostro romanzo vi sono molte cose vere, perfettamente vere, analisi sottili meravigliose, immagini stupende, erudizione profonda, e per la forma è un gioiello purissimo. Ne brillerà ne’ secoli. Ma debbo ripetere, perché la vostra penna che potrebbe sollevarsi altissima, la degradate così costretta, incessantemente nella misura la più triste?… Io non so capire come siete voi… chi vi ha traviato così! Come potete vivere perennemente in una atmosfera corrotta… io non vi capisco”. Evidentemente questa lettera convinse Gabriele D’Annunzio a desistere dalle sue avances per non incorrere in più atroci giudizi non solo epistolari e non limitati al contenuto delle sue opere.
Giuseppe Catania
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