di Lino
Spadaccini
Al
fortunatissimo anno, ricco di glorie e successi personali, il Rossetti aggiunge
la classica ciliegina sulla torta, con la pubblicazione di una tragedia, S.
Gavino, rappresentata per la prima volta il 29 novembre del 1800 e
replicata per cinque volte, all’interno della Chiesa dei Cavalieri (l'odierna
chiesa di S.Giacomo) a Sassari, dove, per l’occasione, una parte del tempio
cristiano viene trasformato in teatro.
La tragedia,
pubblicata nel 1801 dalla Azzati di Sassari (ristampata nel 1885 dal Tipografo
Uras di Oristano), è composta da un proemio e cinque atti, accompagnato da
esaustive annotazioni. L'operaè dedicata a Sua Altezza Reale Placido Benedetto
di Savoia, conte di Moriana, generale delle
regie armate e Governatore della Città e del Capo di Sassari e Logudoro.
regie armate e Governatore della Città e del Capo di Sassari e Logudoro.
L’azione si
svolge nella città di Torres, l’odierna Porto Torres. Siamo nell’anno 290
quando a Roma il Sommo Pontefice, S. Cajo, nomina Vescovo Proto, e diacono
Gianuario. I due servi della chiesa vengono spediti al Turritano lor suolo
natio per diffondere la dottrina cristiana.
Anche
nell’isola sarda, come in tutte le colonie romane, infieriva la persecuzione di
Diocleziano per mano del pretore romano Barbaro. Quest’ultimo, informato della
predicazione di Proto e di Gianuario, li fa arrestare e rinchiudere, sottoposti
all’attacco di fiere e velenose serpi, e per farli convertire ai
loro Dei paganiLi astringi ad adorarli, e chiunque ardisse / O di ostinarsi,
o ripugnare, sia / Dopo mille tormenti, e mille strazii / Condannato a morir
barbaramente.
Saputo che i
due cristiani sono ancora in vita, Barbaro li fa rinchiudere in una tetra
prigione, costretti a torture spietate:
Stridersi
sotto l’infocate lastre,
Da pettini
di ferro poi stracciarsi,
Volgersi da
tenaglie; eculei, e ruote
Farò mettere
in opra, ed altri molti
Ordigni di
dolor, per prolungare
Quanto si
può lor morte. Oh, quai saranno
I lor
contorcimenti, gli urli, i pianti,
I gemiti, i
sospiri, e le preghiere!
Gli occhi di
Barbaro sono pieni di ira e odio:
Qual follia
maggior! Due Cristiani,
Miserabili
insetti agli occhi miei,
Opporsi ai
miei voler! Sedure in parte
Gli adorator
degli Dei! Vedrò, se in mezzo
A fieri
spasmi, e a crude pene, avranno
L’istesso
insovvertibile ardimento,
E se una
morte vergognosa, e infame
Verrà a
sottrarli il lor sognato Iddio.
La sorte di
Proto e Gianuario è affidata a Gavino, cavaliere romano dell’illustre famiglia
dei Sabelli, comandante delle truppe imperiali. A contatto con i suoi "prigionieri",
a Gavino cadono tutte le certezze sugli Dei pagani: comincia a pensare al venerabil
Vescovo e inizia una riflessione interiore che lo porta a dubitare delle
sue vecchie convinzioni: ...Gavino, / Dubiti forse, che ci siano i Numi?/ A
che negarlo, sì, la mia credenza / È vacillante già...
Gavino
osserva i prigionieri e comincia a commuoversi ed a provar un senso di pena per
loro:
Nò Barbaro
non v’è! Dove son io?
Ho la mente
sì ingombra di stupore,
Che temo di
sognar! Chi vide mai
Prodigio
egual? Un giovinetto, un vecchio,
Tenero l’un,
l’altro canuto e lasso
Resistere
così? Mentre le carni
Lor
straziavan le tenaglie, mentre
Stridevano,
fumavano le spalle
Sotto le
rosse scintillanti lastre
Non alzarono
un grido di dolore!
Negli occhi
lor nemmeno piccola goccia
Di pianto
aparve; ma al contrario liete
Avean le
luci, e lor brillava in volto
Un sorriso
di gioia! quante lodi
Non
cantarono ancora al loro Dio!
Ah! Chi son
questi, o Dei, che vincer sanno
Sì
facilmente la natura istessa,
Ed esultano
più nei tormenti,
Che nei
piacer?...
Spinto dal
desiderio di capire meglio la natura straordinaria dei due uomini, Gavino
decide di incontrarli per vedere se il loro Dio è più forte degli Dei pagani: Alle
Carceri andrò... contro il lor Dio/ Disputerò... ma, se sarò convinto?/ Allora
e che farò?... sarò Cristiano.
Quando
Gavino si trova faccia a faccia col Vescovo, rimane sorpreso che l’uomo aveva
già letto nel suo cuore: ... L’alma / Non vi si agita tutta? Non sentite /
Una voce potente entro di voi / Che vi parla, convince e persuade, / D’abbandonare
i vostri Dei, / E di farvi Cristian?
Gavino è
sconvolto, cerca di ribattere alle affermazioni del Vescovo, ma le sue parole
sono prive di forza e di convinzione ed alla fine cede: Non più, non più,
son vinto. / Eccomi a’ piedi tuoi, e ai tuoi voleri / Padre, Fratello, Amico...,
e senza esitazione chiede di essere battezzato, e quindi libera i prigionieri.
La scena si
fa, attimo dopo attimo, sempre più drammatica: quando Gavino si trova davanti a
Barbaro per confessargli la propria conversione, emette la sua sentenza di
morte:
Barbaro: Dicesti?
Udii. Or che attendi da me?
Gavino: Morte.
Barbaro: L’avrai.
Giulia,
sorella di Barbaro e innamorata di Gavino, ascoltando quelle tragiche parole si
butta in ginocchio ai piedi del fratello e lo prega di ritornare sulla propria
decisione, offrendosi come vittima da sacrificare.
Barbaro non
vuol sentire ragioni e ordina che Gavino venga cinto di catene e trascinato
fuori della città fino al Monte Balai per essere decapitato.
Siamo giunti
all’ultimo atto. La tragedia sta per consumarsi. Gavino, come ordinato, viene
trascinato fuori della mura, ma la popolazione, davanti a quello strazio,
insorge contro i carcerieri e tenta in tutti i modi di liberarlo. Gavino è
cosciente di quello che lo attende, ma la preghiera è la sua forza: per tutto
il percorso non smette mai di invocare il Signore ad alta voce, convertendo i
cuori della gente.
Arrivato sul
luogo della decapitazione, s’inginocchia, con lo sguardo sereno rivolto al
cielo. A questo punto si consuma il martirio palesando a tutto il popolo la sua
forza salvifica: il martire appare a Proto e Gianuario nel loro nascondiglio e
li esorta ad uscire allo scoperto.
Siamo giunti
alla conclusione del dramma. Una comparsa introduce un bacile con la testa di
Gavino (Ecco, o signore, / L’empia testa
recisa). Alla sua vista Oppiano, che scopre di essere fratello di Gavino,
scoppia in pianto: Oh Ciel che veggio, / Che spettacol crudele! Ah, mio
fratello! Giulia, vinta dalla disperazione prende un pugnale e si ferisce a
morte: Io cesso finalmente / Di più vedervi, orrore di natura, / Nulla a
bramar vi resta. Omai fastoso / Andar potete di voi stesso... O Dei! / Già mi
si ecclissa il giorno... io manco... moro.
Durante
l’anno successivo, il Rossetti pubblica altre quattro poesie equamente divise
tra i torchi di Antonio Azzati e per Il Polo: mentre la prima ricalca la poesia
encomiastica, già utilizzata più volte dal Rossetti, questa volta prendendo
come pretesto la partenza da Sassari del Vicerè Carlo Felice, le altre sono di
carattere religioso, scritte per la festa della Santissima Vergine Addolorata,
per la processione del Giovedì Santo e per la processione del Venerdì Santo.
Anche per il
1802 l’attività poetica del Rossetti è molto produttiva: per le nozze di Don
Serafino De-Candia, nativo di Torre del Greco, cavaliere dell’ordine militare
dei SS. Maurizio e Lazzaro, con Marietta De-Cize, il Rossetti offre un canto
epitelamico formato da trentotto ottave, con il metro ABABABCC, lo stesso già
usato per La superbia de’ Galli punita.
Lo stile del
canto risente ancora degli influssi arcadici: Marte, Imeneo, Giove, Amor e
Venere sono alcuni dei personaggi allegorici provenienti dalla mitologia
classica, per rendere omaggio al «Grande
Eroe fra le guerriere classi» e alla sua gentile sposa, descritta con
minuzia e dovizia di particolare, quasi a renderla presente e reale; una
bellezza unica, che al dir del Rossetti non
ha pari al Mondo:
Maria così gentile, e ben formata,
Che non pinse l’eguale Apel nemmeno,
Che ha bionda chioma lunga, e
inanellata,
Che tien negli occhj un doppio Sol
sereno,
Che ha eburnea fronte, e gota
delicata,
Che ha il naso in bel profil
perfetto appieno,
Che ha amabil riso, e sì leggiadro
il labro,
Che brilla del natìo puro cinabro.
Entro la bocca sonvi elette perle
In due simmetrici ordini divise,
S’innamora chiunque nel vederle;
Natura in farle ogni lavor vi mise.
Così vezzose, e peregrine averle
A verun altra Ninfa ella permise.
E poiché grazie anche più rare
vanta,
Se tace alletta, e se ragiona
incanta.
Bianco è il rotolo del collo, il sen
di latte,
Giusta misura han le tornite
braccia;
Son le candide mani assai ben fatte,
In cui di rosee vene appar la
traccia,
Ma non eccede, neo non havvi, e
intatte
Son l’altre membra, che il candore
allaccia;
Agile, breve, e ritondetto è il
piede,
Che nel danzar quasi neppu si vede.
Dello stesso
anno è il sonetto scritto per il parto della signora D. Lucia Pilo-Boyl dei
Marchesi di Putigari. Il sonetto è senza data e senza indicazione tipografica.
I torchi sono riconducibili a quelli di Antonio Azzati, mentre per quanto
riguarda la datazione è sicuramente il 1802, in quanto le decorazioni usate per
la prima lettera sono differenti da quelle utilizzate nel 1800 e nel 1801,
mentre sono identici agli ornamenti usati nel 1802 per la Descrizione del magnifico catafalco per la Regina di Sardegna Maria
Clotilde Adelaide.
L’opera
appena citata è l’ultima fatica stampata dal Rossetti in terra sarda.
L’occasione gli viene data dai sontuosi funerali celebrati a Sassari, nella
Chiesa Metropolita, per la defunta Regina di Sardegna Maria Clotilde Adelaide,
volata in cielo all’età di 42 anni, il giorno 7 marzo, dopo una grave malattia.
Nata il 23
settembre 1759 nel castello di Versailles da Luigi Delfino di Francia e dalla
principessa Maria Giuseppina di Sassonia, Maria Clotilde all’età di 16 anni
andò in sposa al principe ereditario di Piemonte Carlo Emanuele. La vita di
Maria Clotilde fu caratterizzata da un forte attaccamento alle cose dello
spirito tanto che, nel 1808, sei anni dopo la sua morte, il papa Pio VII la
dichiarò venerabile e introdusse la causa di beatificazione.
L’opera del
Rossetti si compone di un elogio, dove
il poeta evidenzia le virtù della defunta,seguito dalla descrizione del
catafalco innalzato nella Chiesa Metropolita di Sassari, su disegno di Leonardo
Pruner, direttore del Museo di Cagliari. L'esposizione fatta dal Rossetti è minuziosa
e ricca di dettagli. Questa l’ultima parte della descrizione:«Terminava il surriferito quadrato con una
quantità di faci, e vasi illuminati, in mezzo ai quali sorgeva la bellissima
Urna Augusta, ai di cui quattro lati stavano altrettanti Genii, che dinotavano
le quattro virtù Cardinali. Intorno all’Urna si vedevano dipinti i Stemmi Reali
Gallico, Sardo, e Sabaudo. Un ampio velo nero si stendeva sul coperchio di
quella, sotto di cui, ma propriamente nel mezzo, grandeggiava il Regio Diadema,
e un Gran Baldacchino bruno pendeva al di sopra di questo…».
Chiude il
volumetto un Sonetto dedicato alla memoria della venerabile:
Un Aquila Real da turbin fiero
Combattuta vid’io, e in mille
affanni,
Come qualora il misero Nocchiero
Scansar non puote del Naufragio i
danni.
Fra lampi, e tuoni, e pioggia, e
l’aer nero
Pur non dispera; anzi animati i
vanni,
Vola, squarciando il torbido
emisfero,
Al sol che splende su gli eterei
scanni
In quella fissa immobilmente i rai
Paga, e contenta in ogni suo desio,
Né più rammenta, che ha sofferto
assai.
È l’Aquila ADELAIDE; il turbin rio
Era una vita di tristezze, e guai;
E il Sol, nel quale ora si specchia,
è DIO.
Le glorie
del Rossetti in terra sarda non finiscono qui. Nel tempio di Santa Caterina a
Sassari, dove si sono radunati circa duemila giovani studenti, alla presenza
del Principe Carlo Felice, per fare «pubblica lettura di varj componimenti
in versi italiani e latini»,
invitato dal Principe stesso ad improvvisare, il Rossetti, davanti allo stupore
ed all’incredulità dei presenti, verseggia in ottava rima, riepilogando tutte
le poesie precedentemente ascoltate.
Una delle
rare voci fuori dal coro è rappresentata dalla critica mossa dallo scrittore
Carlo Calcaterra, il quale inserisce di diritto alcune poesie scritte dal
Rossetti nel suo libro sulla storia della poesia frugoniana, ovvero quel
componimentofatto di molte parole senza un’effettiva sostanza di pensieri.
Come
riferisce lo stesso Rossetti, il soggiorno nell’isola Sarda dura due anni e
mezzo. Sono stati anni di sicuro arricchimento personale e culturale che lo
hanno portato a contatto con i principali personaggi della cultura sarda del
tempo. Il Rossetti sarà sempre riconoscente a questa terra, e alcuni anni più
tardi non si vergognerà di difenderla a spada tratta, come quando in alcune
pagine de La Grotta (1804), scriverà: «Per altro alcuni Scrittori, ch’io per un
certo riguardo non nomino, hanno dipinti i Sardi, come un popolo barbaro ed
ignorante, ed incapace di esser commosso dai discorsi della filosofia, e della
ragione...Io non ho scorto in quell’isola segno alcuno di barbarie in verun
abitante». Sempre tra le annotazioni riportate ne La Grotta, ricorderà
con piacere tutti gli illustri letterari con cui ha conversato, dissertato e
condiviso la passione poetica: D. Diego Cadello, Arcivescovo di Cagliari, D.
Gavino Murro, Vescovo prima di Bosa e successivamente di Alghero, D. Pietro
Luigi Fontana, Giudice della Reale Udienza di Sassari, D. Giuseppe Belly,
criminalista e avvocato fiscale, D. Giuseppe Valentini, reggente della città di
Sassari.
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