martedì 12 luglio 2016

Domenico Rossetti (2^ puntata): arriva Napoleone, il letterato vastese è in Toscana

Viene liberato il Granducato, Rossetti scrive "La superbia de’ Galli punita"
 di Lino Spadaccini

La situazione politica in Italia, alla fine del Settecento, non fu delle più tranquille e spinsero il giovane Domenico Rossetti ad un continuo peregrinare verso altri stati europei, tra i quali Francia e Spagna.
Come conseguenza della rivoluzione francese e delle sue mire espansionistiche, nel 1796 l’esercito francese intraprese una campagna militare per la conquista dell’Italia. Per dirigere le operazioni militari nel nostro paese, venne inviato un giovane generale di 27 anni: Napoleone Bonaparte.
Agli inizi del 1799, l’esercito francese occupò tutti gli stati italiani ad esclusione del Granducato di Toscana, che aveva dichiarato la propria neutralità; ma il 24 marzo successivo, i francesi aprirono le ostilità e si prepararono all’invasione. Il granduca Ferdinando III fu costretto all'esilio a Vienna, mentre la Toscana venne sottoposta direttamente al governo della Repubblica francese.
Facciamo un salto sull’Isola d’Elba, dove ritroviamo il nostro Domenico Rossetti.
Alla fine di marzo, venne inviata una delegazione francese a Portoferraio per comunicare, al comandante
della fortezza, il passaggio dal governo granducale a quello repubblicano. Mentre i magistrati e i maggiorenti dell’isola decisero di sottomettersi, non fu così per il popolo e per le stesse truppe austriache, ancora di presidio, decisi ad opporre una strenua resistenza anche in mancanza di armi e cibo. Dopo un inutile massacro di uomini, alla fine, fu la bandiera francese a sventolare su Portoferraio.
Forse è proprio in questa prima fase che entrò in scena il Rossetti. «I Signori Rafin e Monserrat comandanti francesi – riferisce il Rossetti nelle notizie autobiografiche – tennero consiglio co’ Signori Fratelli Vantini e colle altre principali Autorità, e saggiamente stabilirono di scegliere una persona coraggiosa, eloquente e di prudenza fornita, che a disinganno di quelle popolazioni parlasse, tra loro recandosi rivestita de’ convenienti poteri. Rivolsero unanimamente lo sguardo al nostro Autore, il quale da quindici giorni dimorava in quella città; ed egli, cui assai doleva del male dell’Umanità e dello spargimento di tanto sangue, andò intrepidamente ne’ due comuni di Sant’Ilario e di S. Pietro in qualità di parlamentario e di oratore, ove mettendo in opera un eloquente e saldo ragionare, vinse quelle istizzite genti ad udirlo accolte, e docili e obbedienti al nuovo governo le sottomise».
Purtroppo, però, i fatti presero subito una direzione diversa. Il primo di aprile, un migliaio di francesi sbarcarono nell’isola per rinforzare le guarnigioni esistenti, provocando l’indignazione e l’insurrezione di tutta la popolazione isolana, i quali liberarono quattrocento galeotti rinchiusi nel penitenziario di Porto Longone e respinsero con determinazione le truppe francesi.
La battaglia fu cruenta: centinaia furono i morti sul campo, soprattutto per le pesanti rappresaglie dell’esercito d’oltralpe nei pressi di Sant’Ilario e San Pietro, ma anche i francesi subirono forti perdite sotto il fuoco sempre più unito e organizzato degli isolani.
L’invasione francese costò inutili e ingenti perdite di vite umane, che provocarono lo sdegno, ma anche una forte reazione del popolo italiano, il quale cominciò a pensare anche alla realizzazione dell’unità nazionale.
All’inizio di maggio si diffusero ad Arezzo voci che davano per imminente l’arrivo di un esercito liberatore austro-russo. La mattina del 6 maggio tutta la città e le campagne limitrofe insorsero al grido di Viva Maria, Viva Gesù, Viva Ferdinando III. Il popolo scese in piazza incitato soprattutto dal clero: l’albero della libertà venne dato alle fiamme e cominciò la caccia al giacobino. Il 14 maggio, nella battaglia di Rigutino, località vicino Arezzo, i francesi subirono una pesante sconfitta e furono costretti a riparare verso territori ancora occupati.
La notizia della vittoria si diffuse presto in tutta la Toscana. La voglia di libertà provocò nell’animo della popolazione un deciso moto d’orgoglio: molti volontari si arruolarono nell’esercito aretino, il quale arrivò a contare fino a cinquantamila effettivi.
Il 4 luglio i francesi lasciarono Firenze, assediata dalle truppe aretine e via via tutte le altre città del granducato vennero liberate.
Anche sull’Isola d’Elba i francesi incontrano un’inaspettata resistenza e, dopo aspri combattimenti, il Monserrat, comandante del presidio di Portoferraio, fu costretto a cedere. La resa venne firmata nella Chiesa di S. Rocco nel luglio del 1799. Così Portoferraio fu per breve tempo occupato dalle truppe napoletane, che effettuarono rappresaglie e ritorsioni su coloro che avevano accolto i francesi.
In questa situazione di disordine e confusione, che vide come conseguenza il proliferare dei briganti, che in nome della "Santa Fede" estorcevano tributi e tagliavano le teste, approfittò l’asse austro-russo, che in poco tempo si assicurò la Lombardia, l’Emilia ed il Piemonte; questo grazie anche alla mancata resistenza del popolo, che vedeva negli austro-russi, i liberatori dell’Italia dall’oppressione francese.
In questo periodo dove alto era il senso di patriottismo, dove si formò una nuova classe intellettuale in cui maturarono nuove idee di libertà e di unità, nacque un nuovo fervore poetico dove vennero raccontate con enfasi le speranze, le battaglie e le vittorie per il raggiungimento della libertà; possiamo dire che ci troviamo davanti ad un’anticipazione della letteratura patriottica che avrà la sua massima espressione alcuni anni più tardi, dove tra i protagonisti ritroviamo proprio Gabriele Rossetti, fratello di Domenico. In questo movimento letterario, oltre ai più famosi Parini e Monti, si inserisce prepotentemente anche Domenico Rossetti.

Lasciata l’Isola d’Elba, Domenico rimase in Toscana e visse a pieno quei tragici avvenimenti, che portarono fino alla liberazione del Granducato, e con animo lucido e decisamente ispirato diede vita a La superbia de’ Galli punita, un canto estemporaneo firmato con lo pseudonimo di StitemeniosVeldacodrotos, anagramma di Domenico Rossetti del Vasto.
Dell’opera del Rossetti si conservano due edizioni, pubblicate tra l'estate de la fine del 1799, la prima stampata a Pisa, per i tipi di Antonio Peverata, e la seconda inserita in una raccolta di poesie, pubblicata a Firenze, come segno di ringraziamento all’esercito austro-russo, ed in particolare al generale Suvorov, per aver liberato l’Italia.
L’edizione pisana è composta dal canto estemporaneo seguito da altri due sonetti In occasione della consolante notizia della presa di Roma, e Per la felice nuova della resa di Mantova, senza l’indicazione dell’autore, ma senz’altro da attribuire allo stesso Rossetti.
Nella nota di presentazione, lo stampatore si rivolge al lettore: «Le consolanti notizie ricevute in pochi giorni della liberazione di Napoli, della salvezza di Roma, della Rigenerazione della nostra Toscana… hanno elettrizzato in tal maniera un’improvvisatore, che estemporaneamente fece un bel lungo canto, nel quale tutte vengono, e colla massima esattezza compendiate le vicende delle mentovate Città, e Potenze, e la loro sorte. Il un’elogio del medesimo sarebbe inutile essendo ben noto alla Repubblica Letteraria, e Socio di più illustri Accademie. L’opera porta in fronte il di lui nome anagrammatico, ch’è StitemeniosVeldacodrotos. Il giudizio della sua bellezza, e delle sue grazie si appartiene agl’intendenti della Poesia, e delle belle lettere…».
L’edizione fiorentina, al contrario della prima, è un’antologia di componimenti vari con l’aggiunta del poemetto del Rossetti, messa ben in risalto dal tipografo, che non si risparmia negli elogi: «In ultimo luogo – precisa lo stampatore nella presentazione dell’opera – hò creduto bene di porre un Poemetto estemporaneo, di uno dei più bei geni Italiani, che contiene un allegoria piacevole: che fa conoscere di che cosa sia capace l’autore, allorché scriver voglia con presentimento, e ponderazione. Lo stile berniesco con cui è scritto, servir potrà di chiaro scuro all’altre composizioni Eroiche, che lo precedono».
Le altre composizioni presenti nel volume sono l’ode, che da il titolo al volumetto, opera di Giovan Battista Tavanti, un sonetto di Vincenzo Monti, due sonetti di Gaetano Capponi e dell’avvocato Verdiano Francioli, ottave di Pietro Bagnoli e per finire, ancora un sonetto senza l’indicazione dell’autore, dal titolo Per la consolante notizia della presa di Roma, la stessa presente nell’edizione pisana, come già detto riconducibile senz’altro al Rossetti.
Il componimento del Rossetti è formato da cinquantasei ottave con lo schema tipico dell’ottava toscana, ovvero una strofa composta da otto endecasillabi rimati, che seguono lo schema ABABABCC, con i primi sei endecasillabi a rime alternate, e gli ultimi due a rima baciata.
Ci troviamo davanti ad un Rossetti decisamente ispirato, capace di fotografare, attraverso un godibile canto allegorico, gli eventi che hanno portato alla cacciata dei francesi.

Allo spuntar dell’Oriente il giorno,
Che lasciansi le pinme in abbandono,
Molti giovani Galli al grano intorno
Avidi stean mangiando, e poiché sono
Rissosi, ed aman farsi oltraggio, e scorno
Nell’imbeccarne l’uno il pieno, il buono,
L’altro l’adocchia, e per rubarglielo, ecco,
Che il becco gl’introduce entro del becco.

Quello si sforza ritenerlo forte,
Ma alfin lo lascia, e l’altro l’inghiottisce,
Per vendicarsi il primo, e dargli morte
Più volte con il becco lo ferisce,
Il secondo si volta, e in guise accorte
Da colpi ulteriori si schermisce,
E l’ali aperte, e il collo gonfio, aspetta
La mossa ostil per muoversi con fretta.

Perdon, vincono, ed incita il dolore
A nuovo scontro i Galli inviperiti,
Ergon le creste altere, e con furore
Saltano a un tempo istesso, e son colpiti,
Pugnano gl’altri in simile tenore,
E si tarpano ben coi colpi arditi,
Ma passa il tempo, e passa più d’un ora,
E la guerra de’ Galli dura ancora.

I Galli, sono il nemico dichiarato, quel popolo rissoso venuto nel nostro paese come dominatore, ma un’Aquila passa in volo e getta lo sguardo severo sui Galli. L’Aquila, probabilmente Ferdinando III, il re di tutti i volatili, mostra tutta la sua forza e minaccia di far pentire i Galli di tanto orgoglio.
Un Gallo ribelle esce dal gruppo e non ha paura di affrontare il Re:
Tu che pretendi, o bestia altera, e infesta, / Uccellaccio deforme, e maledetto? / Che Re? Che pene? Di che mai favelli? / Re sarai delli Gufi, e Pipistrelli. / Oppur comandi sopra le Civette, E sopra li vigliacchi Barbagianni; / Scarica il tuo furor, vibra saette, / E procura di farci tutti i danni, / Che noi (per dirla con parole schiette) / Ci ridiamo di te, se ci condanni, / Ed a lungo con noi non si contrasta, / Rifletti, che siam Galli, e tanto basta.
Gli altri approvano e cominciano  a darsi beffe del Re invitandolo ad andarsene (chiaro invito al Re a lasciare Firenze), altrimenti ti romperem sul capo la corona.
Il Rossetti descrive il Gallo come un animale presuntuoso e pieno di sé, dall’occhio vivace e attento, col portamento signorile, che mostra in tutta la sua bellezza l’ampio petto, energico e virile, ali e cosce ben fatte e piedi gentili, in pratica Natura non può far di più perfetto. Anche fra gli uomini i Galli hanno una grande stima, e molti popoli si sono piegati davanti alla loro potenza e Ognor più s’ingrandisce, ognor più puole, / E in breve giungerà pur la sua gloria, / Fin dove spunta, e ove tramonta il Sole…
L’Aquila ascolta in silenzio, quasi indifferente e guarda i Galli con un leggero sorriso, quasi in segno di un felice presagio.
Si avvicina all’Aquila una gentile Passerina e cinguettando porta importanti notizie: Da Napoli ne vengo, e con diletto / Più d’un Gallo vid’io disteso, e morto; / Quella gente formato un stuolo eletto / Ha vendicato alfin il regio torto, / E di taglienti accette ai colpi spessi / L’Albero cadde sopra i Galli stessi. Molti Galli cercano di opporre una strenua resistenza: molti vengono fatti prigionieri,  altri vengono feriti o cadono sul campo. Un frate forte e coraggioso si distingue in particolare, il suo nome è fra Diavolo, che grazie alla sua furbizia, riesce a sconfiggere più volte i francesi in varie imboscate.
Dopo il racconto della Passerina, un maestoso Pavone si avvicina al Re, s’inchina e annuncia che Firenze e tutta la Toscana sono finalmente libere: solo a sentire il nome di Austriaci e Aretini, i Galli per la paura grande e veemente, fuggono oltre i confini come timide lepri innanzi ai cani. Tra la popolazione è tornata la gioia e la serenità e le madri baciano l’innocenti figli.
Mentre il Pavone termina il suo racconto, si avvicina una Beccaccia e annuncia un grande evento: Mantova è resa. Prosegue: Di cento, e più cannoni il vivo fuoco, / E dal rumore l’orecchio destro ho sordo; / Fiamme, e fumo era l’aria a poco a poco / E lo stuolo de’ Galli empio, e balordo, / Dopo tre giorni alfin ceder dovette, / Perché ognor più incalzavano le strette. / Il nome tuo glorioso alto risuona / Nella Cittade, ed i trofei son teco, / E d’applausi alle voci ognorrintruona, / E ripete il tuo nome un nobil eco; / Più splende or la tua fulgida corona…
Mentre l’Aquila gode a sentire le parole del Pavone, sopraggiunge un Colombo, dalle piume bianchissime, che annuncia la liberazione di Roma, seguito da un Corvo dall’aspetto poco invitante. Ripreso dall’affanno del faticoso viaggio, il pennuto nero racconta di provenire da Genova dove si è combattuta una tremenda guerra, che forse l’egual non fuvvi in terra: cinquantamila Galli armati e disperati si opposero, senza trovare scampo, contro i guerrieri austriaci, Ma per gli Austri decise alfin la sorte, / E i Galli ebbero insiem perdita, e morte.
L’ultima novella è di una vivace Rondinella proveniente dal lontano Egitto, che annuncia la sconfitta di Napoleone: Io gli ho veduti, e nulla ometto, o celo, / Bonaparte tremava non affann., / Ed i Galli dicean sebbene armati / Miseri noi sarem tutti impalati. / Molti di lor perirono in battaglia, / Ed a Maometto il sangue lor fu offerto; / E i corpi marci di sì rea canaglia / Fur cibo d’avoltoi nel campo aperto…
Dopo aver ascoltato attentamente i messaggeri, l’Aquila guarda con ironia i Galli, che fino a poco prima lo avevano schernito e dice: Or più non celebrate, e la vittoria ? / Ma compire vogl’io la vostra gloria… Quindi, chiama a raccolta tutti i suoi sudditi (Sparvieri, Cuculi, Fregioli, Nibbj, Tordi, ecc.) che gli si schierano davanti, ed emette la sentenza: …popol mio diletto, e caro / Giudici voi ne siate competenti, / È in vostra man la pena, od il perdono, / Fate ciò che vi par: io torno al trono. E qui si consuma la tragica fine dei Galli: Sopra de’ Galli smorti, e impauriti / Piomban gli Augei furiosi a cento a cento / E nel corpo gli fan buchi infiniti / Coi becchi, e con l’artigli a lor talento / E Chi la cresta mangia, e chi i squisiti / Bargilli, ed altri l’ali, altri le cosce, E morirono in mezzo a tante angosce.
Qui termina il canto estemporaneo, come spiega il Rossetti, negli ultimi due endecasillabi Lettor, tu sai, che in favola, o mistero / Spesso com’ora si contiene in vero.











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