Viene liberato il Granducato, Rossetti scrive "La superbia de’ Galli punita"
di Lino
Spadaccini
La
situazione politica in Italia, alla fine del Settecento, non fu delle più
tranquille e spinsero il giovane Domenico Rossetti ad un continuo peregrinare
verso altri stati europei, tra i quali Francia e Spagna.
Come
conseguenza della rivoluzione francese e delle sue mire espansionistiche, nel
1796 l’esercito francese intraprese una campagna militare per la conquista
dell’Italia. Per dirigere le operazioni militari nel nostro paese, venne
inviato un giovane generale di 27 anni: Napoleone Bonaparte.
Agli inizi
del 1799, l’esercito francese occupò tutti gli stati italiani ad esclusione del
Granducato di Toscana, che aveva dichiarato la propria neutralità; ma il 24
marzo successivo, i francesi aprirono le ostilità e si prepararono all’invasione.
Il granduca Ferdinando III fu costretto all'esilio a Vienna,
mentre la Toscana venne sottoposta direttamente al governo della Repubblica
francese.
Facciamo un
salto sull’Isola d’Elba, dove ritroviamo il nostro Domenico Rossetti.
Alla fine di
marzo, venne inviata una delegazione francese a Portoferraio per comunicare, al
comandante
della fortezza, il passaggio dal governo granducale a quello
repubblicano. Mentre i magistrati e i maggiorenti dell’isola decisero di
sottomettersi, non fu così per il popolo e per le stesse truppe austriache,
ancora di presidio, decisi ad opporre una strenua resistenza anche in mancanza
di armi e cibo. Dopo un inutile massacro di uomini, alla fine, fu la bandiera
francese a sventolare su Portoferraio.
Forse è proprio
in questa prima fase che entrò in scena il Rossetti. «I Signori Rafin e Monserrat comandanti francesi – riferisce il
Rossetti nelle notizie autobiografiche – tennero
consiglio co’ Signori Fratelli Vantini e colle altre principali Autorità, e
saggiamente stabilirono di scegliere una persona coraggiosa, eloquente e di
prudenza fornita, che a disinganno di quelle popolazioni parlasse, tra loro
recandosi rivestita de’ convenienti poteri. Rivolsero unanimamente lo sguardo
al nostro Autore, il quale da quindici giorni dimorava in quella città; ed
egli, cui assai doleva del male dell’Umanità e dello spargimento di tanto
sangue, andò intrepidamente ne’ due comuni di Sant’Ilario e di S. Pietro in
qualità di parlamentario e di oratore, ove mettendo in opera un eloquente e saldo
ragionare, vinse quelle istizzite genti ad udirlo accolte, e docili e
obbedienti al nuovo governo le sottomise».
Purtroppo,
però, i fatti presero subito una direzione diversa. Il primo di aprile, un
migliaio di francesi sbarcarono nell’isola per rinforzare le guarnigioni
esistenti, provocando l’indignazione e l’insurrezione di tutta la popolazione
isolana, i quali liberarono quattrocento galeotti rinchiusi nel penitenziario
di Porto Longone e respinsero con determinazione le truppe francesi.
La battaglia
fu cruenta: centinaia furono i morti sul campo, soprattutto per le pesanti
rappresaglie dell’esercito d’oltralpe nei pressi di Sant’Ilario e San Pietro,
ma anche i francesi subirono forti perdite sotto il fuoco sempre più unito e
organizzato degli isolani.
L’invasione
francese costò inutili e ingenti perdite di vite umane, che provocarono lo
sdegno, ma anche una forte reazione del popolo italiano, il quale cominciò a
pensare anche alla realizzazione dell’unità nazionale.
All’inizio
di maggio si diffusero ad Arezzo voci che davano per imminente l’arrivo di un
esercito liberatore austro-russo. La mattina del 6 maggio tutta la città e le
campagne limitrofe insorsero al grido di Viva
Maria, Viva Gesù, Viva Ferdinando III. Il popolo scese in piazza incitato
soprattutto dal clero: l’albero della libertà venne dato alle fiamme e cominciò
la caccia al giacobino. Il 14 maggio, nella battaglia di Rigutino, località
vicino Arezzo, i francesi subirono una pesante sconfitta e furono costretti a
riparare verso territori ancora occupati.
La notizia
della vittoria si diffuse presto in tutta la Toscana. La voglia di libertà
provocò nell’animo della popolazione un deciso moto d’orgoglio: molti volontari
si arruolarono nell’esercito aretino, il quale arrivò a contare fino a
cinquantamila effettivi.
Il 4 luglio
i francesi lasciarono Firenze, assediata dalle truppe aretine e via via tutte
le altre città del granducato vennero liberate.
Anche
sull’Isola d’Elba i francesi incontrano un’inaspettata resistenza e, dopo aspri
combattimenti, il Monserrat, comandante del presidio di Portoferraio, fu
costretto a cedere. La resa venne firmata nella Chiesa di S. Rocco nel luglio
del 1799. Così Portoferraio fu per breve tempo occupato dalle truppe
napoletane, che effettuarono rappresaglie e ritorsioni su coloro che avevano
accolto i francesi.
In questa
situazione di disordine e confusione, che vide come conseguenza il proliferare
dei briganti, che in nome della "Santa Fede" estorcevano tributi e
tagliavano le teste, approfittò l’asse austro-russo, che in poco tempo si
assicurò la Lombardia, l’Emilia ed il Piemonte; questo grazie anche alla
mancata resistenza del popolo, che vedeva negli austro-russi, i liberatori
dell’Italia dall’oppressione francese.
In questo
periodo dove alto era il senso di patriottismo, dove si formò una nuova classe
intellettuale in cui maturarono nuove idee di libertà e di unità, nacque un
nuovo fervore poetico dove vennero raccontate con enfasi le speranze, le
battaglie e le vittorie per il raggiungimento della libertà; possiamo dire che
ci troviamo davanti ad un’anticipazione della letteratura patriottica che avrà
la sua massima espressione alcuni anni più tardi, dove tra i protagonisti
ritroviamo proprio Gabriele Rossetti, fratello di Domenico. In questo movimento
letterario, oltre ai più famosi Parini e Monti, si inserisce prepotentemente
anche Domenico Rossetti.
Lasciata
l’Isola d’Elba, Domenico rimase in Toscana e visse a pieno quei tragici
avvenimenti, che portarono fino alla liberazione del Granducato, e con animo lucido
e decisamente ispirato diede vita a La
superbia de’ Galli punita, un canto estemporaneo firmato con lo pseudonimo di
StitemeniosVeldacodrotos, anagramma di Domenico
Rossetti del Vasto.
Dell’opera
del Rossetti si conservano due edizioni, pubblicate tra l'estate de la fine del
1799, la prima stampata a Pisa, per i tipi di Antonio Peverata, e la seconda
inserita in una raccolta di poesie, pubblicata a Firenze, come segno di
ringraziamento all’esercito austro-russo, ed in particolare al generale
Suvorov, per aver liberato l’Italia.
L’edizione
pisana è composta dal canto estemporaneo seguito da altri due sonetti In occasione della consolante notizia della
presa di Roma, e Per la felice nuova
della resa di Mantova, senza l’indicazione dell’autore, ma senz’altro da
attribuire allo stesso Rossetti.
Nella nota
di presentazione, lo stampatore si rivolge al lettore: «Le consolanti notizie ricevute in pochi giorni della liberazione di
Napoli, della salvezza di Roma, della Rigenerazione della nostra Toscana… hanno
elettrizzato in tal maniera un’improvvisatore, che estemporaneamente fece un
bel lungo canto, nel quale tutte vengono, e colla massima esattezza compendiate
le vicende delle mentovate Città, e Potenze, e la loro sorte. Il un’elogio del
medesimo sarebbe inutile essendo ben noto alla Repubblica Letteraria, e Socio di
più illustri Accademie. L’opera porta in fronte il di lui nome anagrammatico,
ch’è StitemeniosVeldacodrotos. Il giudizio della sua bellezza, e delle sue
grazie si appartiene agl’intendenti della Poesia, e delle belle lettere…».
L’edizione
fiorentina, al contrario della prima, è un’antologia di componimenti vari con
l’aggiunta del poemetto del Rossetti, messa ben in risalto dal tipografo, che
non si risparmia negli elogi: «In ultimo
luogo – precisa lo stampatore nella presentazione dell’opera – hò creduto bene di porre un Poemetto
estemporaneo, di uno dei più bei geni Italiani, che contiene un allegoria
piacevole: che fa conoscere di che cosa sia capace l’autore, allorché scriver
voglia con presentimento, e ponderazione. Lo stile berniesco con cui è scritto,
servir potrà di chiaro scuro all’altre composizioni Eroiche, che lo precedono».
Le altre
composizioni presenti nel volume sono l’ode, che da il titolo al volumetto,
opera di Giovan Battista Tavanti, un sonetto di Vincenzo Monti, due sonetti di
Gaetano Capponi e dell’avvocato Verdiano Francioli, ottave di Pietro Bagnoli e
per finire, ancora un sonetto senza l’indicazione dell’autore, dal titolo Per la consolante notizia della presa di
Roma, la stessa presente nell’edizione pisana, come già detto riconducibile
senz’altro al Rossetti.
Il componimento
del Rossetti è formato da cinquantasei ottave con lo schema tipico dell’ottava
toscana, ovvero una strofa composta da otto endecasillabi rimati, che seguono
lo schema ABABABCC, con i primi sei endecasillabi a rime alternate, e gli
ultimi due a rima baciata.
Ci troviamo
davanti ad un Rossetti decisamente ispirato, capace di fotografare, attraverso
un godibile canto allegorico, gli eventi che hanno portato alla cacciata dei
francesi.
Allo spuntar dell’Oriente il giorno,
Che lasciansi le pinme in abbandono,
Molti giovani Galli al grano intorno
Avidi stean mangiando, e poiché sono
Rissosi, ed aman farsi oltraggio, e
scorno
Nell’imbeccarne l’uno il pieno, il
buono,
L’altro l’adocchia, e per
rubarglielo, ecco,
Che il becco gl’introduce entro del
becco.
Quello si sforza ritenerlo forte,
Ma alfin lo lascia, e l’altro
l’inghiottisce,
Per vendicarsi il primo, e dargli
morte
Più volte con il becco lo ferisce,
Il secondo si volta, e in guise
accorte
Da colpi ulteriori si schermisce,
E l’ali aperte, e il collo gonfio,
aspetta
La mossa ostil per muoversi con
fretta.
Perdon, vincono, ed incita il dolore
A nuovo scontro i Galli inviperiti,
Ergon le creste altere, e con furore
Saltano a un tempo istesso, e son
colpiti,
Pugnano gl’altri in simile tenore,
E si tarpano ben coi colpi arditi,
Ma passa il tempo, e passa più d’un
ora,
E la guerra de’ Galli dura ancora.
I Galli,
sono il nemico dichiarato, quel popolo rissoso venuto nel nostro paese come
dominatore, ma un’Aquila passa in volo e getta lo sguardo severo sui Galli.
L’Aquila, probabilmente Ferdinando III, il re di tutti i volatili, mostra tutta
la sua forza e minaccia di far pentire i Galli di tanto orgoglio.
Un Gallo
ribelle esce dal gruppo e non ha paura di affrontare il Re:
Tu che pretendi, o bestia altera, e
infesta, / Uccellaccio deforme, e maledetto? / Che Re? Che pene? Di che mai
favelli? / Re sarai delli Gufi, e Pipistrelli. / Oppur comandi sopra le
Civette, E sopra li vigliacchi Barbagianni; / Scarica il tuo furor, vibra
saette, / E procura di farci tutti i danni, / Che noi (per dirla con parole
schiette) / Ci ridiamo di te, se ci condanni, / Ed a lungo con noi non si
contrasta, / Rifletti, che siam Galli, e tanto basta.
Gli altri
approvano e cominciano a darsi beffe del
Re invitandolo ad andarsene (chiaro invito al Re a lasciare Firenze),
altrimenti ti romperem sul capo la corona.
Il Rossetti
descrive il Gallo come un animale presuntuoso e pieno di sé, dall’occhio vivace
e attento, col portamento signorile, che mostra in tutta la sua bellezza
l’ampio petto, energico e virile, ali e cosce ben fatte e piedi gentili, in
pratica Natura non può far di più
perfetto. Anche fra gli uomini i Galli hanno una grande stima, e molti
popoli si sono piegati davanti alla loro potenza e Ognor più s’ingrandisce, ognor più puole, / E in breve giungerà pur la
sua gloria, / Fin dove spunta, e ove tramonta il Sole…
L’Aquila
ascolta in silenzio, quasi indifferente e guarda i Galli con un leggero sorriso,
quasi in segno di un felice presagio.
Si avvicina
all’Aquila una gentile Passerina e cinguettando porta importanti notizie: Da Napoli ne vengo, e con diletto / Più d’un
Gallo vid’io disteso, e morto; / Quella gente formato un stuolo eletto / Ha
vendicato alfin il regio torto, / E di taglienti accette ai colpi spessi /
L’Albero cadde sopra i Galli stessi. Molti Galli cercano di opporre una
strenua resistenza: molti vengono fatti prigionieri, altri vengono feriti o cadono sul campo. Un
frate forte e coraggioso si distingue in particolare, il suo nome è fra
Diavolo, che grazie alla sua furbizia, riesce a sconfiggere più volte i
francesi in varie imboscate.
Dopo il
racconto della Passerina, un maestoso Pavone si avvicina al Re, s’inchina e
annuncia che Firenze e tutta la Toscana sono finalmente libere: solo a sentire
il nome di Austriaci e Aretini, i Galli per
la paura grande e veemente, fuggono oltre i confini come timide lepri innanzi ai cani. Tra la popolazione è tornata la
gioia e la serenità e le madri baciano l’innocenti
figli.
Mentre il
Pavone termina il suo racconto, si avvicina una Beccaccia e annuncia un grande
evento: Mantova è resa. Prosegue: Di
cento, e più cannoni il vivo fuoco, / E dal rumore l’orecchio destro ho sordo;
/ Fiamme, e fumo era l’aria a poco a poco / E lo stuolo de’ Galli empio, e
balordo, / Dopo tre giorni alfin ceder dovette, / Perché ognor più incalzavano
le strette. / Il nome tuo glorioso alto risuona / Nella Cittade, ed i trofei
son teco, / E d’applausi alle voci ognorrintruona, / E ripete il tuo nome un
nobil eco; / Più splende or la tua fulgida corona…
Mentre
l’Aquila gode a sentire le parole del Pavone, sopraggiunge un Colombo, dalle
piume bianchissime, che annuncia la liberazione di Roma, seguito da un Corvo
dall’aspetto poco invitante. Ripreso dall’affanno del faticoso viaggio, il
pennuto nero racconta di provenire da Genova dove si è combattuta una tremenda
guerra, che forse l’egual non fuvvi in
terra: cinquantamila Galli armati e disperati si opposero, senza trovare
scampo, contro i guerrieri austriaci, Ma per
gli Austri decise alfin la sorte, / E i Galli ebbero insiem perdita, e morte.
L’ultima
novella è di una vivace Rondinella proveniente dal lontano Egitto, che annuncia
la sconfitta di Napoleone: Io gli ho
veduti, e nulla ometto, o celo, / Bonaparte tremava non affann., / Ed i Galli
dicean sebbene armati / Miseri noi sarem tutti impalati. / Molti di lor
perirono in battaglia, / Ed a Maometto il sangue lor fu offerto; / E i corpi
marci di sì rea canaglia / Fur cibo d’avoltoi nel campo aperto…
Dopo aver
ascoltato attentamente i messaggeri, l’Aquila guarda con ironia i Galli, che
fino a poco prima lo avevano schernito e dice: Or più non celebrate, e la vittoria ? / Ma compire vogl’io la vostra
gloria… Quindi, chiama a raccolta tutti i suoi sudditi (Sparvieri, Cuculi, Fregioli, Nibbj, Tordi,
ecc.) che gli si schierano davanti, ed emette la sentenza: …popol mio diletto, e caro / Giudici voi ne siate competenti, / È in
vostra man la pena, od il perdono, / Fate ciò che vi par: io torno al trono.
E qui si consuma la tragica fine dei Galli: Sopra
de’ Galli smorti, e impauriti / Piomban gli Augei furiosi a cento a cento / E
nel corpo gli fan buchi infiniti / Coi becchi, e con l’artigli a lor talento /
E Chi la cresta mangia, e chi i squisiti / Bargilli, ed altri l’ali, altri le
cosce, E morirono in mezzo a tante angosce.
Qui termina
il canto estemporaneo, come spiega il Rossetti, negli ultimi due endecasillabi Lettor, tu sai, che in favola, o mistero /
Spesso com’ora si contiene in vero.
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