di Luigi Murolo
Fin dalla prima edizione del fondamentale Vocabolario dell’uso abruzzese (Lanciano,
Carabba, 1880),
Gennaro Finamore registra la voce piánghә con il significato specifico di
«pietra larga, pianeggiante e poco spessa». In dialetto vastese, lә marәnérә
(pescatori) designavano con piangåunә
(o lu pujangåunә,
con la metafonizzazione di -u- in
ragione della -u- che precede) lo scoglio più o meno piatto, utilizzato dai
pescatori. Una volta mi è capitato di sottolineare che i nomi di quegli scogli
(i piangoni, per l’appunto) si
riconoscevano al passo, come gli uomini. La ragione stava nel fatto che quei conglomerati avevano preso quei nomi perché «abitati» da quegli uomini. Non vi sono dubbi. Da quella roccia piatta affiorante
dall’acqua il domaine del suo signore
era completo. Nessuno dei possibili «fraštìrә» – ivi compresi «li vuaštarùlә»
che non fossero di Lucïapånnә
– poteva avvicinarsi senza suscitare le dure reprimende del seigneur.
Della piccola isola di puddinga l’utilizzatore ne
chiedeva la concessione. Solo al concessionario, dunque, era consentito di
“ferire” la materia calcarea con il palo infisso nelle sue “viscere”. Il ligneo
guardiano della soglia era solito
ammonire: «‘Ngi štá puštә, oh! Quåssә é lu pujangåunә di la Crápa bbiánghә».
Non solo «lu
pujangåunә». Ma tutti «li scù jjә di la Crápa bbiánghә» erano sottoposti al medesimo
dominio utile. Anzi, lo stesso trabocco interpretava fino alle estreme
conseguenze la legge inesorabile della pesca immobile. A conferma di ciò, tutti
«li scùjjә» disposti
lungo la linea della «Crápa bbiánghә» consentivano di raggiungere, attraverso le
passerelle poggianti sui pali, il misterioso marchingegno avvolgente che
lasciava calare e risalire la rete: «lu
vuoddavëjә»
(l’argano). Che dire di più! Di quell’antica casa sull’acqua resta solo una
traccia: il piccolo frammento di palo ancora superstite sul piatto della
roccia. I violenti marosi da levante, soprattutto la fәrtîunә gginirálә (il
fortunale) da Greco, hanno squassato l’ intera impalcatura lignea. L’hanno
radicalmente smaterializzata senza che la Crápa
bbiánghe potesse profferire il suo «oh».
Ma quel segnacolo, no. Nessuna tempesta l’ha scalfito. Immarcescibilmente fisso
nel suo sussistere, è rimasto muto testimone di quella tragedia umana e
econonica avviata e consumata nel corso del primo trentennio di Novecento.
Il mare ha ingoiato tutto. Perfino il nome. Che cosa strana!
Ed è bene sottolinearlo. Non abbiamo più nemmeno l’opportunità di trovare
conforto nella rassicurante formulazione di Bernardus Cluniacensis: «nomina nuda tenemus».
Una cosa, tuttavia, non possiamo non rilevare: il fascino
esercitato dai cunnuttîune, i canali
tra gli scogli caratterizzati da forti correnti. Non solo, dunque, la forza
terribile dei venti di levante. Ma anche l’incessante moto del mare tra gli
scogli. La Crápa bbiánghe ce ne
restituisce l’intima bellezza. Ma nulla regge; nulla tiene nel parco dei
conglomerati. Che cosa posso dire ancora. Ripensando al marchingegno ligneo mi
torna in mente il passo di un celebre epitaffio scolpito su una pietra del
Cimitero acattolico di Roma. Un passo che voglio parafrasare. Che cosa dice?
Molto semplice: «Qui giace “qualcosa” il cui nome fu scritto nell’acqua».
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