lunedì 18 gennaio 2016

Un'affascinante storia di mare


di  Luigi Murolo
Fin dalla prima edizione del fondamentale Vocabolario dell’uso abruzzese (Lanciano, Carabba, 1880),
Gennaro Finamore registra la voce piánghә con il significato specifico di «pietra larga, pianeggiante e poco spessa». In dialetto vastese, lә marәnérә (pescatori) designavano con piangåunә (o lu pujangåunә, con la metafonizzazione di -u- in ragione della -u- che precede) lo scoglio più o meno piatto, utilizzato dai pescatori. Una volta mi è capitato di sottolineare che i nomi di quegli scogli (i piangoni, per l’appunto) si riconoscevano al passo, come gli uomini. La ragione stava nel fatto che quei conglomerati avevano preso quei nomi perché «abitati» da quegli uomini. Non vi sono dubbi. Da quella roccia piatta affiorante dall’acqua il domaine del suo signore era completo. Nessuno dei possibili «fraštìrә» – ivi compresi «li vuaštarùlә» che non fossero di Lucïapånnә – poteva avvicinarsi senza suscitare le dure reprimende del seigneur.
Della piccola isola di puddinga l’utilizzatore ne chiedeva la concessione. Solo al concessionario, dunque, era consentito di “ferire” la materia calcarea con il palo infisso nelle sue “viscere”. Il ligneo guardiano della soglia era solito ammonire:  «‘Ngi štá puštә, oh! Quåssә é  lu pujangåunә di la Crápa bbiánghә».
Non solo «lu pujangåunә». Ma tutti «li scù jjә di la Crápa bbiánghә» erano sottoposti al medesimo dominio utile. Anzi, lo stesso trabocco interpretava fino alle estreme conseguenze la legge inesorabile della pesca immobile. A conferma di ciò, tutti «li scùjjә» disposti lungo la linea della «Crápa bbiánghә» consentivano di raggiungere, attraverso le passerelle poggianti sui pali, il misterioso marchingegno avvolgente che lasciava calare e risalire la rete: «lu vuoddavëjә» (l’argano). Che dire di più! Di quell’antica casa sull’acqua resta solo una traccia: il piccolo frammento di palo ancora superstite sul piatto della roccia. I violenti marosi da levante, soprattutto la fәrtîunә gginirálә (il fortunale) da Greco, hanno squassato l’ intera impalcatura lignea. L’hanno radicalmente smaterializzata senza che la Crápa bbiánghe potesse profferire il suo «oh». Ma quel segnacolo, no. Nessuna tempesta l’ha scalfito. Immarcescibilmente fisso nel suo sussistere, è rimasto muto testimone di quella tragedia umana e econonica avviata e consumata nel corso del primo trentennio di Novecento.
Il mare ha ingoiato tutto. Perfino il nome. Che cosa strana! Ed è bene sottolinearlo. Non abbiamo più nemmeno l’opportunità di trovare conforto nella rassicurante formulazione di Bernardus Cluniacensis: «nomina nuda tenemus».
Una cosa, tuttavia, non possiamo non rilevare: il fascino esercitato dai cunnuttîune, i canali tra gli scogli caratterizzati da forti correnti. Non solo, dunque, la forza terribile dei venti di levante. Ma anche l’incessante moto del mare tra gli scogli. La Crápa bbiánghe ce ne restituisce l’intima bellezza. Ma nulla regge; nulla tiene nel parco dei conglomerati. Che cosa posso dire ancora. Ripensando al marchingegno ligneo mi torna in mente il passo di un celebre epitaffio scolpito su una pietra del Cimitero acattolico di Roma. Un passo che voglio parafrasare. Che cosa dice? Molto semplice: «Qui giace “qualcosa” il cui nome fu scritto nell’acqua».












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