Ricordo di un gentiluomo d'altri tempi. La sua umanità e spiritualità emergono dal volume "Foglie Gialle".
di Giuseppe Catania
Pompeo Suriani per molti anni presidente della Provincia |
Pompeo Suriani molti lo ricordano come un politico saggio,
accorto, un amministratore solerte e zelante, legato alle innumerevoli opere
pubbliche realizzate nei centri della Provincia di Chieti, di cui, dal
dopoguerra fino alla morte, avvenuta nel 1979, fu apprezzato Presidente.
Eppure, nel profondo dell'anima di Don Pompeo divampava un
innato fervore poetico. Quello che lo accompagnava in tutte le sue
manifestazioni ed i rapporti intrattenuti per via del suo mandato politico-amministrativo.
Ma era, forse, la quiete del borgo natio, certo anche una
spiccata preparazione professionale, la tenera dolcezza del focolare domestico,
a suscitare in Pompeo Suriani ispirazioni delicate tutte velate da una profonda
umanità, peraltro attinta ad una vivida predisposizione a considerare il mondo
esteriore, come specchio
autentico del Creatore.
E Monteodorisio, terra di Pompeo Suriani, è il ricorrente
filo che lega tutta la sua vena poetica, che lo conduce a Punta Penna di Vasto,
emotivamente legato, in opere e in spirito, a questo
sensibile poeta, convinto assertore di una austerità,
imperiosa forse, che trova ancestrale risonanza nei tempi trascorsi carichi di
civiltà e di storia millenaria.
«Quande Mundrisce cummanneva a tutte
lipaìse 'ecche 'ntorne a la vallate...
Ecco, dunque, partorite dalla fervida fantasia
dell'uomo-poeta quel volume «Foglie gialle», versi abruzzesi presentati dal prof. Ettore
Paratore e illustrati con disegni a punta di penna di china di Gianni Consalvi,
nella collana «I cantori» diretta da Donatella D'Orazio per i tipi di
Solfanelli /Arte (1977).
Vi è nella musa di Pompeo Suriani una religiosità profonda,
un rispetto per gli umili, un accorato senso di emotività nella narrazione
di aspetti inediti del paese natio, di persone che hanno fatto parte del
quotidiano, che sono poi gli elementi ispirativi di Pompeo Suriani, proprio perché tratti
con la palpitante umanità che li pervade.
«Càntene li cicale a
lu ciardine, / vole sfreccianne quacche renelone, / corre
appresse a nu Grille
na galline; / dentre a nu nide, sotte a nu balcone, / tre cuccitelle
nire sta 'ffacciate /
aspettanne ch'arrive la 'mbeccate».
La poesia della natura in Pompeo Suriani assume apici sublimi
quando canta, al cospetto del mare, il mistero del Creato, quel paradiso
terrestre che il poeta scrutava dalla sua casa su di un poggio a Punta Penna di
Vasto, quando il crepuscolo incendiava il cielo dopo il tramonto.
« Tra li scuje la sere
le sirene / dicevene parole appassiunate; / da la Lebbe spunte la luna piene /
e 'lluminé lu mare e la vallate, / mentre nu rusignole a lu vallone / cantave a
piena voce na canzone».
E trascorre così il giorno, quello stesso che Pompeo Suriani
ferma magistralmente, pur se per qualche attimo prezioso, strappato idealmente
all'inesorabilità del tempo fuggente, nella poesia «Lu rillogge».
«Lu rillogge che porte
da tant'anne / 'nchi na catene appese, a lu taschine, / m'ha 'ccumpagnate senza
ma 'n 'inganne /pe' la vije che m'ha date lu distine; / è nu regale che m'ha
fatte sciore / e
m'ha segnate sempre
juste l'ore. /S'è fatte vicchie, ma 'nze ma fermate...».
«Il destino è un cavallo bizzarro e senza briglie. Puro
sangue e ronzino, è sempre la fortuna che lo guida» — scriveva Pompeo Suriani per
introdurre la poesia «Lu cavalle» —
nella considerazione che l'umanità spesso viene a trovarsi al bivio della vita e tutto è affidato al caso.
«Dipenne tutte da la
'spirazione / che la fortune ha date a lu cavalle... / ...quande nen ci si
mette lu vicine... / ...a ffa cagna la sorte e lu destine...».
Pompeo Suriani ebbe la misura della vita, la coscienza di
operare con spirito altruistico, nella convinzione di contribuire ad elevare il
livello sociale delle popolazioni.
Sempre tenendo come orifiamma invitta, usbergo della sua nobiltà
familiare, un costume morale di
esemplare comportamento.
Nella poesia «Lu
vestite», scriveva: «La vita è come un abito: veste bene quando si è
giovani. Viene ridotto a uno straccio dal tempo, dall'usura e dalle avversità. Ma
non bisogna dolersi degli strappi, basta che non sia infangato».
«La vita nostre è come
nu vestite / ca ti sta bbone quande ti vint'anne: / nove,
fresche, stirate, ben
pulite, / pinse eh 'è fatte nchi lu mejje panne! / E camini
felice allegramente
/senza bbadà a le chiacchiere e ala ggente. / Ma, doppe,
lipinzire
l'avvicchisce / la fatije ogni jurne le cunzume: / quande 'ncape lu
bianche t'apparisce /
s'è fatte vicchie e rotte lu custume. / Tra li ruve li pjezze
sì lassate / e l'aneme
e la carne ha sanguinate. / Nen è capace lu cape sartore
/ d'ripizzà nche
ll'aghe stu vestite; / t'arimane nu stracce e lu dulore / a lu pette,
pe ' quante si patite.
/ Ma n 'a da piagne si ti s'è stracciate / abbaste ca di
fanghe nz'è
mbrattate».
Insomma, tutto il contrario di chi — ma non ne ricordiamo il
nome — volle rubargli la maggior parte di questi versi sublimi e
«rappezzarne» un componimento che, peraltro, gli servì per conseguire un
immeritato premio in uno squallido «certame» periferico. Saggezza antica ammoniva: «il vestito non fa il monaco».
Ed il vate, presago delle incognite che gli serbava la vita,
perché è proprio vero che il poeta sa scrutare l'infinito, pensava ad un giorno
al crepuscolo di una «Sera d'estate a Punta Penna», per ispirarsi ad un
«commiato» che possiamo considerare il compendio di tutta la liricità di un uomo che è consapevole del suo ruolo, soprattutto
della missione che era destinato a compiere.
Sopraggiunge, così, un attimo di meditazione, quella stessa
che pervade gli uomini che hanno contato nella storia e nelle vicende umane
che hanno contrassegnato un popolo.
«Penso alpassato /
alle rosee speranze d'un tempo, / alla gioventù trascorsa / senza avvertire la
bellezza dell'ora, / ai mille episodi d'una vita / vissuta nell'inseguire /
ideali meravigliosi e chimere
sfuggenti».
Non un rimpianto però, bensì fede sorretta dalla
consapevolezza di aver scritto un capitolo della vicenda umana.
«Il cuore è stanco, /
il sole più non riscalda, / il profumo dei fior più non m'inebria,, / i verdi
prati della speranza / sono ingialliti; /...sento / che la giornata mia va
declinando. / E s'avvicina
la Notte! / ...io
sereno l'attendo / nella speranza che poi torni alla luce / lo spirito mio».
Vi è in questi ultimi versi tutta la cosciente visione di
chi s'appressa alla sublimazione
dell'essere.
Ed è da questo senso dello scrutare nel profondo che emerge
l'esistenza di un uomo Vate e Poeta vissuto per tramandare al domani non «Foglie gialle», come volle intitolare
il suo libro di versi, ma qualcosa di vivo che non sia definito dal colore, dai
suoi riverberi, ma sempre attuale.
Il giallo, nella simbologia cromatica è emblema di fedeltà
ai valori umani, agli ideali, quelli per i quali Pompeo Suriani è vissuto ed è
ricordato perché ha tracciato un solco indelebile nelle opere che accompagnano
l'uomo lungo la sua vicissitudine terrena, ma, soprattutto, nella spiritualità
che sottolinea l'umanità quando riesce ad esprimere cantori così appassionati e
degni di serto imperituro.
Giuseppe Catania
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