GIOVANI E LETTERATURA
di NICOLANGELO D'ADAMO
Ho chiacchierato a lungo con una
professoressa di Lettere sulle sensibilità dei giovani che frequentano le
nostre scuole: le loro fragilità, i loro miti, l’idea che hanno dello studio e
della
scuola, i nuovi linguaggi, l’approccio che hanno con la letteratura
“alta”, italiana, latina e greca. “Sappiamo che loro vanno in jet e noi con la
cinquecento, mi ha detto, ed è difficile incontrarsi: noi chiediamo di fermarsi
un giorno sul verso leopardiano: “ed era il maggio odoroso…”, o sul libro IV
dell’Eneide, e loro con il telecomando o internet in cinque minuti visitano il
mondo”. “Si lamentano perché tutti i poeti raccontano il male di vivere e
nessuno sembra felice, ma nessuno dice loro che la gioia si vive e non c’è
alcun motivo di raccontarla, il dolore,
invece, si rifiuta e lo si racconta per esorcizzarlo”. Per “portarli sulla
cinquecento” e farli scendere dal jet bisogna urlare più di loro, inventarsi un
linguaggio diretto, scuoterli dal torpore protetto e assicurato da una famiglia
ipergarantista che risolve per loro ogni problema quotidiano, esercitare una
egemonia culturale facilmente percepibile…”.Oddio, ho detto alla professoressa,
mi sembra che chiediamo molto ad una categoria già abbastanza trascurata che
con gli anni, complici governi e sindacati,
ha perso l’antica sacralità che i più vecchi hanno anche in parte
conosciuta, oggi invece ha vestito i panni degli impiegati civili dello Stato”.
La professoressa, stupita, mi ha guardato con occhi rassegnati e sistemandosi
con una mano gli occhialini sul naso, ha mestamente annuito. Ma è stato un
attimo: ha rialzato le spalle, indurito i muscoli facciali e con voce decisa mi
ha detto: “Ma non tutti si sono rassegnati, sa! Molti di noi si sentono ancora
“incendiari” e non si rassegnano a fare i “pompieri”, “le vestali della classe
media”, come pure sono stati definiti. E sentivo nella voce decisa della
professoressa l’antico orgoglio di una categoria ancora innamorata dei giovani
e del proprio ruolo educativo, disposta ancora a spendersi per accompagnare i
propri alunni lungo gli accidentati
sentieri della conoscenza, magari inventandosi quotidianamente metodi,
linguaggi, strumenti didattici una volta inutili, raddoppiando gli sforzi di
complesse indagini psicologiche per indagare
gli abissi profondi della personalità di un adolescente oggi meno
disposto di ieri ai sacrifici dello studio anche perché non ne vede
immediatamente l’ “uso sociale”, che per lo studente degli anni cinquanta e
sessanta era facilmente percepibile: studio uguale emancipazione.
E allora ho pensato a Ivan
Illich, alle sue teorie sulla “descolarizzazione della scuola” e sulla
“descolarizzazione della società”, pensate negli anni sessanta, alla vigilia di
quel “sessantotto” che accenderà tante speranze e poi si chiuderà in quel maledetto “settantasette”,
sembra un secolo addietro! L’odissea delle riforme continua e quando e se
arriveranno saranno già vecchie, intanto nella scuola ci sono ancora gli
insegnanti che hanno l’orgoglio della loro professione e qualche giovane potrà
ancora fermarsi un giorno a leggere emozionato quell’ idillio leopardiano o il
racconto di quel tragico amore di Didone per Enea, almeno prima che squilli di
nuovo il cellulare per ricominciare la giostra. Ecco il senso di tanti soldi
pubblici spesi per la cultura, anche a livello locale: per una lenta
emancipazione indispensabile per la crescita della civiltà. Soldi da investire
soprattutto in un periodo di crisi se se ne vuole uscire per preparare una
ripartenza.
Ma è stucchevole dover ripetere
la stessa litania a governanti e amministratori.
NICOLANGELO D’ADAMO
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