"La mattina del 22 febbraio, alle ore 10,45 si udì un forte boato, simile allo scoppio di una bomba: una quarantina di case poste su via Adriatica cominciarono a scivolare verso il basso, alzando un immenso polverone"
Il 22 febbraio 1956 si abbatteva su Vasto una delle più gravi sciagure della sua storia, quando un vasto movimento franoso faceva scivolare a valle una buona parte del Muro delle Lame.
Gli smottamenti delle settimane scorse verificatisi sotto via Tre Segni, con lo sprofondamento di una palma, e in via Adriatica, nei pressi della chiesa di Sant’Antonio di Padova, hanno destato profonda preoccupazione e fatto tornare alla mente quanto accaduto nel febbraio del 1956.
Gli smottamenti delle settimane scorse verificatisi sotto via Tre Segni, con lo sprofondamento di una palma, e in via Adriatica, nei pressi della chiesa di Sant’Antonio di Padova, hanno destato profonda preoccupazione e fatto tornare alla mente quanto accaduto nel febbraio del 1956.
Ma torniamo proprio a quei tragici momenti ancora
impressi negli occhi di molti vastesi.
Nel settembre del 1955 già erano comparse le prime
preoccupanti crepe lungo Via Adriatica e su alcuni edifici, non risparmiando
anche una parte dei locali della secolare chiesa di San Pietro. I
tecnici del Genio Civile di Chieti elaborarono un razionale piano di indagini
costituito da una serie di rilevamenti geomorfologici sia nel sottosuolo di
Vasto che nella parte più a est verso il mare.
Ad ottobre, per scongiurare la frana, don Romeo Rucci decise
di portare in processione, per le strade del centro storico, la reliquia del
Legno della Croce. Oltre ai chierici, al parroco ed alle rappresentanze del
comune con il Gonfalone, era presente anche tantissima
gente composta e commossa, ma già consapevole di quello che sarebbe potuto
accadere da un momento all’altro.
Dopo aver effettuato le verifiche delle crepe sempre più
numerose e profonde, i tecnici comunali decisero l’evacuazione delle case più a
rischio.
La mattina del 22 febbraio, alle ore 10,45 si udì un forte
boato, simile allo scoppio di una bomba: una quarantina di case poste su via
Adriatica, si staccarono dalle fondamenta, rovinarono su se stesse e
cominciarono a scivolare verso il basso, alzando un immenso polverone.
Fortunatamente, tutta la zona era già stata evacuata e le famiglie ospitate nei
locali della scuola elementare.
Altre 60 famiglie sfollate (per un totale di 117 famiglie
ufficialmente registrate), vennero sistemate in gran parte nei locali delle
scuole elementari e delle medie, dove ricevettero “alloggio gratuito” e “luce e
riscaldamento a termosifone”, oltre a pacchi di viveri ed indumenti forniti
da privati, autorità ed enti.
Tra i primi provvedimenti del Governo, ci furono
l’assegnazione di 50 milioni di lire per le opere di pronto intervento e per
l’acquisto di case prefabbricate da assegnare agli sfollati, mentre l’Istituto
delle Case Popolari, appaltò subito due lotti di 30 alloggi ciascuno, per
l’importo di 104 milioni.
Alla prima notizia del disastro, l’on. Giuseppe Spataro, che
era costantemente tenuto informato sul movimento franoso, si mise
immediatamente in azione per procurare tutto l’aiuto possibile e per
sollecitare l’intervento del Governo.
Ad un primo convegno, da lui promosso, con la
partecipazione di funzionari del Genio Civile, del Provveditorato all’OO.PP.
dell’Aquila e componenti dell’Istituto delle Case Popolari, ne seguì un altro
molto più importante, a cui presero parte l’isp. Piccioli, per il Ministero dei
Lavori Pubblici, il prof. Penta, membro del Consiglio Superiore dei LL.PP., il
Prefetto della Provincia, rappresentanti delle Ferrovie dello Stato, dell’Anas,
Professori Universitari e Geologi, al fine di esaminare le cause della frana e
studiarne i rimedi per arrestarla definitivamente. Per il Governo, partecipò
direttamente l’on. Giuseppe Romita, titolare del Ministero dei Lavori Pubblici.
Tutti gli intervenuti al convegno denunciarono la
gravità della situazione e la necessità di intervenire immediatamente.
Finalmente si cominciò a parlare di fatti concreti, analizzando le cause del
fenomeno e mettendo al centro dell’attenzione il risanamento definitivo di tutto
il costone orientale. L’indagine geomorfologica (già iniziata nel 1955 da parte
del Genio Civile di Chieti), consentì di ricostruire tutta la formazione
stratigrafica del suolo sottostante Vasto, ed in particolare permise di
costatare che la piattaforma di Vasto aveva una potenza di circa 30 metri
costituita da 12 metri da sabbie sciolte, 3 metri da sabbia e ghiaia ed altri
quindici metri da sabbie dal contenuto argilloso. La formazione sabbiosa era
interessata, per circa 10 metri al di sopra del contatto con le argille
compatte, da una falda acquifera di notevole intensità, quantificabile in 5-6
litri al secondo.
A
conclusione degli accertamenti effettuati dai tecnici, si concluse che la frana
di Vasto era riferibile a due fenomeni distinti seppur interdipendenti, che
interessavano rispettivamente la zona a monte dei muri crollati e la zona a
valle di questi fino al mare. Nella zona a monte si creavano distacchi e
“disquamazioni” da pareti in sabbia lievemente cementate con superfici di
distacco di nuova formazione, che finendo sulla parte sottostante, premevano
sulle sabbie caotiche e scivolavano verso il mare. Questo fenomeno era
amplificato e alimentato, oltre che dalle precipitazioni piovose, dalla intensa
falda acquifera proveniente dal sottosuolo.
In una successiva riunione in Comune, presieduta
dall’on. Giuseppe Spataro, vennero studiati i primi interventi concreti per
salvare tutta l’area. “Tecnici e geologi”,
si legge sulle colonne dell’Histonium,
“troncando le puerili ipotesi di
incompetenti relative ai fenomeni del sottosuolo, han convenuto che deve
terminare la permeazione delle acque per passare al consolidamento dell’abitato
in base agli studi diligentissimi, con muraglie su teorie di piloni, che
affondino profondamente. Per il terreno a valle occorrono altre soluzioni, che
assicurino la strada statale e la ferrovia, non escluso l’esproprio per la
piantagione di forti alberi. Secondo il parere del chiar.mo prof. Penta è
possibile salvare la chiesa di S. Pietro, purché i provvedimenti tecnici soccorrano
urgentemente alla attuale stabilità del sacro edificio”.
Il progetto studiato dal Genio Civile di Chieti,
che prevedeva la costruzione di un muraglione di sostegno più a valle, venne
bocciato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il quale richiese altri
tre progetti. Alla fine venne scelto l’ultimo, il meno oneroso, che prevedeva
la demolizione di tutta la zona compresa tra Piazza del Popolo e la chiesa di
Sant’Antonio, e la costruzione di grossi cunicoli comunicanti tra di loro per
convogliare le acque sotterranee.
Purtroppo, quando la situazione sembrava ormai
stabilizzata, la terra tornò nuovamente a scuotersi nell’agosto dello stesso
anno, provocando il crollo del Palazzo delle Poste ed altri edifici limitrofi.
Lino
Spadaccini
Nessun commento:
Posta un commento