lunedì 30 dicembre 2013

Racconti della vecchia Scerni: ricordo di Romeo D'Ercole lo speziale del paese

Enzo Apollonio ci ha inviato un interessante racconto sull'Abruzzo d'altri tempi che proponiamo ai nostri lettori. Così scrive: "Mio nonno materno Romeo D'Ercole, che non avuto la fortuna di conoscere essendo egli morto nel 1933 quando non ero ancora nato, faceva parte della piccola borghesia di Scerni, era figlio dello speziale del paese e suoi fratelli erano un medico e un veterinario. A mio nonno Romeo, mio zio Antonio D'Ercole dedicò nel 1959 uno struggente racconto che pubblicò nel libro Quindici novelle in cerca di un lettore. Io ve lo invio assieme ad alcune brevi note biografiche riguardanti zio Antonio".
Ecco il racconto
MIO   PADRE
di Antonio D'Ercole
             Io odio il favonio. Odio quel vento di ponente, caldo e molesto, che da
noi viene chiamato “garbino” come se fosse uno zeffiro garbato ma che, invece, soffia con violenza inaudita, piega le cime degli alberi fino a terra, fa volare le tegole dai tetti, rende vacillante il passo degli uomini sulle strade, fa nascondere gli uccelli nelle siepi più folte ed ulula, ulula maledettamente come un immenso branco di lupi affamati.
            Io odio il favonio che fa cigolare gli usci e le imposte, riempie l’aria di polvere arida, rende la pelle sudaticcia e maleodorante ed esaspera i nervi.
            Io odio il favonio perché mi ricorda il mio povero genitore sul letto di morte.
            Era un giorno di ottobre dominato dall’urlo del vento e mio padre, alto e robusto come una quercia, chiamò mia madre, la fissò con gli occhi sbarrati e cadde, esanime, al lato del letto.
            Il vento soffiava con violenza e le imposte battevano facendo cigolare i cardini con un canto striduo che si ripercuoteva nel cranio.
            Una ossessione.
            Trovai mio padre disteso su un lettino del salotto.
            Era, per noi della famiglia, il salotto, quella stanza con carta a fiori stinti sulle pareti, con due poltroncine ed un sofà di stile rococò con molle legate l’una all’altra di cui, alcune, più alte avevano reso consunto il rivestimento di tela e con fiocchetti di filo intrecciato a quattro capi pendenti intorno, con quadri ad olio di scuola Palizziana raffiguranti o una brigantessa dallo sguardo dolce e fiero col trombone appoggiato su di un sasso o rocce dalla forme strane che somigliavano a grossi cuscinetti per aghi o alberi sproporzionati o valli, fiumi e cieli irreali ed astratti, con un mobiletto pieno di ninnoli, fiori di carta, fotografie formato gabinetto ed un grosso gatto bigio di porcellana viennese che, con gli occhi chiari e lucidi, guardava fisso e sornione.
            In questo salotto venivano ricevuti gli ospiti di riguardo e ci si riuniva nelle piccole intime feste di famiglia in cui, tra un saporito pasticcino di mandorle ed un bicchierino di rosolio giallo, si trascorrevano delle ore liete, specie d’inverno.
            In questo salottino ora giaceva, disteso su un lettino di ferro, mio padre.
            Aveva il viso bianco ed i lineamenti composti e le sue mani, che sembravano di cera, erano appoggiate sul petto ed erano rigide e tenevano strette le pallottoline di una corona che finiva con una gran croce di legno nero.
            Indossava l’abito nero della festa, mio padre, e portava le scarpe nere  lucide. I suoi piedi, con le punte rivolte in alto, erano tenuti fermi da un fazzoletto bianco annodato ad un lato.
            Aveva, sul fianco destro, il bastone di ebano con fiori d’argento sul manico e, poggiato sulle gambe, il cappello nero di feltro.
            Fuori ululava il garbino che attraverso le fessure penetrava nella stanza facendo muovere le tende e cigolare le porte.
            Le prefiche di mestiere facevano finta i piangere ed ogni tanto lanciavano un lamento. Le prefiche sono come i corvi. Corrono ove c’è odore di morte per divorare quanto resta.
            Giungeva, dalla strada, il passo risonante di qualche viandante ed il latrato di un cane randagio. I cani odorano la morte.
            Mio padre era lì, disteso e silenzioso, con gli occhi chiusi ed un gran pallore sul volto.
            Era più bello del solito ed era elegante come mai lo era stato nella sua vita.
            Era stato per più di trenta anni, il farmacista del paese. Lo speziale anzi. Aveva studiato per tanti anni, conosceva le più belle poesie che ingemmano la nostra letteratura, le più complesse formule di chimica ed aveva condotto una vita grama, stando rinchiuso in un microscopico locale ingentilito da dieci scaffali bianchi con colonnine corinzie e fregi indorati, vendendo due soldi di sale inglese o confezionando pillole e preparando sciroppi e decozioni e cartine ed unguenti che venivano a costare sempre meno di una lira!
            Una vita veramente grama.
            L’incasso della giornata non sempre bastava, a mio padre, per mantenere il peso della famiglia, il pagamento delle tasse e quello dei medicinali. Non bastava ma, mio padre era un signore e, per essere veramente tale doveva conservare una dignità e, per conservare integra questa benedetta dignità, mentre tutti arricchivano egli guardava dignitosamente arricchire gli altri che poi, in fondo, erano molto meno preparati di lui.
            Sempre per non perdere la dignità trascorreva le lunghe ore di ozio professionale seduto su di una sedia impagliata e sempre allo stesso modo leggendo da capo a fondo il giornale e fumando placidamente la pipa di terra cotta con la cannula di legno.
            Indossava, mio padre, abiti modesti e lisi e portava il cappello, di preferenza nero, che ogni mattina spazzolava con cura per renderlo decente. Usava anche indossare il panciotto con sei o sette bottoni e con quattro piccole tasche. Le tasche avevano una grande importanza. Rappresentavano la cassaforte di famiglia. Nella tasca inferiore di destra, infatti, erano contenti i pezzi da un soldo di rame, in quella di sinistra i pezzi da due soldi; in quelle superiori le monete da una o due lire d’argento. Raramente vi era qualche moneta da cinque lire. Molto raramente. Mio padre era un bravo professionista ed era un vero galantuomo. In paese tutti, quando lo vedevano, gli dicevano “buon giorno” o “buona sera” togliendosi, con rispetto, il cappello.
            Fisicamente bello, alto e robusto, mio padre era padrone di una straordinaria tranquillità d’animo, di un senso di onestà veramente commovente, di una gentilezza di modi che lo rendevano distinto.
            Era buono, mio padre, e pur possedendo una forza fisica non indifferente, non ne faceva mai uso. La sua vera forza era quella morale ma, proprio quella forza morale lo teneva in continua lotta col bisogno.
            Per causa di quella forza morale che gli imponeva una via diritta e senza scorciatoie, mio padre, non reagiva alle meschinità del mondo, alle continue lotte che gli facevano col sorriso più dolce anche gli amici ed i parenti, alle sopraffazioni della gente senza scrupoli e senza intelligenza sempre pronta a far del male pur di raggiungere lo scopo.
            Per causa di questa forza morale i suoi occhi si inumidivano di pianto quando sul desco non vi era altro piatto che la minestra e, la sera, un uovo al tegamino o un mucchietto di pan cotto oppure un pezzo di formaggio pecorino seguito da una fetta di pane casereccio unto con poco olio e reso saporito da uno strato di peperone trito.
            Per causa di questa forza morale, i suoi occhi s'irraggiavano di gioia quando, sul desco, apparivano pezzi di carne d'agnello o di pecora, qualche bistecca di maiale o qualche salsiccia o, nelle ricorrenze, un pezzo di pollo o di dolce che la mamma sapeva preparare in modo veramente speciale.
            Credeva in Dio, mio padre, con convinzione e senza formalismi. Era lieto vederci, la sera, ripetere, con la mamma, le preghiere e, in Dio, riponeva ogni speranza.
            Io ero dominato da questa forza morale di mio padre e mi sentivo orgoglioso di un padre così fatto, di un padre che tutti dicevano buono ed onesto ed a cui, tutti, amici e parenti, dicevano “buon giorno” o “buona sera”. Ne ero orgoglioso e facevo del tutto per meritare il suo compiacimento.
            Guardandolo negli occhi io comprendevo se una mia azione era stata buona o cattiva. Non fui mai picchiato da lui ma ne ero dominato.
            A dieci anni, durante la prima guerra mondiale, io, mal sopportando la fame che si soffriva in un collegio ove, per vitto ed alloggio, si pagava una lira al giorno, mal consigliato da alcuni compagni, fuggii e, una sera di marzo, mi ripresentai a casa. I mei dormivano. Richiamati dai colpi battuti sul portone di casa, i mei genitori si alzarono.
            Mia madre corse giù, mi baciò, mi strinse al suo petto piangendo, mi accompagnò in cucina per farmi mangiare un uovo ed un pezzo di pane.
            Mio padre non disse una parola. Mi guardò fisso ed accese tranquillamente la pipa. Questo silenzio mi turbò e cominciai a piangere. Mia madre mi strinse al suo fianco e mi accompagnò a letto. Mia sorella si alzò e venne a darmi un bacio. Poco dopo mi addormentai profondamente.
            Mi sentii chiamare, non molto dopo, dalla mamma. Aprii gli occhi pieni di sonno e vidi, accanto al mio lettino, mio padre. Aveva l'abito scuro della festa, il colletto duro con i due triangolini piegati all'insù, il fazzoletto bianco nel taschino della giacca ed il cappello nero.
            Era lì serio, sereno, calmo.
            Dopo che la mamma mi aiutò ad indossare l'uniforme, mio padre mi prese per la mano e si mosse. Scesi le scale a capo chino. Quando, sulla porta, la povera mamma, mi baciò ancora una volta piangendo, mio padre mormorò: “andiamo”.
            A passi lenti, portando con tutte e due le mani la cassettina di legno che conteneva tutte le mie cose, seguii mio padre.
            Quando passammo sotto un lampione a petrolio che illuminava la strada, le nostre ombre apparvero enormi sull'acciottolato. Quella di mio padre si confondeva con l'ombra oltre la luce.
            Con la carrozza raggiungemo la stazione ove prendemmo il treno. Io, seduto accanto al finestrino, per tutto il viaggio non facevo altro che fissare le frasi scritte sulle targhe smaltate. “E' pericoloso sporgersi”, “Vietato fumare”, “ Non salire o scendere mentre il treno è in moto”. Così stava scritto ma tutti si sporgevano, tutti fumavano, tutti, quando il treno entrava in una stazione, scendevano e salivano mentre il treno era in moto. Cercai anche di contare le battute delle ruote sulle rotaie ed anche i pali che si seguivano così velocemente da far male agli occhi. Mio padre mi guardava ogni tanto e sorrideva. Tranquillo e bonario. La sera mi ritrovai in collegio. Il Rettore mi disse alcune parole d'incoraggiamento, mi parlò di Dio, della famiglia, e di tante altre cose ma io ero stanco ed avevo sonno. Quando mio padre, dopo avermi abbracciato, andò via, piansi convulsamente. Prima di mettermi a letto aprii la cassetta per sistemare la biancheria nel comodino. Tra maglie, giubbotti e fazzoletti trovai dei fichi secchi e delle belle mele profumate e, avvolti in una calza, trenta soldi. Trovai anche una bella immagine di San Michele Arcangelo con la spada sollevata, la bilancia e tanti diavoletti che si crogiolavano, dalla cinta in giù, saltellando tra le rosse fiamme dell'Inferno.
            Sentii un nodo alla gola e, tornando con la mente a mia madre ed a mio padre, ricominciai a piangere. Mentre sfogavo nel pianto il mio dolore, quasi meccanicamente, presi una mela, la baciai ed affondai i denti nella sua polpa succulenta ed odorosa godendone il sapore.
            Il sapore della mia povera ma tanto cara casa.
            Per la sua bontà, mio padre, era benvoluto da tutti e, tutti, quando passavano, gli dicevano, con un sorriso rispettoso “buon giorno” e “buona sera”.
            Io notavo il gran rispetto che sapeva incutere mio padre e più ancora la sua onestà e la sua forza morale e, quindi, sempre più mi andavo convincendo che se con il denaro si compra tutto, con l'onore e l'onestà si tiene in soggezione anche chi ha molto denaro.
            Aveva le mani, mio padre, deformate dall'acido urico e, per gli attacchi uremici, era costretto molto spesso a letto per dolori lancinanti che egli, tanto abituato a sopportare il dolore morale, sapeva tollerare, sapeva tollerare non perdendo mai il sorriso franco e bonario, quel sorriso comunicativo che incuteva rispetto e soggezione. Era stato un vero galantuomo, mio padre, ed ora giaceva disteso sul lettino, così, tutto vestito di nero, quasi a festa, mentre il garbino soffiava, le porte cigolavano ed il cane, sulla strada, guaiva confondendo il suo lamento con quello, fastidioso, delle préfiche.
            Mi passai, sulla fronte, il palmo della mano destra.
            Non era possibile, no, non era possibile che mio padre fosse morto. Forse dormiva. Forse, finalmente vestito come un signore, riposava trovando ristoro per il lavoro di tutti i giorni, per le sofferenze, per le pene, per le continue delusioni.
            Mi accostai e lo toccai con le labbra sulla fronte. La fronte era fredda. Un freddo che somigliava a quello dei giorni invernali ma ne era diverso. Un freddo che non somigliava al freddo delle cose che ci circondano ma che aveva un sapore strano, un sapore che colpiva il cuore e che lasciava, sulle labbra, una specie di patina che s'infiltrava in tutte le parti del corpo e faceva tremare.
            Scoppiai in un pianto violento. Il cuore mi batteva forte e stringevo i denti. Attraverso il velo delle lagrime vedevo il viso composto e bianco di mio padre, le sue mani che non erano più deformate, la gran croce di legno, il fazzoletto bianco che usciva dal taschino della giacca. Le fiamme dei ceri intorno si agitavano creando un irreale giuoco di ombre sulle pareti ed i fiori penetravano, con il loro odore acuto, nelle narici fino a stordire.
            Mio padre era morto.
            Il favonio, caldo e molesto, quel vento senza garbo che noi chiamiamo garbino, soffiava senza tregua e le préfiche, stanche, pregavano sommessamente.


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Da: 15 novelle in cerca di un lettore   di  Antonio D'Ercole  - Edizioni “Attraverso l'Abruzzo”  - Pescara 1959

ANTONIO  D'ERCOLE.  Nato a Scerni ( CH ) il 9/2/1907  Morto a Chieti il 17/7/1991, di professione farmacista, oltre alle numerose pubblicazioni di carattere scientifico, fu saggista, scrittore e poeta. Alcuni titoli:
  • La Fede – Arte Tipografica Casalbordino 1952
  • Terra Nostra – Arte Tipografica Casalbordino 1953
  • La Radiosquadra – Piccola monografia su Scerni con raccolta di poesie dialettali – Arte Tipografica Casalbordino 1953
  • Quando si cade nella palude – Arte Tipografica Casalbordino 1953
  • San Panfilo – Arte della Stampa Francavilla a Mare 1954
  • Sulle coste dell'Osento – Arte Tipografica Casalbordino 1956
  • La Scuola Agraria – Arte della Stampa Casalbordino 1957
  • Chinte de lu Sinelle – Edizioni “Attraverso l'Abruzzo” Pescara 1958
  • Li tradiziune – Edizioni “Attraverso l'Abruzzo” Pescara 1958
  • Quindici Novelle in cerca di un lettore – Edizioni “Attraverso l'Abruzzo” 1959
  • Una Storia interessante ( San Silverio Papa ) - Ed. “Attraverso l'Abruzzo” 1960
  • La Madonna del Carmine in Tornareccio – Edizioni La Stampa Atessa 1960
  • Lu Ritorne – Ed. Centro Studi Abruzzesi ( Quaderni di poesia dialettale ) Pescara 1969
Fu Comandante Partigiano meritando il “Certificato di Patriota” firmato dal generale Alexander e ottenendo nel 1984 dal Presidente Sandro Pertini il “Diploma d'onore al combattente per la libertà d'Italia 1943 - 1945”
Consigliere Provinciale ed Assessore  per la Democrazia Cristiana

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