Esistono due edizioni del componimento, una pisana e
l’altra fiorentina, entrambe pubblicate tra
l’estate e la fine del 1799. L’edizione pisana è composta dal canto estemporaneo seguito da due sonetti “In occasione della consolante notizia della presa di Roma”, e “Per la felice nuova della resa di Mantova”, senza l’indicazione dell’autore, ma senz’altro riconducibili allo stesso Rossetti.
l’estate e la fine del 1799. L’edizione pisana è composta dal canto estemporaneo seguito da due sonetti “In occasione della consolante notizia della presa di Roma”, e “Per la felice nuova della resa di Mantova”, senza l’indicazione dell’autore, ma senz’altro riconducibili allo stesso Rossetti.
Nella nota di presentazione, lo stampatore si rivolge
al lettore: “Le consolanti notizie
ricevute in pochi giorni della liberazione di Napoli, della salvezza di Roma,
della Rigenerazione della nostra Toscana… hanno elettrizzato in tal maniera
un’improvvisatore, che estemporaneamente fece un bel lungo canto, nel quale
tutte vengono, e colla massima esattezza compendiate le vicende delle mentovate
Città, e Potenze, e la loro sorte. Il un’elogio del medesimo sarebbe inutile
essendo ben noto alla Repubblica Letteraria, e Socio di più illustri Accademie.
L’opera porta in fronte il di lui nome anagrammatico, ch’è Stitemenios
Veldacodrotos. Il giudizio della sua bellezza, e delle sue grazie si appartiene
agl’intendenti della Poesia, e delle belle lettere…”.
L’edizione fiorentina, al contrario della prima, è
un’antologia di componimenti vari con l’aggiunta del poemetto del Rossetti,
messa ben in risalto dal tipografo, che non si risparmia negli elogi: “In ultimo luogo”, precisa lo stampatore
nella presentazione dell’opera, “hò
creduto bene di porre un Poemetto estemporaneo, di uno dei più bei geni
Italiani, che contiene un allegoria piacevole: che fa conoscere di che cosa sia
capace l’autore, allorché scriver voglia con presentimento, e ponderazione. Lo
stile berniesco con cui è scritto, servir potrà di chiaro scuro all’altre
composizioni Eroiche, che lo precedono”.
Le altre composizioni presenti nel volume sono l’ode
che da il titolo al volumetto, opera di Giovan Battista Tavanti, un sonetto di
Vincenzo Monti, due sonetti di Gaetano Capponi e dell’avvocato Verdiano
Francioli, ottave di Pietro Bagnoli e per finire ancora un sonetto senza
l’indicazione dell’autore, dal titolo Per
la consolante notizia della presa di Roma, la stessa presente nell’edizione
pisana, come già detto riconducibile al
Rossetti.
Il componimento del letterato vastese è formato da
cinquantasei ottave con lo schema tipico dell’ottava toscana, ovvero una strofa
composta da otto endecasillabi rimati, che seguono lo schema ABABABCC, con i
primi sei endecasillabi a rime alternate, e gli ultimi due a rima baciata, ma
diversa da quella dei versi precedenti.
Ci troviamo davanti ad un Rossetti decisamente
ispirato, capace di fotografare, attraverso un godibile canto allegorico, gli
eventi che hanno portato alla cacciata dei francesi.
Allo spuntar dell’Oriente il giorno,
Che lasciansi le pinme in abbandono,
Molti giovani Galli al grano intorno
Avidi stean mangiando, e poiché sono
Rissosi, ed aman farsi oltraggio, e scorno
Nell’imbeccarne l’uno il pieno, il buono,
L’altro l’adocchia, e per rubarglielo, ecco,
Che il becco gl’introduce entro del becco.
Quello si sforza ritenerlo forte,
Ma alfin lo lascia, e l’altro l’inghiottisce,
Per vendicarsi il primo, e dargli morte
Più volte con il becco lo ferisce,
Il secondo si volta, e in guise accorte
Da colpi ulteriori si schermisce,
E l’ali aperte, e il collo gonfio, aspetta
La mossa ostil per muoversi con fretta.
Perdon, vincono, ed incita il dolore
A nuovo scontro i Galli inviperiti,
Ergon le creste altere, e con furore
Saltano a un tempo istesso, e son colpiti,
Pugnano gl’altri in simile tenore,
E si tarpano ben coi colpi arditi,
Ma passa il tempo, e passa più d’un ora,
E la guerra de’ Galli dura ancora.
I Galli, ovviamente sono il nemico dichiarato, quel
popolo rissoso venuto nel nostro paese come dominatore. Ma un’Aquila passa in
volo e getta lo sguardo severo sui Galli. L’Aquila, probabilmente Ferdinando
III, che è il re di tutti i volativi, mostra tutta la sua forza e minaccia di
far pentire i Galli di tanto orgoglio.
Un Gallo ribelle esce dal gruppo e non ha paura di
affrontare il Re “Tu che pretendi, o
bestia altera, e infesta, / Uccellaccio deforme, e maledetto? / Che Re? Che
pene? Di che mai favelli? / Re sarai delli Gufi, e Pipistrelli. / Oppur comandi
sopra le Civette, E sopra li vigliacchi Barbagianni; / Scarica il tuo furor,
vibra saette, / E procura di farci tutti i danni, / Che noi (per dirla con
parole schiette) / Ci ridiamo di te, se ci condanni, / Ed a lungo con noi non
si contrasta, / Rifletti, che siam Galli, e tanto basta”. Gli altri Galli
approvano ciò che afferma il primo e cominciano
a darsi beffe del Re invitandolo ad andarsene (chiaro invito al Re a
lasciare Firenze), altrimenti “ti
romperem sul capo la corona”.
Il Rossetti descrive il Gallo come un animale
presuntuoso e pieno di sé, dall’occhio vivace e attento, col portamento
signorile, che mostra in tutta la sua bellezza l’ampio petto, energico e
virile, ali e cosce ben fatte e piedi gentili, in pratica Natura non può far di più perfetto. Anche fra gli uomini i Galli
hanno una grande stima, e molti popoli si sono piegati davanti alla loro
potenza e “Ognor più s’ingrandisce, ognor
più puole, / E in breve giungerà pur la sua gloria, / Fin dove spunta, e ove
tramonta il Sole…”.
L’Aquila ha ascoltato in silenzio e con indifferenza;
guarda i Galli con un leggero sorriso quasi in segno di un felice presagio.
Si avvicina all’Aquila una gentile Passerina e
cinguettando porta importanti notizie: “Da
Napoli ne vengo, e con diletto / Più d’un Gallo vid’io disteso, e morto; /
Quella gente formato un stuolo eletto / Ha vendicato alfin il regio torto, / E
di taglienti accette ai colpi spessi / L’Albero cadde sopra i Galli stessi”.
Molti Galli cercano di opporre una strenua resistenza, mentre molti altri vengono
fatti prigionieri e altri vengono feriti o cadono sul campo. Un frate forte e
coraggioso si distingue in particolare, il suo nome è fra Diavolo, che grazie
alla sua furbizia riesce a sconfiggere più volte i francesi in varie imboscate.
Dopo il racconto della Passerina, un maestoso Pavone
si avvicina al Re, s’inchina e annuncia che Firenze e tutta la Toscana è libera: solo a
sentire il nome di Austriaci e Aretini, i Galli per la paura grande e veemente, fuggono oltre i confini come timide lepri innanzi ai cani. Tra
la popolazione è tornata la gioia e la serenità e le madri baciano l’innocenti figli.
Mentre il Pavone termina il suo racconto si avvicina
una Beccaccia e annuncia un grande evento: Mantova è resa. E prosegue: Di cento, e più cannoni il vivo fuoco, / E
dal rumore l’orecchio destro ho sordo; / Fiamme, e fumo era l’aria a poco a
poco / E lo stuolo de’ Galli empio, e balordo, / Dopo tre giorni alfin ceder
dovette, / Perché ognor più incalzavano le strette. / Il nome tuo glorioso alto
risuona / Nella Cittade, ed i trofei son teco, / E d’applausi alle voci ognor
rintruona, / E ripete il tuo nome un nobil eco; / Più splende or la tua fulgida
corona…
Mentre l’Aquila gode a sentire le parole del Pavone,
sopraggiunge un Colombo, dalle piume bianchissime, che annuncia la liberazione
di Roma, seguito da un Corvo dall’aspetto poco invitante. Ripreso dall’affanno
del faticoso viaggio, il Corvo racconta di provenire da Genova dove si è
combattuta una tremenda guerra, che forse
l’egual non fuvvi in terra: cinquantamila Galli armati e disperati si
opposero, senza trovare scampo, contro i guerrieri austriaci, Ma per gli Austri decise alfin la sorte, / E
i Galli ebbero insiem perdita, e morte.
L’ultima novella è di una vivace Rondinella
proveniente dal lontano Egitto, che annuncia la sconfitta di Napoleone: Io gli ho veduti, e nulla ometto, o celo, /
Bonaparte tremava non affann., / Ed i Galli dicean sebbene armati / Miseri noi
sarem tutti impalati. / Molti di lor perirono in battaglia, / Ed a Maometto il
sangue lor fu offerto; / E i corpi marci di sì rea canaglia / Fur cibo
d’avoltoi nel campo aperto…
Dopo aver ascoltato attentamente i messaggeri,
l’Aquila guarda con ironia i Galli, che fino a poco prima lo avevano schernito
e dice: Or più non celebrate, e la
vittoria ? / Ma compire vogl’io la vostra gloria… Quindi, chiama a raccolta
tutti i suoi sudditi (Sparvieri, Cuculi,
Fregioli, Nibbj, Tordi, ecc.) i quali gli si schierano davanti, ed emette
la sentenza: …popol mio diletto, e caro /
Giudici voi ne siate competenti, / È in vostra man la pena, od il perdono, /
Fate ciò che vi par: io torno al trono. E qui si consuma la tragica fine
dei Galli: Sopra de’ Galli smorti, e
impauriti / Piomban gli Augei furiosi a cento a cento / E nel corpo gli fan
buchi infiniti / Coi becchi, e con l’artigli a lor talento / E Chi la cresta
mangia, e chi i squisiti / Bargilli, ed altri l’ali, altri le cosce, E morirono
in mezzo a tante angosce.
Qui termina il canto estemporaneo che, come spiega il
Rossetti, negli ultimi due endecasillabi Lettor,
tu sai, che in favola, o mistero / Spesso com’ora si contiene in vero.
Il
canto può essere letto integralmente sul sito web della Biblioteca Digitale
“Carlo Bonetta”, al seguente link
http://www.bonettaweb.it/Bibliofilia/Libri/Libro002.pdf
Lino
Spadaccini
Ferdinando III |
Gen. Suwarow |
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