lunedì 17 giugno 2013

PALAZZO DELLA PENNA: DA SONTUOSA VILLA DEI D'AVALOS A ORFANOROFIO GENOVA RULLI

 In 4 puntate di Lino Spadaccini la storia del Palazzo dei "Cento Diavoli", ora in totale abbandono. 

A parte la storica residenza di Palazzo d’Avalos, c’è un fattore che accomuna tutti i palazzi fatti costruire dalla famiglia d’Avalos nella nostra città: sono tutti in stato di miserevole abbandono. Quelli che una volta erano lussuosi palazzi o ville, fatte costruire per lo svago e le villeggiature nelle amene campagne vastesi, oggi sono poco più che ruderi, abbandonati e pericolanti. Stiamo parlando di Villa Cipressi, in Via Pescara, di Villa Frutteto, della palazzina a San Lorenzo, di quella in via Santa Lucia e del Palazzo della Penna.
Il Palazzo della Penna venne fatto costruire da Innico III d’Avalos, che si era spostato nella nostra città nel 1598, insieme alla cugina Isabella d’Avalos. “Il Signor Marchese di Pescara D. Innico figlio di D. Cesare d’Avalos”, scriveva lo storino Nicola Alfonso Viti, “fece fabricar questo Palazzo a’ tempi nostri, nel cui edificio si spesero molte migliaia di docati, et allora le vigne della contrada della Penna andarono allo sterile et alcune torri e case ch’erano in quel contorno si distrussero per servitio di questa fabbrica”.
Lo storico Luigi Marchesani riferiva che
LE RARE FOTO DEGLI INTERNI DEL PALAZZO >>>
la costruzione del palazzo ebbe termine nel 1615. Probabilmente questa data deve riferirsi al solo fabbricato principale, in quanto altri lavori vennero effettuati nel 1621, quando l’Università di Vasto diede al Marchese tre migliaia di sassi provenienti dal porto della Meta, da utilizzare per il Palazzo della Penna. Mentre altri lavori vennero commissionati nel 1699 all’ingegnere veneto Daniele Galante ed al fabbricatore Giovanni Di Benedetto di Vasto.
Posto su uno spianato a circa 6 chilometri da Vasto, in bella posizione che un tempo dominava la sottostante valle del torrente Lebba, oggi invase dalle industrie, il Palazzo ha pianta quadrata, fortificata agli spigoli da quattro baluardi, un cortile spazioso, ampie sale, semicircondata da un recinto anch’esso protetto agli spigoli da bastioni e comprensivo di una serie di fabbriche adibite a locali di servizio. Arredato con eleganza, il palazzo fu frequentemente abitato sia dal suo fondatore, che dai suoi figli, Ferrante e Diego, nonché dal nipote Don Cesare Michelangelo. Così lo descrisse Tommaso Palma nel 1703, nel suo “Compendio istorico dell’antichissima terra del Vasto”: “…Le campagne sono tutte carrozzabili, ed amene, e precise le spaziose della Penna, dove poco distante dal mare vi è un famosissimo Casino fatto in forma di Fortezza con quattro Baloardi. Vi si ponno in esso collocare trè Principi colle loro famiglie per cagion di diporto. Le camere sono allegrissime, e l’architettura delle finestre, e delle porte è così bella per la loro regolarità corrispondenza, che reca gran meraviglia, à chi l’osserva. Gli Eccellentissimi Padroni vi sogliono andar spesso, non solo per occasione di villeggiatura, ma più per loro divozione, stante vi è poco lungi una Chiesa detta di Nostra Signora della Penna…”. Altra descrizione, molto più completa e dettagliata, è presente nell’Apprezzo del 1742, conservata manoscritta nell’Archivio storico G. Rossetti.
Il 20 giugno del 1711, il palazzo venne saccheggiato dai turchi. “Ad hora nove della notte giunsero due galere turchesche nella Lebbe”, si legge nella “Cronaca vastese” di Diego Maciano, “et ivi se ne andarono nel Palazzo di S.A. con rovinare tutto, cioè pigliarono da sei portieri, da diciassette forme di cascio, una bellissima reliquiaria, molti specchi ed altre robbe. Oltre di questi ruppero molti specchi grosssi, tutte le vitriate con intentione di mettere fuoco a detto Palazzo, perché avevano riuniti tutti li banchi, arcibanchi, boffette, sedie nel mezzo di ciascheduna camera, e sala e perché no hebbero tempo per l’aggiunto del popolo della Città lasciarono imperfetto il loro disegno”.
Il canonico Diego Maciano in data 25 febbraio 1713, annotava il rientro del Marchese Don Cesare Michelangelo d’Avalos, dopo dodici anni di esilio per motivi politici. Appena si sparse la notizia dell’arrivo del Marchese, molti cittadini accorsero a piedi per rendergli omaggio. Dopo l’arrivo della Marchesa D. Ippolita, insieme agli altri membri della casa marchesale, si diressero tutti alla chiesa della Madonna della Penna dove “si fece un gran sparo da 40 huomini Missonesi, e poi si disse la messa, e poi si cantò il Te Deum”.
Il dominio di Don Cesare Michelangelo segnò il periodo di maggior splendore nella storia del palazzo. Restaurato ed abbellito, l’edificio ospitò molti personaggi del Regno, che si fermavano nella nostra città, come il Connestabile Fabrizio Colonna, che venne a Vasto per ricevere il collare dell’Ordine del Toson d’Oro.

Durante la permanenza nella nostra città, per tre volte fu condotto a visitare il Palazzo della Penna.
Lunedì 25 ottobre 1723, dopo il pranzo “in tre mute a sei si andò al Palazzo della Penna, la più grande villa suburbana di proprietà marchesale a tre miglia dal Vasto. Dopo la visita di tutto l’interno, sontuosamente arredato”, ricorda ancora il Maciano, “al Connestabile furono mostrati otto magnifici cavalli morelli compagni per una muta ed una coppia di cavalli molto grandi per un cocchio. Il cavallerizzo, a nome del Marchese, disse che quei cavalli erano a disposizione del Connestabile, al quale in quel momento venivano donati. Il Principe regalò subito al maestro di stalla dieci doppie ed al cavallerizzo un anello di diamanti con due rubini”.
Con la morte di don Cesare Michelangelo, avvenuta nel 1729, il Palazzo cadde nell’abbandono più totale, diventando luogo malsano e solitario, intorno alla quale la fantasia popolare intrecciò storie paurose di diavoli e streghe. Da qui, probabilmente anche la nascita del nome di Palazzo dei Cento Diavoli, perché secondo la leggenda in una notte spuntarono i tredici comignoli, oppure le storie nate intorno alla famosa grotta della Carnaria, ed al tunnel che probabilmente la collegava al vicino Palazzo della Penna. Luigi Anelli nel suo volume “Origine di alcuni modi di dire popolari nel dialetto vastese”, ricordava il detto “Va a chiamà’ lu duiàvele a la grotte di la Carnarejje”, come consiglio dato a chi ha la volontà di arricchire.
Nel 1835 la tenuta fu acquistata da Giuseppe Antonio Rulli, il quale provvide a restaurare il Palazzo, a ristabilire i coloni e bonificare le paludi della zona. Grazie alla munificenza del barone Luigi Genova, morto all’età di novantadue anni, il palazzo divenne sede dell’Orfanotrofio per orfanelle, e rimase aperto fino agli anni ’80, per poi ricadere ancora, e questa volta chissà per quanti anni ancora, nel più miserevole abbandono.
 Lino Spadaccini

LE RARE IMMAGINI  DEGLI INTERNI DELL'ORFANOTROFIO GENOVA RULLI CON SEDE NEL PALAZZO DELLA PENNA  ANNI '50


I BAGNI

IL DORMITORIO

IL REFETTORIO

LA CAPPELLINA

LA CAPPELLINA

LA CUCINA

UN'AULA




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