lunedì 16 aprile 2012

Speciale Disfida di Barletta: RICCIO DE PARMA E' DI VASTO! (prima puntata di 4)

Documenti alla mano Lino Spadaccini ripercorre l'antica diatriba su Riccio De Parma: è nato a Vasto o a Soragna in provincia di Parma? Noi vastesi abbiamo sempre dimostrato, dal 1500,  che l'eroe della disfida di Barletta è di Vasto! I dettagli in queste 4 puntate.
 di LINO SPADACCINI
In un interessante articolo dal titolo “Il crepuscolo della cavalleria e l’avvento del soldato gentiluomo: la disfida di Barletta mezzo millennio dopo”, l’autore, Angelo Scordo, in merito alla provenienza di Riccio de Parma, afferma che «Si è, però, scoperto indubitabilmente che era nativo di Vasto e si chiamava Pietro Riccio». Un’affermazione molto importante questa per la nostra città, per secoli isolata a combattere una battaglia per vedere riconosciuti i propri diritti su uno dei tredici valorosi italiani che hanno combattuto in quel fatidico 13 febbraio 1503, nella storica “Disfida di Barletta”. Un esempio è
la lettera di protesta inviata alla rivista Radiocorriere TV, nel novembre 1959, da un arrabbiato Ugo Talamazzi, da far pubblicare a rettifica di un articolo precedente, dove si affermava che Riccio da Parma fosse di Soragna. «Preciso che l’eroico Riccio da Parma – scrive il giornalista vastese  ̶  fu cittadino di Vasto, ridente città adriatica in provincia di Chieti. E difatti l’Aedo dell’epico combattimento, svoltosi fra Quarata e Andri, così cantò: “Riccius e Parma insignis, qui gloria Vasti”. Inoltre, dai manoscritti, dai documenti e dalle memorie lasciatici dal giureconsulto Virginio Caprioli, dallo storico Nicola Alfonso Viti, da G. Battista Pacichelli, da Luigi Marchesani, da Luigi Anelli e da altri, risulta in modo inequivocabile che Riccio da Parma fu cittadino vastese e che Parma era il suo cognome».
Come segnalato dal dott. Talamazzi, primo presidente dell’Assostampa vastese, diverse sono le fonti storiche che inequivocabilmente riconducono la figura di Riccio da Parma a Vasto, ma altrettanta documentazione storica è stata fornita anche da altre città pretendenti.
Barletta, monumento alla Disfida

Epitaffio della disfida di Barletta
La Disfida di Barletta
L’11 novembre 1500, Luigi XII di Francia e Ferdinando II d’Aragona, firmarono il Trattato di Granada, con la quale si accordarono sulla spartizione, in parti uguali, del Regno di Napoli, all’epoca governato da Federico I di Napoli: Calabria e Puglia agli spagnoli e Abruzzo e Campania ai francesi. L’anno successivo, le truppe francesi e quelle spagnole, che nel frattempo acquisirono il supporto dei Colonna, potente famiglia romana, penetrarono in territorio napoletano rispettivamente da nord e da sud. Federico I fu presto costretto alla resa e il suo regno fu diviso tra Francia ed Aragona. L’accordo venne ben presto disatteso, soprattutto a causa dello scontento di molti baroni ed influenti signori del regno di Napoli. La tensione progressiva si suggellò in alcune battaglie che videro protagonista il valoroso cavaliere Ettore Fieramosca. Nel frattempo aumentarono gli scontri tra gli eserciti francesi e spagnoli, con continui sconfinamenti in aperta contraddizione col trattato.
Alle volte, anziché a scontri in campo aperto, si ricorreva a sfide in ambito cavalleresco, come, ad esempio, quella che ebbe luogo il 20 settembre 1502 fuori dalle mura di Trani, nella quale si affrontarono undici cavalieri spagnoli e altrettanti francesi.
In un successivo scontro nei pressi di Canosa di Puglia, le truppe spagnole, guidate da Diego de Mendoza, catturarono vari soldati francesi, fra cui il nobile Charles de Torgues, soprannominato Monsieur Guy de la Motte. Il 15 gennaio 1503, durante un banchetto indetto da Consalvo da Cordoba, in cui vennero invitati anche i prigionieri, la Motte contestò il valore dei combattenti italiani. Lo spagnolo Diego López de Ayala difese invece con forza gli italiani, affermando che i soldati che ebbe sotto il suo comando potevano essere comparati ai francesi quanto a valore. Probabilmente alticcio, la Motte rincarò la dose con pesanti insulti all’indirizzo dei cavalieri italiani. In pochi minuti le voci giunsero a Prospero e Fabrizio Colonna e ad Ettore Fieramosca, che si trovavano nella casa di Prospero, poco distante dal luogo del banchetto. Si decise così di risolvere la disputa con un duello: la Motte chiese che si sfidassero tredici cavalieri per parte il giorno 13 febbraio.
I due Colonna si occuparono di mettere insieme la squadra italiana, contattando i più forti combattenti del tempo. Il loro capitano sarebbe stato Ettore Fieramosca. Questo l’armamento in dotazione degli italiani: due stocchi, il primo lungo e largo, da punta e taglio, fermato all’arcione sinistro, ed il secondo, più lungo ed aguzzo, pendente dalla cintola; scure pesante da boscaiolo; lancia “forte”, più lunga di mezzo braccio di quella usata dai francesi; cavalli difesi da frontale e corazza da collo di ferro lucido e con il petto e la groppa protetti da arnese di cuoio; corazza d’acciaio da battaglia per i cavalieri.
I cavalieri italiani e spagnoli pernottarono ad Andria, per essere più vicini al campo di battaglia. All’alba seguirono la messa nella Cattedrale e al termine Ettore Fieramosca giurò e fece giurare, dinanzi l’altare, che sarebbero morti piuttosto che rimanere vinti.
Il campo di battaglia venne delimitato dai giudici delle due parti con un solco. Gli italiani furono i primi a giungere sul posto, seguiti da lì a poco dai francesi, che ebbero il diritto di entrare per primi. Le formazioni di cavalieri si disposero su due file ordinate, contrapposte l’una all’altra.
Il primo scontro non causò gravi danni alle parti, se non qualche lancia rotta, ma mentre gli italiani mantennero salda la posizione, i francesi si trovarono per un attimo disorganizzati. Due italiani furono disarcionati, ma una volta rialzatisi cominciarono ad ammazzare i cavalli dei francesi, costringendoli a piedi. Non potendo usare le lance, a causa del forte vento, vennero utilizzati gli stocchi, le scuri e le mazze ferrate. Tutti i francesi vennero catturati, feriti o costretti ad uscire dal campo di battaglia. L’ultimo di loro, Pierre de Chals, coperto di ferite, continuò a battersi strenuamente, fino a quando un giudice di campo gli salvò la vita, dichiarandolo arreso.
Grande fu il tripudio degli italiani, mentre i Francesi, sicuri della vittoria, non avevano portato con sé i soldi del riscatto, stabiliti in 100 ducati d’oro per ciascun cavaliere e, per questo, furono rinchiusi nella prigione di Barletta. Tornarono il libertà solo dopo che Consalvo da Cordoba pagò di persona l’intera somma.

Lino Spadaccini

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