di LINO SPADACCINI
In un interessante articolo dal titolo “Il crepuscolo della cavalleria e l’avvento del soldato gentiluomo: la
disfida di Barletta mezzo millennio dopo”, l’autore, Angelo Scordo, in
merito alla provenienza di Riccio de Parma, afferma che «Si è, però, scoperto
indubitabilmente che era nativo di Vasto e si chiamava Pietro Riccio». Un’affermazione molto importante questa
per la nostra città, per secoli isolata a combattere una battaglia per vedere
riconosciuti i propri diritti su uno dei tredici valorosi italiani che hanno
combattuto in quel fatidico 13 febbraio 1503, nella storica “Disfida di
Barletta”. Un esempio è
la lettera di protesta inviata alla rivista Radiocorriere TV, nel novembre 1959, da
un arrabbiato Ugo Talamazzi, da far pubblicare a rettifica di un articolo
precedente, dove si affermava che Riccio da Parma fosse di Soragna. «Preciso che l’eroico Riccio da Parma –
scrive il giornalista vastese ̶ fu cittadino di Vasto, ridente città
adriatica in provincia di Chieti. E difatti l’Aedo dell’epico combattimento,
svoltosi fra Quarata e Andri, così cantò: “Riccius e Parma insignis, qui gloria
Vasti”. Inoltre, dai manoscritti, dai documenti e dalle memorie lasciatici dal
giureconsulto Virginio Caprioli, dallo storico Nicola Alfonso Viti, da G.
Battista Pacichelli, da Luigi Marchesani, da Luigi Anelli e da altri, risulta
in modo inequivocabile che Riccio da Parma fu cittadino vastese e che Parma era
il suo cognome».
Come segnalato dal dott. Talamazzi, primo presidente
dell’Assostampa vastese, diverse sono le fonti storiche che inequivocabilmente
riconducono la figura di Riccio da Parma a Vasto, ma altrettanta documentazione
storica è stata fornita anche da altre città pretendenti.
Barletta, monumento alla Disfida |
Epitaffio della disfida di Barletta |
L’11 novembre
1500, Luigi XII di Francia e Ferdinando II d’Aragona, firmarono il Trattato di
Granada, con la quale si accordarono sulla spartizione, in parti uguali, del
Regno di Napoli, all’epoca governato da Federico I di Napoli: Calabria e Puglia
agli spagnoli e Abruzzo e Campania ai francesi. L’anno successivo, le truppe
francesi e quelle spagnole, che nel frattempo acquisirono il supporto dei
Colonna, potente famiglia romana, penetrarono in territorio napoletano
rispettivamente da nord e da sud. Federico I fu presto costretto alla resa e il
suo regno fu diviso tra Francia ed Aragona. L’accordo venne ben presto
disatteso, soprattutto a causa dello scontento di molti baroni ed influenti
signori del regno di Napoli. La tensione progressiva si suggellò in alcune
battaglie che videro protagonista il valoroso cavaliere Ettore Fieramosca. Nel
frattempo aumentarono gli scontri tra gli eserciti francesi e spagnoli, con
continui sconfinamenti in aperta contraddizione col trattato.
Alle volte, anziché a scontri in campo aperto, si ricorreva
a sfide in ambito cavalleresco, come, ad esempio, quella che ebbe luogo il 20
settembre 1502 fuori dalle mura di Trani, nella quale si affrontarono undici
cavalieri spagnoli e altrettanti francesi.
In un successivo scontro nei pressi di Canosa di Puglia, le
truppe spagnole, guidate da Diego de Mendoza, catturarono vari soldati
francesi, fra cui il nobile Charles de Torgues, soprannominato Monsieur Guy de la Motte. Il 15 gennaio
1503, durante un banchetto indetto da Consalvo da Cordoba, in cui vennero
invitati anche i prigionieri, la
Motte contestò il valore dei combattenti italiani. Lo
spagnolo Diego López de Ayala difese invece con forza gli italiani, affermando
che i soldati che ebbe sotto il suo comando potevano essere comparati ai
francesi quanto a valore. Probabilmente alticcio, la Motte rincarò la dose con
pesanti insulti all’indirizzo dei cavalieri italiani. In pochi minuti le voci
giunsero a Prospero e Fabrizio Colonna e ad Ettore Fieramosca, che si trovavano
nella casa di Prospero, poco distante dal luogo del banchetto. Si decise così
di risolvere la disputa con un duello: la Motte chiese che si sfidassero tredici cavalieri
per parte il giorno 13 febbraio.
I due Colonna si occuparono di mettere insieme la squadra
italiana, contattando i più forti combattenti del tempo. Il loro capitano
sarebbe stato Ettore Fieramosca. Questo l’armamento in dotazione degli
italiani: due stocchi, il primo lungo e largo, da punta e taglio, fermato
all’arcione sinistro, ed il secondo, più lungo ed aguzzo, pendente dalla
cintola; scure pesante da boscaiolo; lancia “forte”, più lunga di mezzo braccio
di quella usata dai francesi; cavalli difesi da frontale e corazza da collo di
ferro lucido e con il petto e la groppa protetti da arnese di cuoio; corazza
d’acciaio da battaglia per i cavalieri.
I cavalieri italiani e spagnoli pernottarono ad Andria, per
essere più vicini al campo di battaglia. All’alba seguirono la messa nella
Cattedrale e al termine Ettore Fieramosca giurò e fece
giurare, dinanzi l’altare, che sarebbero morti piuttosto che rimanere vinti.
Il campo di battaglia venne delimitato dai giudici delle due
parti con un solco. Gli italiani furono i primi a giungere sul posto, seguiti
da lì a poco dai francesi, che ebbero il diritto di entrare per primi. Le
formazioni di cavalieri si disposero su due file ordinate, contrapposte l’una
all’altra.
Il primo scontro non causò gravi danni alle parti, se non
qualche lancia rotta, ma mentre gli italiani mantennero salda la posizione, i
francesi si trovarono per un attimo disorganizzati. Due italiani furono
disarcionati, ma una volta rialzatisi cominciarono ad ammazzare i cavalli dei
francesi, costringendoli a piedi. Non potendo usare le lance, a causa del forte
vento, vennero utilizzati gli stocchi, le scuri e le mazze ferrate. Tutti i
francesi vennero catturati, feriti o costretti ad uscire dal campo di battaglia.
L’ultimo di loro, Pierre de Chals, coperto di ferite, continuò a battersi
strenuamente, fino a quando un giudice di campo gli salvò la vita,
dichiarandolo arreso.
Grande fu il tripudio degli italiani, mentre i Francesi,
sicuri della vittoria, non avevano portato con sé i soldi del riscatto,
stabiliti in 100 ducati d’oro per ciascun cavaliere e, per questo, furono
rinchiusi nella prigione di Barletta. Tornarono il libertà solo dopo che
Consalvo da Cordoba pagò di persona l’intera somma.
Lino Spadaccini
Nessun commento:
Posta un commento