1956: il crollo del Muro delle Lame. L'imponente chiesa di S. Pietro ancora intatta. |
Ampia ricostruzione storica
di LINO SPADACCINI
Il 22 febbraio 1956 - esattamente 56 anni fa- si abbatteva su Vasto una delle più
gravi sciagure della sua storia, quando un vasto movimento franoso faceva
scivolare a valle una buona parte del Muro delle Lame.
Già nei giorni scorsi, in seguito alle abbondanti e
prolungate nevicate cadute sulla nostra città, era salita alla ribalta delle
cronache la frana del 1956. Dopo la caduta A SEGUIRE LE FOTO DELLA FRANA
di un albero e parte della
recinzione nei Giardini Napoletani di Palazzo d’Avalos, e la comparsa di una
vistosa crepa lungo la sottostante parete, più di qualcuno ha fatto risorgere
gli spettri di 56 anni prima. Fortunatamente le condizioni sono cambiate e
bisogna sempre tener conto che, proprio in seguito alla frana del 1956, sono
stati eseguiti ingenti lavori di sistemi drenanti per l’intercettazione delle
acque.
Ma torniamo a quei tragici momenti ancora impressi
negli occhi di molti vastesi.
Nel settembre del 1955 erano già comparse le prime
preoccupanti crepe sulla strada e nelle case di Via Adriatica, non risparmiando
anche una parte dei locali della chiesa di S. Pietro. “Per problemi di sicurezza furono fatte sfollare molte famiglie”,
ricorda don Michele, decano dei sacerdoti vastesi, “La chiesa era ancora aperta, ma a causa della comparsa di alcune crepe
nella canonica, Don Romeo era andato ad abitare nei locali della Madonna delle
Grazie, mentre io prima sono stato ospite di mio fratello a Corso Dante e poi
ho trovato casa in Via Lago. Il 22 febbraio, giorno della tragedia, ero nella
cappella di S. Giovanni Battista, mentre sbrigavo le pratiche per un
matrimonio, quando all’improvviso abbiamo sentito un rumore assordante,
sembrava lo scoppio di una bomba, perché stavano cedendo parte della canonica e
del salone parrocchiale”.
Le persone sfollate furono accolte nell’asilo comunale
tenuto dalle Figlie della Croce, nelle altre scuole e in alcune strutture
pubbliche. “Dietro l’abside della chiesa
c’erano rimasti ancora 3 o 4 metri di terreno”, ricorda ancora don Michele,
“ma con la successiva frana cedette tutto
fino all’abside e si formò una nuova spaccatura che interessò la volta, il
pavimento del presbiterio e la cripta di S. Espedito. Nel 1957 io, don Romeo, Giuseppe Spataro e i
tre priori delle confraternite, ci siamo recati a Roma dal ministro dei Lavori
Pubblici Romita, ma non ci fu nulla da fare, ormai era stato deciso
l’abbattimento della chiesa: salvare la chiesa e ricostruire il muraglione
sarebbe stato troppo costoso”.
Quando
si parla della frana, la cosa che colpisce di più sono le immagini strazianti
di una città ferita (vedi foto Archivio Ida Candeloro), ma è anche importante
capire le cause che hanno provocato questa sciagura. Da più parti vennero sollevate
accuse alle autorità competenti e anche politiche, locali e nazionali, per aver
sottovalutato un problema che ha origini lontane. I primi scoscendimenti si
registrarono verso la fine del 1700, ed altre di modeste dimensioni, ma non per
questo meno allarmanti, durante tutto l’800, fino ai primi anni del secolo successivo
ed alle ultime avvisaglie del 1953. Per non parlare poi della rovinosa frana
del 1816, che fece sprofondare a valle il costone dalla Loggia Amblingh fino a
San Michele.
Nel
1905-1906 venne effettuato un primo rilevamento di tutta la zona da parte del
prof. Sacco, ma solo nel 1955, pochi mesi prima della frana, il Genio Civile di
Chieti elaborò un piano di indagini costituito da una serie di rilevamenti
geomorfologici sia nel sottosuolo di Vasto e nella parte più a est verso il
mare.
L’indagine
permise di ricostruire tutta la formazione stratigrafica del suolo sottostante
Vasto, ed in particolare permise di constatare che la piattaforma di Vasto aveva
una potenza di circa 30 metri costituita da 12 metri da sabbie sciolte, 3 metri
da sabbia e ghiaia ed altri quindici metri da sabbie dal contenuto argilloso.
La formazione sabbiosa era interessata, per circa 10 metri al di sopra del
contatto con le argille compatte, da una falda acquifera di notevole intensità,
quantificabile in 5-6 litri al secondo.
A
conclusione degli accertamenti fu indetto nel marzo del 1956, dal
Provveditorato Regionale alle OO.PP. dell’Aquila, un sopralluogo di tecnici a
Vasto, con la partecipazione del Ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Romita,
l’on. Giuseppe Spataro, tecnici ed esperti del Genio Civile e rappresentanti
dell’ANAS e delle Ferrovie dello Stato. Si concluse che la frana di Vasto era
riferibile a due fenomeni distinti seppur interdipendenti, che interessano
rispettivamente la zona a monte dei muri crollati e la zona a valle di questi
fino al mare. “Il fenomeno generale
poteva ascriversi fra quelli di tipo misto”, si legge nello studio redatto
nel 1961 da Giuseppe Vecellio, “a
comportamento solido plastico, avendosi sia distacchi e disquamazione da pareti
in sabbia lievemente cementate con superfici di distacco di neoformazione (zona
a monte), sia scorrimento per dislocazione plastica di masse caotiche
sabbio-argillose lungo il contatto con le argille compatte (zone a valle).
Infatti la frana di valle era alimentata dai prodotti degli scoscendimenti del
retroterra ed era mantenuta più o meno attiva dalle precipitazioni meteoriche e
dalle acque sotterranee provenienti da monte; entro certi limiti, perciò, tale
dislocazione di valle, in concomitanza con le acque sotterranee, agevola le
ulteriori disquamazioni di monte”.
Oltre
alla Settimana Incom, che ha dedicato un suggestivo servizio, con immagini
davvero toccanti, anche la stampa nazionale ha dato ampio risalto alla
tragedia, mettendo in prima pagine le immagini della frana. Il quotidiano
romano Il Messaggero, sabato 25
febbraio, pubblicava in prima pagina la foto del costone orientale franato in
prossimità della chiesa di San Pietro, con questa didascalia: “Il pauroso franamento della zona orientale
della città di Vasto. La fotografia da una idea approssimativa del tremendo e
oscuro flagello, che si estende fino al mare minacciando la strada statale e le
comunicazioni ferroviarie tra il Nord e il Sud. Il pericolo continua ad
incombere grave ed irreparabile”. Ampio risalto all’evento veniva dato dal
quotidiano l’Unità, che in data 24
febbraio titolava “110 famiglie senza
tetto per la paurosa frana di Vasto”, mentre sul quotidiano Avanti! si leggeva: “La frana oggi verificatasi non è una cosa
improvvisa, dovuta esclusivamente al maltempo che ha imperversato in questi
giorni in Abruzzo. Il maltempo, infatti, costituisce soltanto la causa
occasionale di un evento che doveva prevedersi da tempo”. Il quotidiano
torinese La Stampa, il 26 febbraio
titolava “Vasto sotto l’incubo d’una
frana”, accompagnato da una foto che immortalava l’abside della chiesa di
S. Pietro e la didascalia che recitava “se
questa non si arresterà il primo edificio travolto sarà la chiesa”. Il 1°
marzo, lo stesso quotidiano torinese titolava “Vasto si sgretola lentamente demolita dalla frana gigantesca”. Un
titolo drammatico che rispecchiava la situazione reale di quei giorni: “Se la frana continuerà il suo inesorabile
cammino, tra breve anche il centro della città rischia di essere inghiottito
dalla voragine. Le transenne di limitazione installate per evitare l’accesso
nella zona pericolosa dal 22 febbraio, vengono costantemente arretrate... La
terrazza d’Abruzzo, così è sempre stata denominata la cittadina, va lentamente
sgretolandosi di fronte agli sguardi impotenti dei suoi abitanti. Le strette
vie della zona orientale, per buona parte travolte, sono alla mercé della frana
che, simile a un mostro silenzioso, distrugge implacabilmente ciò che l’uomo,
con l’aiuto di Dio, è riuscito a creare. Dove un giorno erano case, negozi,
magazzini, ecc. oggi un cumulo di macerie sta a indicare l’entità del disastro.
Persiane sgangherate, relitti di mobili, tracce inconfondibili di ciò che era
Vasto, giovedì sera”. L’inviato de La
Stampa continuava a descrivere i danni alle strutture, le evacuazioni, con
le persone fatte ricoverare provvisoriamente presso alcune scuole e istituti, e
le iniziative in corso per allontanare le opere d’arte custodite all’interno
della chiesa di San Pietro.
Lino
Spadaccini
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