sabato 21 maggio 2011

CARLO D'ALOISIO DA VASTO, A 40 ANNI DALLA MORTE



INTERVISTA A GIOVANNI D'ALOISIO, FIGLIO DEL NOTO PITTORE VASTESE
 
di Lino Spadaccini
 
Il 2011 è un anno pieno di date significative per quanto riguarda l’arte vastese del Novecento: dopo  Luigi Martella, per i cento anni dalla nascita, e Filandro Lattanzio, in occasione dell’inaugurazione dell’importante mostra allestita a Palazzo D’Avalos nel venticinquesimo dalla morte, oggi ci soffermeremo su un altro pittore, forse il più rappresentativo e famoso del panorama artistico novecentesco vastese, Carlo D’Aloisio da Vasto, di cui il prossimo 21 novembre ricorrerà il quarantesimo dalla morte.
Carlo D'Aloisio da Vasto
Dopo aver lasciato la città natale all’età di sedici anni, alla volta di Roma, dove c’erano maggiori  possibilità di successo e di lavoro, Carlo D’Aloisio esordisce come xilografo, collaborando a vari periodici tra i quali “La Rivista d’Oggi”, “L’Attualità”, “Il Romanzo dei Piccoli”, “Emporium”, “Satana Bebba” e “Corriere dei Piccoli”, oltre ad illustrare molte copertine di libri stampati per case editrici quali Carabba, Mondadori, Trevisani, Maffei e Berlutti. Notevole è anche la produzione pittorica con numerose personali in Italia e all’estero, oltre che a mostre collettive, Biennali e Quadriennali. Carlo d’Aloisio è stato anche ideatore e compilatore de L’Almanacco degli Artisti. Il Vero Giotto, pubblicato dal 1930 al 1933, per cui Renato Guttuso scrisse: “Chi volesse farsi un'idea della società artistica e letteraria di una cinquantina d'anni or sono non dovrebbe trascurare di dare un'occhiata all'almanacco intitolato il Vero Giotto e dovuto all'iniziativa appassionata di Carlo d'Aloisio da Vasto”. Nel 1927 sposa Elisabetta Mayo, anch’egli artista di notevoli capacità, in particolare nella scultura, da cui nascono cinque figli: Beniamino, Giovanni, Anna, Paolo e Rosario.
Per celebrare e riscoprire questi due artisti, che devono rappresentare un vanto per la nostra città, abbiamo rivolto alcune domande al figlio, Giovanni D’Aloisio, che ringraziamo per la cortesia e la disponibilità dimostrataci e per la preziosa testimonianza che ci ha lasciato, che contribuirà a farci sentire più vicino questa straordinaria famiglia.
Prima di parlare dei suoi genitori, ci parli di lei. Chi è Giovanni D’Aloisio?
Sono il secondogenito di cinque figli nati da Carlo D’Aloisio e Elisabetta Mayo. Dal primo parto di mia madre nacque in clinica Beniamino che poi sposò Ornella Nasci, da cui ebbe Francesca. Io invece nacqui, come si dice, “in casa”. In realtà la nostra casa era un enorme “studio artistico” con una intera parete in vetro che si affacciava dal secondo piano su viale Giulio Cesare 51. Mentre Beniamino (in famiglia Mino) sin da piccolo si divertiva a leggere o a giocare, io ero più attratto dai lavori artistici di mio padre e di mia madre e la cosa che mi faceva sentire importante era assisterli nel loro lavorare occupandomi di preparare, lavare e riporre i pennelli e la tavolozza di papà e pulire le stecche, bagnare i panni e poi stenderli sulla massa di creta ancora informe e sui lavori ancora in creazione di mamma. Il resto del tempo stavo li a guardarli, ora l’uno, ora l’altro, mentre creavano l’opera. È così che divenni poi, e sino alla mia maggiore età, l’aiutante fidato dello studio dei miei genitori.
Quale ricordo ha di suo padre?
Il ricordo che ho di mio padre è quello di una guida che sempre e ancor oggi mi riempie. Mi apre ancora ogni giorno e mi accompagna ancora ogni sera. La sua figura resta per me un modello a cui riferirmi. Fino alla sua morte c’è stato fra noi due un rapporto sempre attento e puntuale, sia di aiuto reciproco e sia di attenzione. Quando non avevo impegni scolastici lui mi portava con se nel suo ufficio di direzione del Museo di Roma - sezione moderna - in via dei Cerchi, dove io passavo il tempo a girare nelle diverse sale per guardare le grandi tele dipinte, le scene della vita romana riprodotte al vero con i manichini vestiti in costume e il treno papale di Pio IX . Tutte cose scelte, reperite e ordinate con fatica da mio padre. Negli anni successivi, alla fine della seconda guerra mondiale, mio padre propose e ottenne che il Museo di Roma venisse trasferito da via dei Cerchi a Palazzo Braschi. Allora l’edificio era vuoto, abbandonato e mal ridotto prima dai tedeschi e poi dagli sfollati. Mio padre ottenne di riportarlo alle originarie condizioni affidandone l’opera all’Istituto Superiore della Conservazione e del Restauro. Io ho affiancato mio padre in questa operazione, giorno per giorno, sino a quando oramai maggiorenne (frequentavo il terzo anno dell’ Università di Architettura) la Direzione delle Antichità e Belle Arti del Comune di Roma mi affidò di progettare e realizzare la ricostruzione al vero delle scene della “Roma sparita” e il disegno per la pavimentazione del cortile del palazzo. In quel periodo mio padre venne confermato nel ruolo di direttore e conservatore del Museo di Roma, del Museo Napoleonico, del Museo Baracco, della Galleria Comunale di Arte Moderna e del Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale.
Il ricordo più significativo della “attenzione” di mio padre verso gli artisti e l’arte di quel periodo, resta quello dell’apertura al totale colloquio tra gli stessi che sino ad allora si era limitato ai pochi frequentatori del Caffè Aragno. Da ciò con l’Almanacco degli Artisti e l’apertura del suo stesso studio all’andirivieni dei nomi più significativi della cultura venne a prodursi il vero “colloquio” dal quale e con il quale poi venne a riconoscersi quella che sin da allora il critico Giuseppe Pensabene definì la “Scuola Tonale Romana”. Una Scuola di sostanziale dialogo e non già scuola di sola adesione convenzionale di artisti raccolti in elenco quale quella che per anni si è definita prima come “scuola di via Cavour” e poi, successivamente, per “Scuola Romana”.

DOMANI LA SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA

1 commento:

giusfra.poll ha detto...

Avrei chiesto al figlio dell'artista, a parole così fiero di tale padre, così giustamente convinto delle qualità non solo artistiche (ma da operatore della cultura) del genitore..., come mai abbia lasciato nell'incuria quel piccolo riquadro (minimo e sciatto) che indica, al Camposanto, dove dimorano le sue spoglie mortali. Proprio da questo blog lo abbiamo visto com'era ridotto, vergognandocene ...noi vastesi tutti!

Cosa ha fatto poi questo figlio? Un'informazione, ritengo, per niente oziosa da avere. Voglio sperare, visto che un figlio c'è (a suo tempo potevamo anche dubitarne), che quel minimo di riassetto al loculo l'abbia dato. Vogliamo andare a vederlo? Altrimenti saremmo ancora una volta a parlare del vento, con le chiacchiere. GFP