Da http://www.rivistapaginauno.it/violenzaallathyssenkrupp.php
Durante le infuocate assemblee e manifestazioni per i morti alla Thyssenkrupp è stato più volte citato “Cristo fra i muratori” di Pietro Di Donato, figlio di Vastesi emigrati in USA ad inizio novecento.
L’ha citato molte volte Giovanna Cracco nella sua rivista e sito PaginaUno. Ecco un passo pubblicato nel 2008:
“Nel corso del 2006, 1302 persone sono morte sul posto di lavoro, nella sola Italia”(…) Morire sul lavoro è improvvisamente diventato un caso da prima pagina e argomento di dibattito televisivo. Eppure nulla è cambiato: oggi come ieri, ogni giorno in Italia perdono la vita, lavorando, più di quattro persone (è sufficiente fare un banale calcolo matematico); ma se non muoiono ‘in gruppo’ non sembrano essere reali. (…)..
Il processo di produzione capitalistica è finalizzato al profitto, non alla salvaguardia dei bisogni umani. (…) Dal punto di vista del proprietario dei mezzi di produzione, investire parte degli utili nei corsi di formazione per i dipendenti, nell’assunzione di figure lavorative quale quella del manutentore, nel mantenere gli standard di sicurezza sugli impianti e nell’ambiente di lavoro, è un investimento a perdere; denaro mal speso, perché non produce reddito.
Geremia è capomastro. Ha esperienza, ha costruito tanti grattacieli in terra americana, dove è emigrato in cerca di lavoro. I suoi figli parleranno inglese e Paolino, il maggiore, “Paolino mio lo fo studiare sui libri, diventerà ‘nu celebre costruttore. Mi par di vederlo... Quello si farà onore. Nessun figlio di Geremia poserà mai mattoni, v’ ‘o dich’io”. Pietro Di Donato ambienta il suo romanzo Cristo fra i muratori – pubblicato nel 1944 da Bompiani e oggi, purtroppo, introvabile – negli anni Venti del Novecento. “Mi piace poco” pensa Geremia. “Fa presto il padrone a gridare: Avanti col lavoro, avanti col lavoro. Non sa dir altro quell’americano dei miei... Ho un bel da dirgli che la base dovrebb’essere il doppio più spessa, un bel cantargli che quei pilastri vecchi andrebbero demoliti; lui macché, paga da bere all’ispettore e sbraita: Via di là, bastardo, non toccarmi quel pilone, sta bene com’è, non toccarlo”. Ma Geremia non è persona da mollare: “«Volevo dire, Mister Murdin, che le fondamenta, per essere sicure...» «Oh sentite, pezzo di scimunito, se non vi piaccion le cose come le voglio io, sapete cosa vi resta da fare». [...] Ma la casa che s’era comprata e il pupo che stava per arrivare e tutto il suo passato concorsero a tener lontano dalla bocca di Geremia il calice amaro dell’umiliazione patita e gli fecero piegare la testa. Nunziatina parlava di rovistare tra i secchi dei rifiuti, per nutrire i bimbi, caso mai dovesse restar disoccupato...”
Il capomastro ci riprova ancora, ma il padrone nemmeno lo fa parlare. “Sconcertato, Geremia si voltò a osservare con apprensione le membrature, e il suo occhio esperto annotò nella mente le molte violazioni ch’eran già state commesse contro la sicurezza dell’edificio. Sotto l’acuto senso di disagio, curvò le spalle come un vecchio”. E poi accade.
“[...] l’impiantito ondeggiò sotto i suoi piedi e lo slittamento della base si ripercosse rombando su per le membrature ancora instabili dell’edificio. [...] Gli uomini restarono stecchiti sul posto. Le loro gole volevano gridare, urlare, ma non osavano. Per qualche secondo tutta la squadra fu un corteo d’anime impietrite e tese. Poi la base del loro mondo crollò. Un fremito violento scosse tutto il palazzo, i pilastri rovinarono con lo schianto degli alberi d’una foresta in fiamme, le fondamenta rigurgitarono. [...] Con la velocità della luce, il mondo traballò da far nausea e uomini impietriti dallo spavento furono proiettati in aria. Il palazzo si abbatté furioso su di loro. Muri impalcature macigni rotaie divennero onde, vortici, girandole di schegge che esplodevano in detonazioni assordanti e maciullavano uomini e materiali”.
Geremia, Giacomo, Nicola detto Quaresima, Tommaso, Giulio detto Proboscide, vengono sepolti vivi dal palazzo. Perché quasi sempre, morire sul lavoro, è anche morire di una morte atroce”.
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