mercoledì 28 luglio 2010

INDOVINELLI VASTESI DI FINE OTTOCENTO

di Lino Spadaccini

Francesco Pisarri, in un suo appassionante articolo sulle tradizioni vastesi pubblicate sulVastese d’Oltre Oceano alla fine degli anni ’20, ricordava che gli indovinelli vastesi hanno una spiccata tendenza al doppio senso. Ce ne sono alcuni molto scabrosi, nati dalla storpiatura dialettale di alcuni termini quali “il dormire”, “i maccheroni”, “la chiave” e “la saponetta”. Oggi nulla più fa scandalizzare, ma negli anni ’20 il pudore era molto alto e il Pisarri cita quattro indovinelli per così dire più ingenui.


“Canda cale, cale ridenne;

Canda sajje, sajjè piagnenne!”

(il secchio)


“Mezz’a la jerve e sopr’a li fratte,

vete na cose, che va uatte, uatte.

Porte li fiasche e vine nin g’è…

Porte li corne e vove nin è.

Nghi la cipolle e lu rusmarine

Ci li facete nu fiasche di vine”.

(la chiocciola)


“Tinghe na cosa tonne, e nin è monne!

È verde e nin è jerve!

È rosce e nin è sanghe, e foche manghe!

È acche e lu bicchiere nin di serve!

Chi cosa è, ji proprie ni li sacce:

Mégne, béive e t’arreve la facce!”

(il cocomero)


Tinghe nu scattuline,

nghi cende stippitine…

e ogni stippitine

tè’ cende cumbuttine.

(la melagrana)


Voglio chiudere con un altro indovinello raccolto da Gennaro Finamore nell’area di Vasto, dove è più evidente il gioco dei doppi sensi in materia sessuale:

“Una signora si è posta al letto;

le si presenta un giovinetto,

con una cosa tosta e dura,

circa un palmo di misura.

Glielo mette sotto la pancia,

giusto l’uso e la costumanza”.

(la botte e lo zipolo)

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