giovedì 18 giugno 2009

LETTURE SOTTO L'OMRELLONE: da stampare e gustarsi al mare

Francescopaolo (Cicco) Spadaccini racconta
AVVENTURE ANNI '60: QUANDO ANDAVAMO A PRENDERE LE COZZE ALLA SCOGLIERA






Sono certo che questo ricordo sarà comune alla totalità, o quasi, della popolazione maschile di Vasto; anzi, di molte generazioni.
I fatti ricordati sono veri e così i protagonisti, ma sono sicuro che se mettete altri nomi, di vostri amici, la storia non cambia di molto. Proverò anche a riproporre i dialoghi tipici, sperando di riprodurre i suoni, e mi scuserete se ci scappa qualche “ruciulone” ogni tanto.
Siamo io (C, il pedante), Enzino (E, il casinista) e Tonino (T, il normale); compagni di scuola, ma anche e soprattutto amici di strada.
Primavera inoltrata, fa già caldo e siamo già in maniche corte. Un sabato sera, domani non c’è scuola; abbiamo appena fatto una dozzina di vasche strusciando per piazza Rossetti, ora siamo appoggiati al muro delle lame e cazzeggiamo. Ci passiamo a turno una esportazione per una boccata. Non è una canna, ma è come se lo fosse. Siamo presi dal panorama che non ci stanca mai.

E: ma guard ch’ belle mere, oh, ... ninzi move na foje!
T: dumane a da’ esse bunazze mangh’n’ucchie..., oh!! vulème jè a tòie du ciocchele?
E: sciè sciè (si), iè ci vinghe però ieme sott’a’ sandanichèle; sacc’je nu pust addò è gruss ‘gne na mène.
Provo a farli ragionare...
C: pover’ammà, dù (due) miciezie tinghe e tutt’e dù scime: ‘gna ci vì senza l’attrazze? ci vò la maschere, lu mattavelle, la cammera d’aria...
Enzino è come al solito incontenibile:
- ecchè civò, jè tinghe tutt’sott a lu lette, ‘ngi mette niente a’ppriparè.
Tonino si associa: - pure jè so prante e ti..?
Ormai in minoranza aderisco
vabbù vingh pure jè, però jeme preste e non come l’addra vodde, prest.. prest... prest e doppe s’è fatt’e mezz’iurne e sezz’àte lu muere (è diventato mosso il mare).

Decidiamo di trovarci in tal posto alle cinque dell’indomani. Io, come al solito pedante, arrivo puntuale. E’ ancora scuro e fa un po’ fresco. Uscendo di casa ho fatto rumore e mia madre è venuta a controllare; più o meno sta succedendo lo stesso nelle altre due case.
- Che’ssuccèsse, si cascate da lu lette?
- No mà, vai a cavè du ciocchele a sandanichèle?
- Ma ti sì scimineite? ‘nghi su fredde addò vì? ...e pètte (tuo padre) li sà?
- ‘Ndì pruccupè, jìaffunnàme all’acche a li dèce cand’a’sa’àzze lu sole. Papè ‘nza niende, dijìli ti?
- Sciè, acusciè s’ncazz ‘nghi’mà e chi li vò sindè. Almene pùrtite cacchecchèse da magnè!

E qui rifiuto il paninazzo con la frittatella, errore di cui più tardi mi pentirò amaramente.

Sono il primo; alcuni minuti dopo arriva Tonino sbadigliando rumorosamente: - tingh’nu suonne...
Passano interminabili altri minuti e, come al solito, Enzino è in ritardo.
C: oh, cullù jè prupete na coccie di cazz; ‘nge’stà niende da fè; ogn’e vodde è sta cummedie. Mo li jeme a chiamè sott’a la case.

Così ci avviamo sotto casa di Enzino. E’ tutto chiuso e non c’è alcuna luce accesa. Sappiamo la finestra della camera sua e cominciamo a chiamarlo tra il sussurro e il grido.
- oh, ‘nzino, ..’nzinooo.
Niente da fare. La cosa va avanti un quarto d’ora. Tonino intanto si è seduto appoggiato al muro e ha ripreso a dormire; io sono incazzato come una biscia perchè me la fa ogni volta.
Dopo l’ennesima chiamata con lancio di sassolini, finalmente s’affaccia tutto scarmigliato, appena svegliatosi e, incredibile, chiede. – oh, ma chi ora jè?
C: eh’ sapunè, è già li sii (6); spicciate, ascinne sibbite si nà je me ne vaje a la case e vaffangùle ti e li ciocchele, ...e ‘ndi fermè abbeve lu lattuccie di mammè.
E: Cicchepà, canda sì pesande; ...pi deci minite stiff’à na traggèdie.

Finalmente scende, sveglio Tonino che intanto si era appisolato, e inveendo contro me stesso ci avviamo verso la meta. Enzino non mi si fila proprio; lui è fatto così: non percepisce le conseguenze delle cose che combina.
Camminiamo tra le strade cittadine ancora deserte; qualche spazzino e qualche Ape di quelli che vanno al mercato; passiamo Portanuova, shangai, via Santalucia; si è fatto chiaro e la giornata si presenta bellissima.
L’incazzatura è passata, e dopo un periodo di silenzio sonnolento cominciamo a carburare e scherzare tra noi. Io per vendicarmi un po’ del ritardo subìto, provoco Enzino.
- si purtète la maschere?, - sciè
- e lu mattavèlle?, - pure qualle
- e lu salvaggènde?, - sciè, sciè, .... mamma’mà...ndi puzze sindè chiu. Però l’hàmma abbuttè (gonfiare) pecchè n’hai truvete la pompa.
- oh, ...jè li sapàve..., mi la ditte la coccie ca tì cacchese aveà cumbunè; coma cazz ll’abbutt mè, ngh’ la vacc (bocca)?
- oh, ndi’ncazzè, ca la jurnete e longhe; evvabbù, ci penze jè.

Finita la strada normale, ci inoltriamo in un viottolo di campagna per scorciatoia. Camminiamo in fila indiana. Abbiamo zoccoli ai piedi e sono scomodissimi sulle zolle. Passiamo davanti ad una masseria e un cane spelacchiato ci si avventa contro abbaiando. Meno male che è incatenato.
Tonino gli fa il verso e quello si arrabbia ancora di più. Finanche le galline nell’aia si sono zittite.
Più sotto, richiamato dal cane, il contadino alza gli occhi e ci squadra con cipiglio. Non ce li toglierà di dosso finchè non sareme spariti sotto nel valloncello. E’ sospettoso e sa che con noi è cominciato quel via vai sul suo campo che durerà tutta l’estate e dovrà stare attento ai suoi alberi da frutta.

Superiamo la ferrovia; finalmente l’ultimo costone e poi la spiaggetta di ghiaia. Non c’è nessuno. Il mare è una tavola. C’è odore di coraine e altre alghe seccate dal sole. Dove trovi un posto più bello di questo?
Ci spostiamo sulla destra, è il nostro solito posto di sosta. La prima cosa che facciamo è saggiare l’acqua.
E: - però, ...è jilete l’àcch (acqua).
C: - qanda sì trapelèine; t’affinne e doppe ‘nzìnde chiù ‘niende.

Gli zoccoli fanno da appoggio per i vestiti, all’ombra sotto uno scoglio ripieghiamo i pantaloncini e la maglietta; in mezzo l’orologio se non è waterproof.

I pochi metri da fare scalzi sulla ghiaia sono una tortura per i piedi; sbandi, inciampi, ti riprendi a stento; pensi che era meglio se ti portavi le pinne, ma chissà dov’erano.
L’acqua è effettivamente un po’ fredda e man mano che ci affondi ti viene di urlare; alla fine siamo tre che urlano come ossessi per contrastare il freddo dell’acqua. Uno, due e tre, finalmente in acqua.

Prepariamo con cura la tensione della cinghia della maschera; la proviamo più volte. Poi sistemiamo il tubo; qualche rapida immersione per provare lo sfiato, poi è tutto pronto.
Da quel momento ci parliamo con voce nasale per via della maschera che chiude il naso. Ultime raccomandazioni.
E: Oh, jè me ne vajje a èlle; se la ritrève, ci’a’ddà stà na chiande bell’piena.
C: ‘ninfa scimitè e nint’allundanè. Tonì, si truve robb’abbune chiamame accusciè (così) stème avvuneite (assieme).

Ci separiamo e cominciamo la pesca. Brevi immersioni, poi sbuffi d’acqua dal tubo. Ci controlliamo l’un l’altro e non ci perdiamo di vista. Talvolta ti giri ma non li vedi, allora rimani fuori ad aspettare che riemergano; passano alcuni secondi, un po’ ti preoccupi, poi finalmente gli sbuffi d’acqua e ti rassicuri.
In acqua le voci e i rumori si propagano nitidi e così si può sentire bene ogni cosa anche i colpetti di tosse di Tonino o le sputazzate di Enzino.
Essendo un incorreggibile sbruffone, ogni cinque minuti Enzino urla: - madonne canda ci ni stè, je grusse ‘gne le paparozze!.
T: -Cicco, vì a’ecche; ci sta pure du o tre cannille e je piene di lampadeine (sa che a me piacciono).

La pesca va avanti per un’ora, un’ora e mezza. Abbiamo rimediato con un cannizzo sgangherato al salvagente sgonfio. Ogni tanto portiamo le cioccole sul cannizzo e controlliamo quantità e grandezza. Sostiamo qualche minuto appoggiati alle canne; non lo diciamo apertamente, ma quelle sul cannizzo sono più piccole delle cozze che ci sembrava di prendere. Già. E’ l’effetto lente della maschera, che ti fa apparire tutto più grande sott’acqua. Poi riprendiamo.

Nonostante il sole abbia scaldato l’aria, cominciamo a sentire freddo. Un buon nuotatore sa che non deve insistere. Ci riuniamo al cannizzo e lo spingiamo a riva. Di nuovo il tormento della ghiaia sotto i piedi, ma adesso è peggio perchè dobbiamo spingere a secco il cannizzo con tutte le cozze sopra. Usciamo dall’acqua intirizziti ma felici perchè la pesca è stata buona: è la prima della stagione ed è la più bella. La ghiaia è calda quando ci distendiamo sulla schiena. Un po’ alla volta riprendiamo calore e a pensare. Allora ti accorgi di avere una fame da lupo e ti maledici per non aver accettato il paninazzo da mamma.
Hai sete e senti il salato in bocca, ma ti piace, è gustoso.
Il sole ti sta asciugando e la pelle ti tira per il sale che si rapprende. Ti devi riassestare il “contenuto” del costume perchè sta riprendendo le dimensioni normali; prima in acqua era quasi sparito per il freddo.
Sono quasi le dieci e devi uscire dal torpore.

C: Uhè, uagliù, spiccemece a pulè li ciocchele ca si fa tarde; jamme sì.

Ora ci mettiamo in cerchio e un po’ per volta prendiamo pugni di cozze che ripuliamo accuratamente dalle alghe e da altro materiale estraneo. Quelle ripulite le mettiamo nelle sacche di rete. Le cioccole sono belle, cicciottelle, profumano di mare pulito, alcune sono già lucide, altre irte di incrostazioni e ciuffi d’alghe. Ci passi un’oretta così, chiacchierando di cose sceme e prendendoci in giro l’un l’altro. Quando i sacchetti sono pieni li facciamo roteare sulla ghiaia del bagnasciuga per ripulirli con l’acqua del mare, poi li lasciamo a bagnomaria.
Il solito spaccone rompe il silenzio:
E: - oh, a nu certe mumente hai viste na mielle ca iere grosse ‘gne stu vraccie;
C: - ma statte zette, si nu palluneire, forse avà’èsse nu vuavase e ‘ndi ni sì ‘ndunate (accorto);
T: - je ‘nvece hai viste na sacce (seppia) gross’accusciè;
E: - eheee,... eheeee, ‘gne la ciuccie di sorte (tua sorella), ..eheee....
T: - uè, ti la da finè ‘nghe sorme, sennà ti spacc’ la coccie;
C: - avaste mè, jamme (forza) ca sème quase finite
E: - mamme, ... tinghe na sate ca mi bevesse na varlotta d’aqqa.
T: - la prossima vodde jama urganizzè chiu maje; ‘hamà purtà l’aqqa e nuccone di frutte;
C: - sciè, vabbù; ogne vodde dicème sembe la stessa chese e doppe cu lu sapunare manghe sa rivaije (rivolto ad Enzino).

Ora il sole picchia un pochino; lo sentiamo sulle spalle e la schiena. I capelli sono arruffati e induriti dal sale. La peluria giovanile sul corpo sembra cosparsa di una polvere bianca.
Riordiniamo le cose, sistemiamo in secca il cannizzo e riprendiamo la via del ritorno. Sarà più dura perchè fa caldo, siamo affamati e assetati e ci dobbiamo portare in spalla il sacchetto delle cozze.
La salita del costone è impegnativa; il viottolo è quasi sparito nella sterpaglia cresciuta d’inverno. I rami più lunghi dei rovi di more (li mirachele) hanno spine aguzze e ti sgraffiano le gambe e le braccia, poi il sale ti fa sentire il bruciore. Davanti ai piedi ti scappano piccole lucertole e qualche serpentello spaventati.
La sete aumenta e stai sudando. Pensi a quando avrai modo di bere finalmente e sogni quel momento.
Proprio per la sete si decide di ripassare davanti a S.Nicola; là c’è una fontanella.
T: - Cicco, secondo te truvame l’aqqa a la funtanelle?
C: - e chi li sà, si sandanichèle ci vò bene...allàre l’aqqa l’amà truvé, sinnà ....
E: - si nin truvame l’aqqa jè colpe di Tonino, pè tutte le seghe che si fà, a fatte ‘ncazzè a lu sande ...
T: - dice ammà, abbate a tà ca cià rimene cicate...
E: - ..cichète?...e ‘cchì ti l’accundète sa fissarè?
T: - mi l’haditte nonnò...e si l’ha dìtte àsse caccòse di viritè cià da stè...
E: - ma vaffangùle....

La marcia continua così tra frizzi e lazzi. La salita ora è meno ripida; da lontano scorgiamo la chiesetta, ma la fontanella è ancora nascosta.
Dai sacchetti esce un rivolo d’acqua che si mischia con il sudore della schiena e ti fa solletico. Le cozze ci grattano la spalla ad ogni passo. Arrivano pure le api a ronzarti attorno.
Siamo alla sommità del colle, ora la vediamo distintamente la fontanella, ma non si capisce da qui se c’è acqua o no. Avvicinandoci facciamo scongiuri; non parliamo nemmeno per non irritare il Santo e pure perchè abbiamo le fauci completamente asciutte.
Ora la fontanella è in mezzo a noi; la guardiamo e abbiamo quasi paura di ruotare la levetta del rubinetto e rimanere delusi. Il pozzetto di sotto è asciutto: brutto segno. Però fa caldo, non è detto.
Sono io a fare la manovra; sbuffi d’aria escono per primi, un fischio, poi niente, ancora un fischio, qualche spruzzo incerto, poi sempre più schizzi e finalmente un getto d’acqua calda come il piscio.
L’accogliamo con un urlo di gioia. Dobbiamo far scorrere per attendere l’acqua fresca; intanto ci spintoniamo per rinfrescare i piedi, luridi di terra e di sale.
La prima acqua fresca è per il viso, le braccia, il tronco; prima di bere sul serio vuoi essere pulito per goderti fino in fondo il sapore dell’acqua dolce.
Metti la testa sotto il getto d’acqua; ora è veramente fresca e ti arriva al cervello.
Il primo sorso serve a sciacquare la bocca, purificarla. Il secondo è quello buono, quello che ti spazza via la calura e che te lo senti spandere per tutto il corpo.

E: - cand’è ‘bbòne l’aqqa!!! (una frase che ripeterà spesso negli anni seguenti).

Ora che ci siamo dissetati a volontà, scherziamo schizzandoci l’acqua addosso; addirittura direttamente dalla bocca. Ci siamo sciacquati e risciacquati; quasi ci dispiace di chiudere il rubinetto, lo stesso che capita quando hai un bel fuoco e non vuoi spegnerlo.
Rifacciamo la strada del mattino, rinfrancati e orgogliosi dei nostri sacchetti di cozze. La città è oramai animata e le persone ci guardano; ma più che noi guardano le nostre prede. Perchè a Vasto è così, quando vedi uno con le cozze ti fai tutto un giro di pensieri: ora ci vado anch’io, chissà dove le hanno prese, sono belle grandi, quasi quasi glie le compro.

Qualche anno fà in aereo mi sottoposero un modulo per sondaggi sulla soddisfazione della clientela. Una delle domande era “quali sono stati i momenti in cui vi siete sentiti felici”.
C’erano alcune risposte guidate, tipo promozioni, matrimonio, nascite, poi c’era la voce Altro e un rigo per scrivere.
Io ho scritto “Quando c’era l’acqua alla fontanella di SandaNicola”.
Chissà la faccia dell’analista quando ha letto questa risposta.
FRANCESCOPAOLO SPADACCINI

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