venerdì 22 febbraio 2019

Nel 1956 la frana di Vasto (1di 5): ricordi di una delle più gravi sciagure della nostra città


 di Lino Spadaccini 

Il 22 febbraio 1956 si abbatteva su Vasto una delle più gravi sciagure della sua storia, quando un vasto movimento franoso provocava il crollo di una buona parte del Muro delle Lame.
Quando si parla della frana, la cosa che colpisce di più sono le immagini sconvolgenti di una città ferita. Eppure, il tragico evento non è giunse all’improvviso: da più parti, negli anni precedenti la sciagura, vennero sollevate accuse alle autorità competenti e politiche, locali e nazionali, per aver sottovalutato un problema che ha origini lontane. I primi scoscendimenti si registrarono verso la fine
del 1700. Nel 1816 ci fu la rovinosa frana che fece sprofondare a valle parte del costone orientale dalla Loggia Amblingh fino a San Michele. Altre frane di modeste dimensioni, ma non per questo meno allarmanti, si verificarono durante tutto l’800, fino ai primi anni del secolo successivo ed alle ultime avvisaglie del 1953. A tal proposito, leggiamo direttamente le parole del Gen. Michele D'Adamo, a quel tempo Commissario Prefettizio, pubblicate il 18 luglio 1957, a margine di un articolo del compianto Angelo Cianci: "Nel 1953, fui Commissario Prefettizio al Comune di Vasto ed in quell'occasione mi accompagnai ad una numerosa commissione di ingegneri, tra i quali c'era il Capo Compartimento delle Ferrovie di Ancona. Detta commissione era venuta a Vasto per esaminare la situazione della frana. Al muro delle Lame i tecnici sostarono a lungo e ricordo che un giovane ingegnere mi spiegò che la soluzione più logica e più radicale per guarire una volta per sempre la città dall'incubo della frana, era quella di costruire un grande tunnel che partendo da Piazza del popolo e continuando per Piazza S. Pietro avrebbe dovuto dirottare le acque verso il Fosso di S. Sebastiano. Feci notare se non c'era il pericolo del cedimento dei fabbricati sovrastanti, ma l'ingegnere si mostrò ottimista pur non escludendo qualche grave lesione". Dell'opera prospettata dal giovane ingegnere non se ne fece nulla.
Nel settembre del 1955 già erano comparse le prime crepe lungo via Adriatica e su alcuni edifici, non risparmiando anche una parte dei locali della secolare chiesa di San Pietro. I tecnici del Genio Civile di Chieti elaborarono un razionale piano di indagini costituito da una serie di rilevamenti geomorfologici sia nel sottosuolo di Vasto che nella parte più a est verso il mare.
Ad ottobre, per scongiurare la frana, don Romeo Rucci decise di portare in processione, per le strade del centro storico, la reliquia del Legno della Croce. Oltre ai chierici, al parroco ed alle rappresentanze del comune con il Gonfalone, partecipò tantissima gente composta e commossa, ma già consapevole di quello che sarebbe potuto accadere da un momento all’altro.
In seguito al preoccupante evolversi della situazione, dopo ulteriori verifiche delle crepe, sempre più numerose e profonde, i tecnici comunali decisero l’evacuazione delle case più a rischio.
L’operazione non fu affatto semplice: a convincere la povera gente a lasciare le case, costruite con tanta fatica, intervennero non solo il sindaco, il segretario comunale ed il parroco don Romeo Rucci, ma anche le forze dell'ordine. Addirittura, una donna ostinata, per non lasciare la propria casa, si nascose in una buia soffitta. Quando venne trovata, tra le lacrime, gridò "Lasciatemi morire qui".
Il mese di febbraio del 1956 viene ricordato ancora oggi come uno dei mesi più gelidi di tutto il XX secolo.
Le nevicate cominciarono a scendere copiose nei primi giorni di febbraio, nelle aree interne ed anche sulla costa, e proseguirono intensamente per diversi giorni. Le precipitazioni nevose cessarono il 20 febbraio e, con l’innalzarsi delle temperature, la neve cominciò rapidamente a sciogliersi. Le successive abbondanti piogge contribuirono a peggiorare ulteriormente la situazione, che portò al collasso di tutto il costone orientale.
La mattina del 22 febbraio, alle ore 10,45 si udì un forte boato, simile allo scoppio di una bomba: una quarantina di case poste su via Adriatica, si staccarono dalle fondamenta, rovinarono su se stesse e cominciarono a scivolare verso il basso, alzando un immenso polverone. Fortunatamente, tutta la zona era già stata evacuata e le famiglie ospitate nei locali della scuola elementare.
Gli unici ancora presenti nella zona erano le suore delle Figlie della Croce, all’interno dell’asilo, e don Michele Ronzitti, che al momento del disastro si trovava nella cappella di S. Giovanni Battista, all’interno della chiesa di San Pietro, intento a sbrigare le pratiche per un matrimonio.
È Giorgio Pillon a raccontare quei convulsi momenti, quando le suore rimasero a vegliare il Sacramento custodito in un’artistica pisside dorata: "E fu proprio quando don Michelino Ronzittiprese la pisside e se la strinse al petto che si udì un lungo e sordo boato. Poi tutto prese a sussultare: i pavimenti, i soffitti, le pareti. Grossi squarci si aprirono qua e là mentre un polverone irrespirabile avvolgeva il sacerdote e le dodici monache. Suor Celestina gridò: «Gesù, salvaci!». L’asilo non crollò subito. Rimase invece ancora saldo mentre tutto intorno sprofondava. Fu così che don Michelino e le Suore poterono mettersi miracolosamente in salvo. Pochi minuti dopo anche l'asilo crollava… Don Romeo, il parroco quasi ottantenne, aveva dovuto anche lui sfollare, come molti altri suoi parrocchiani. Però appena seppe della frana corse verso la piazza, entrò in chiesa piangendo e cadde in ginocchio davanti la statua di San Pietro. Così lo trovarono alcuni fratelli della congrega. Il vecchio sacerdote pareva impazzito. Parlava da solo, invocava i Santi, biascicava una orazione. Ogni tanto ripeteva: «Santo Legno della Croce, proteggici tu!»".
In tutta la zona ci fu un fuggi-fuggi generale. Solo quando la situazione cominciò a calmarsi, pian piano la gente cominciò ad affacciarsi per cercare di capire quello che era successo. Dopo mezz’ora, tutta la popolazione si rimboccava le maniche e collaborava con le autorità.
Don Romeo Rucci, aiutato dai parrocchiani, provvide a trasferire le statue e le suppellettili presso la vicina chiesa di Sant’Antonio di Padova.
Due giorni dopo, il 24 febbraio, il parrocoorganizzò un’imponente processione religiosa con la statua di San Michele Arcangelo, le reliquie della Sacra Spina, del legno della Croce e quella del braccio di Santa Liberata. Inoltre, i parroci delle tre parrocchie, di comune accordo, decisero di esporre le reliquie più preziose conservate nelle rispettive chiese, per impetrare il soccorso e la protezione divina.
Subito dopo la processione scoppiò un violento temporale. Ci fu di nuovo tanta paura tra la popolazione. In molti pensarono che la pioggia violenta avrebbe completata l'opera di distruzione della frana. Durante le discussioni paesane, qualcuno osservò che era normale quella situazione, avendo portato in processione la statua di San Michele: "Ma il Santo viene portato per la città solo quando desideriamo che piova, quando vogliamo vincere la siccità estiva. Meglio sarebbe stato mostrare la statua di San Giuseppe". Ma in pochi badarono a quelle singolari osservazioni.
Altre 60 famiglie sfollate (per un totale di 117 famiglie ufficialmente registrate), vennero sistemate in gran parte nei locali delle scuole elementari e delle medie, dove ricevettero pacchi di viveri e indumenti forniti da privati, autorità ed enti.
Tra i primi provvedimenti del Governo, ci furono l’assegnazione di 50 milioni di lire per le opere di pronto intervento e per l’acquisto di case prefabbricate da assegnare agli sfollati, mentre l’Istituto delle Case Popolari, appaltò subito due lotti di 30 alloggi ciascuno, per l’importo di 104 milioni.
Una delle prime iniziative popolari fu la costituzione di un Comitato Civico per la raccolta di fondi a favore degli sfollati. In circa un mese si raggiunse la ragguardevole somma di 3 milioni di lire: un importo molto significativo in quanto le offerte giunsero spontaneamente da privati, a mezzo vaglia postali o cambiari, versati su libretti aperti presso la Cassa di Risparmio ed il Banco di Napoli.
Anche se l'attenzione principale era concentrata su via Adriatica, c'era la massima allerta anche in altre zone della città: al Rione S. Nicola, a Casarza ed a Torricella si registrarono i crolli di alcune case, mentre enormi boati provenienti dal sottosuolo vennero uditi dalla popolazioni nei pressi di piazza del Popolo e nel Rione San Michele. In via Tre Segni crollò definitiva la via che conduceva a Fonte Joanna; altri scoscendimenti e smottamenti del terreno continuarono particolarmente in tutta la zona sottostante.
Nonostante la situazione apparentemente tranquilla, l’Ufficio Tecnico comunale non cessò mai di monitorare tutta l'area. La mattina del 28 agosto, si notarono alcune profonde crepe, che destarono molta preoccupazione. Temendo un nuovo imminente movimento franoso, durante tutta la notte si vegliò alla luce dei riflettori. Il giorno successivo, verso le ore 13,30 l’imponente Palazzo Marchesani, fatto costruire dal leader della sinistra vastese, Francesco Ponza, in pochi istanti s’inabissò fragorosamente, lasciando il desolante spettacolo di un cumulo di mattoni e travi. Un’altra porzione di mura cittadine, per una lunghezza di circa 50 metri, si staccò dalla parete e scivolò a valle frantumandosi.
In quei giorni il dott. Luigi Peluzzo, sulle colonne dell'Histoniumpubblicò alcune considerazioni sulla frana. "…Intanto, ignari della tragedia ancora più tragica di quella da essi rappresentata, voglio dire della tragedia che nel cuore di ogni vastese si svolgeva, generosi ospiti artisti aprirono la sera stessa fra i pochi spettatori una sottoscrizione per i bambini sinistrati dalla frana dando essi per primi i proventi del proprio lavoro sudato. Slancio di generosità altamente encomiabile, ma pur stranamente contrastante con l'apparente apatia vastese! Ma era vera apatia? No! I vastesi amano la loro Vasto, e se nulla possono fare per renderla più bella e florida, vogliono almeno conservarla al loro affetto, al loro amore, alla loro memoria! Ma delle ombre si ergono nella caligine crepuscolare e sembra quasi che attendano avidamente il macabro spettacolo della ruina… Or son più di sei mesi che una mostruosa frana ha demolito una delle più pittoresche zone della Città del Vasto. Ed una delle più belle fra le belle strade di Vasto si è sprofondata nell'abisso. Un grande palazzo aveva resistito ed una grande Chiesa, monumento secolare di Cristianità e di Arte ispirata alla carità, all'amore e alla bontà, è rimasta, quasi presagio Divino, a dominare l'abisso sottostante. Che cosa è stato fatto in questi sei mesi per evitare ulteriori o maggiori disastri? Nulla! Si è dovuto attendere il nuovo movimento tellurico per giudicare sull'entità dei lavori da farsi e delle somme da stanziarsi. E forse si dovrà attendere ancora la sicura stabilizzazione dei movimenti in corso per poter iniziare i lavori di rastrellamento, di sondaggi, di demolizioni previsti dai progetti tanto affannosamente escogitati. Intanto il palazzo che aveva resistito è crollato. La Chiesa di S. Pietro sembra ancora ben piantata; ma, vivaddio!, se non si deciderà a crollare, ci sarà chi penserà a demolirla!". Parole quanto mai profetiche quelle di Peluzzo, a dimostrazione di un destino già segnato per la chiesa di S. Pietro.

Lino Spadaccini


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