LA
STRANA VICENDA DI UNA DIDASCALIA
di
Luigi Murolo
Ma
chi è quel cavaliere che, visibile sul fondo della scena di battaglia campale
cinquecentesca qui effigiata, riusciva a seminare morte e distruzione tra i
suoi avversari? Da lontano non lo si distingue. Ma chi gli era vicino, amico o
nemico, di certo ne aveva contezza. I
fendenti vibrati dall’alto verso il basso si accompagnavano agli altri che il
guerriero in arcione sferrava contro i combattenti del suo stesso rango. Una furia
bellica che, stando alla rappresentazione, non sembrava consentire il rimpiazzo
militare dei vuoti cagionati dall’impeto del vigorosissimo uomo d’arme(fig. 1).
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Museo Capodimonte, Napoli: Arazzo Battaglia di Pavia |
Ora,
per quanto si voglia, la grande estensione del pannello (32 mq) non permette il
riconoscimento a
distanza del personaggio in questione. La visione d’insieme esclude tale possibilità. Solo se ne si scompone la totalità figurativa, se si insiste sul particolare – o, meglio, sul frammento –, l’opera può esibire qualche utile dettaglio identificativo.Ecco che, allora, diventa fondamentale accostarsi all’immagine. Indugiare con la camera sulle singole parti che la costituiscono. D’improvviso, la narratiocumfiguris s’arricchisce di una didascalia originaria che, a mo’ di fumetto, si trova a disvelare il mistero addensato su colui che montava quella sorta di«cavalloverdastro», cavaliere – va detto – che, come si leggenell’Apocalisse di Giovanni,poteva essere enfaticamente definito «Morte e gli veniva dietro l’Inferno».
distanza del personaggio in questione. La visione d’insieme esclude tale possibilità. Solo se ne si scompone la totalità figurativa, se si insiste sul particolare – o, meglio, sul frammento –, l’opera può esibire qualche utile dettaglio identificativo.Ecco che, allora, diventa fondamentale accostarsi all’immagine. Indugiare con la camera sulle singole parti che la costituiscono. D’improvviso, la narratiocumfiguris s’arricchisce di una didascalia originaria che, a mo’ di fumetto, si trova a disvelare il mistero addensato su colui che montava quella sorta di«cavalloverdastro», cavaliere – va detto – che, come si leggenell’Apocalisse di Giovanni,poteva essere enfaticamente definito «Morte e gli veniva dietro l’Inferno».
L’istruzione
al lettore è esplicita: «Marq(u)isduUaste».
E proprio perché stiamo parlando del secondo arazzo della battaglia di Pavia –
secondo di sette – tutti appartenuti agli Avalos (oggi conservati a Napoli nel
Museo di Capodimonte), il riferimento non può che cadere sul ventitreenne
Alfonso d’Avalos (essendo nato nel 1502 e non nel 1500 come ricordano le storie
locali), generale dell’esercito imperiale di Carlo V che, nello scontro del 24
febbraio 1525, aveva sconfitto le truppe di Francesco I, re di Francia (fig. 2).
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Particolare : Marq(u)is du Uaste |
Che
il breve testo sia stato redatto in francese è un dato di fatto. Lo conferma la
scrittura del titolo:marquis. Ciò che
stupisce, però, è la grafia in volgare che concerne Ferrante Francesco
d’Avalos, cugino dell’altro, oltre a essere stato il comandante generale degli
imperiali: Mar(che)se di Pes(cara) (fig. 3).
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Particolare, D'Avalos Mar(che)se di Pes(cara) |
Singolare, dunque, l’uso di due
formule linguistiche diverse per due personaggi della stessa famiglia: da un
lato, Marquis du Uaste, dall’altro Marchese di Pescara. Come mai questa
disparità? Il recente intervento di Maria Taboga (Fasti d’Avalos: gli arazzi della Battaglia di Pavia, in In sella! Recuperi e restauri in Palazzo
d’Avalos a Vasto, a c. di L. Arbace, «Quaderni a cura della Soprintendenza
per i beni storici artistici ed etnoantropologici», VI (2015), pp. 18-35) non
considera in nessun modo tale notevole differenza (come, del resto, capita per
la bibliografia precedente). Ciò implica che il committente dello straordinario
lavoro figurativo non conosceva affatto i protagonisti della vicenda: perché
l’uno “francesizzato” (proprio un francese, odiato nemico!), e l’altro
“spagnolo” (imperiale) di Napoli? E se si pensa che l’ipotesi di manifattura
degli arazzi viene collocata tra il 1529 e il 1531, risulta ancora più
difficile pensare come l’evidente errore sia stato prodotto per chi a quella
data era ancora in vita (Alfonso morirà nel 1546 ereditando il titolo del
cugino) e non per chi, in quegli anni, non lo era già più (Ferrante Francesco
era già morto nel 1525). C’è da chiedersi:in che modo Alfonso avrà potuto
accettare una formula così irriverentemente francese? Non lo sappiamo. Gli
arazzi erano di certo magnifici. Ma doveva quanto meno apparire una beffa per
il Signore del Vasto:la francesizzazione di quelnome illustre di lignaggio castigliano
di chiara fidelitas asburgica.
Marquis costituisce il
problema. DuUaste molto meno. Si
tratta di una semplice posposizione di lettere (la velare V che metafonizza in – ua –). Di fatto, la scrittura corretta
è du Vaste. Ma per quanto non
dittongata, la parola risulta comunque caratterizza dalla trasformazione della
vocale atona – o – in – ǝ – (Vàsto>Vàstǝ), con la
realizzazione di un fono muto. La francesizzazione, al contrario, riguarda la
preposizione articolata in volgare italiano che da “de lo” o “del” passa a du. Marquisdu
Vaste, dunque, e nonMarquisduUaste
. Un passaggio fonetico di cui sfuggono le ragioni storico-antropologiche su
cui si fonda. La mia osservazione è tutta qui; con le varie implicazioni ermeneutiche
che essa comporta.
1 commento:
E pensare che sull'argomento ho dedicato un intero concerto, non considerato in città. Pazienza...https://youtu.be/RQup8S7P9Us
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