Inizio '900: la fontana delle Luci vicino al Torrione |
In attesa di conoscere "ufficialmente", dal Comune e dalla Soprintendenza, quale tipo di reperto è quello scoperto a piazza Rossetti vicino al Torrione, pubblichiamo l'opinione del prof. Luigi Murolo che ha già le idee molto chiare in merito.
Quello strano organismo absidato
di Luigi Murolo
0.Ho letto in ritardo su “Noi
vastesi” un articolo sullo scavo in Piazza Rossetti del 2012 in cui sono stato
chiamato in causa. Ritengo opportuna qualche rapida precisazione.
1.In un intervento dal titolo La via degli antichi Anfiteatri. Un ponte culturale tra Vasto,
Larino, Venafro pubblicato su «I fatti del Nuovo Molise» (quotidiano diretto da Pino Cavuoti) in data 29 luglio 2012 ho espresso il seguente punto di vista:
Larino, Venafro pubblicato su «I fatti del Nuovo Molise» (quotidiano diretto da Pino Cavuoti) in data 29 luglio 2012 ho espresso il seguente punto di vista:
[…] piazza Rossetti dimostra il
continuo reimpiego della complessa architettura romana fino alla sua
dissoluzione. Dapprima anfiteatro, poi verlasce
(guarlasi) e infine segmento della
cinta muraria urbica. L’attuale rinvenimento – quasi in superficie – di un
organismo absidato in opus latericium
(il cui recente scavo, per la verità, condotto in modo piuttosto frettoloso non
chiarisce se si tratta di una chiesa
paleocristiana o di un ninfeo –
certamente non parte
dell’anfiteatro) suggerisce un intervento destrutturante sulla cavea già in
epoca tardoantica.
Una formula dubitativa, è vero.
Ma necessaria di fronte alla strana “cosa” che alligna in un fondo di piazza
Rossetti. Più che di “scavo”, dovremmo parlare di un “buco” – caravòtte in dialetto vastese –; di un buco misteriosamente protetto, per di
più cavato senza alcuna logica. Di un buco
– aggiungo – che, una volta prodotto, avrebbe potuto in qualche modo consentire
l’identificazione di un “qualcosa” di archeologicamente definibile. Non dico a
sud (che avrebbe investito una via di largo traffico). Nemmeno a est in ragione
della torre o a nord dove si sarebbero potuti incontrare ostacoli rispetto ai
tempi di riconsegna della nuova pavimentazione urbana Ma a ovest, dico? Perché
non si sarebbe potuto tentare di procedere verso occidente? Mi chiedo: quale
difficoltà logistica si sarebbe potuta incontrare a ovest, al fronte di
un’aiuola la cui terra conserva ancora i resti di una storia per sempre
conclusa? Nel 2012 la domanda non ha trovato risposte. Così, quasi per
miracolo, da quell’ anno, i cosiddetti
“esperti” non hanno saputo dire in modo
diretto se un’architettura absidata possa essere considerata parte
integrante di un anfiteatro.
Ma le cose non finiscono qui.
Poco dopo il mio intervento – a distanza di un mese per la precisione, il 30
agosto 2012 – un comunicato dei soliti “esperti” veniva così riportato da un
blog locale:
L’area archeologica verrà coperta
da una vetrata non calpestabile con ringhiera che lascerà i reperti a vista,
mentre all’interno ci sarà un sistema di aerazione” per evitare il formarsi
della condensa, le cui goccioline renderebbero invisibile quello che c’è sotto.
Comune di Vasto e Soprintendenza ai beni archeologici d’Abruzzo hanno trovato
la quadra: il muro dell’antico anfiteatro
romano sui cui sorge piazza Rossetti verrà messo in vetrina. E’ stato ritrovato
al secondo giorno dei lavori con cui l’impresa […] ha rifatto la pavimentazione
dell’anello perimetrale di piazza Rossetti. E’
tuttora transennata l’area in cui è emerso un muro di mattoni, che l’archeologo
della Soprintendenza Andrea Staffa ha individuato come appartenente all’arena
romana del primo secolo dopo Cristo.
Dunque, non vi sono dubbi. La risposta indiretta degli “esperti”
sottolinea che il «muro di mattoni» – incredibile! un organismo absidato
diventa «muro di mattoni» – è “appartenente” all’anfiteatro. Ma è sicuro che
qualcuno dei cosiddetti “esperti” l’abbia visto o che abbia fatto quanto meno
un sopralluogo? Che lo si voglia o meno,
la domanda rimane sempre la stessa: la struttura è posteriore alla realizzazione
della struttura ludica oppure coeva? E in quest’ultimo caso: perché non vi sono
indicazioni ufficiali a confermarlo?
Lasciando da parte questa
semplice considerazione, ho voluto porre a me stesso un altro interrogativo
alla buona, limitandomi a ragionare sull’esistente. A occhio (e soprattutto
visto dall’alto) il paramento murario presentava un rivestimento. Mi sono
detto: fatto di quale materiale? Sono stati per caso rinvenuti resti di opus signinum, la fodera
impermeabilizzante di età romana (come si ritrova nelle cisterne di Histonium)
in grado di dare una qualche certezza al possibile rinvenimento di un’opera
idraulica come un ninfeo? Non ho incontrato “esperti” utili a dare risposte. Mi
sono chiesto: sono stati per caso rinvenuti resti di intonaci per edifici
civili o religiosi? Anche in questo caso non ho incontrato “esperti” utili a
dare risposte. Al che mi sono chiesto: è possibile parlare dell’esistenza di
organismi absidati all’ interno di un anfiteatro contestuali all’edificazione
di quest’ultimo? Francamente (limitandomi alle aree viciniori) non ne ho
trovato tracce in quelli più prossimi al municipium
histoniensium: dal magnifico anfiteatro di Larino a quello di Venafro (il
cosiddetto verlasce) – entrambi
simili a quello di Vasto –. A dirla
tutta, in queste tre strutture è possibile seguire una sorta itinerario
didattico di storia insediativa del territorio che racconta il rapporto
stabilito nel tempo tra l’edificio antico e le successive forme di urbanizzazione.
Così ho sintetizzato il problema nel mio citato intervento del 29 luglio 2012:
[…] l’abbandono totale
dell’anfiteatro di Larino già in fase gotico-bizantina ne ha consentito la
salvezza archeologica. Il suo mancato riuso urbano in fasi storiche posteriori
con il trasferimento dell’abitato in un sito diverso […] ha garantito – di
fatto – la cura della sua facies
originaria (I-II sec. d.C). Al contrario, la rioccupazione altomedievale
dell’anfiteatro di Venafro determina la realizzazione di una forma incastellata
chiamata verlasce (in qualche modo
assimilabile al Parlascio di Lucca)
che nulla ha dividere con il successivo insediamento in altura. La traslazione
del paese in altro luogo ha consentito, senza praticare l’abbandono, il mantenimento
della struttura insediativa altomedievale posta a debita distanza dall’abitato
maggiore […]. Da questo punto di vista, piazza Rossetti dimostra il continuo reimpiego
della complessa architettura romana fino alla sua dissoluzione. Dapprima anfiteatro,
poi verlasce (guarlasi) e infine segmento della cinta muraria urbica.
2.Ho ripreso il problema in una
conversazione organizzata dalla Sezione del vastese di Italia Nostra dal titolo
Vasto, storia di una piazza. A 90 anni
dal progetto per l’antico largo del Castello (29 maggio 2014). Nell’ unico
resoconto della serata pubblicato da Giuseppe Catania («Noi vastesi», 6 giugno
2014), l’ articolista precisa che «[…] Murolo ha anche fatto riferimento ai
numerosi acquedotti, tra cui quello delle “Luci” che alimentavano le numerose
fontane e i “ninfei”[…] ». Va da sé che questa attribuzione più specifica
dell’organismo absidato (che mette tra parentesi l’altra dell’oratorio
paleocristiano) nasce dallo spostamento del punto focale dell’indagine: non più
alla struttura in quanto tale, ma al contesto. Il che vuol dire, prospettare
una diversa configurazione del problema. Ma in che cosa consiste tale
configurazione? Da questo punto di vista l’interrogativo può essere così
sintetizzato: come può sussistere una costruzione di tal genere in
un’architettura di ludi che, di fatto, strutturalmente
non la contempla? (in effetti, non sono note parti costruttive absidate
all’interno un anfiteatro). E soprattutto: perché proprio in quel luogo? Ecco
allora il punto. Ed è qui che torna in gioco l’acquedotto delle Luci.
Chi ha letto la relazione del
1819 vergata da Quirino Mayo sul restauro di questo grande condotto (il testo è
pubblicato in appendice a F. Laccetti, Per
il restauro de lo acquedotto de la città di Vasto, Napoli, Morano, 1899) sa
bene una cosa: che la cosiddetta Luce
Pizzuta (fontana massima delle Luci restaurate)
coincide perfettamente in alzato con il presumibilissimo Ninfeo (fontana massima delle Luci originarie). Si tratta, in buona
sostanza, di una sovrapposizione di
strutture: il Ninfeo nel sottosuolo;
la Luce Pizzuta in superficie. Lo
straordinario atto notarile rogato da notar Alessandro Fantini il 18
gennaio 1607 (che Marchesani non conosce) registra il contratto tra il
mastrogiurato di Vasto Gio. Antonio del Popolo e il mastro fontanaro Muzio
della Monaca di S. Buono per la costruzione di una conduttura in tubi di «creta cotta» con «ventarola di piombo»
dalla «luce di essa Università inanzi il
Torrone di Gio. Carlo Bassano» fino alla Fontana Rotonda del Largo del
Palazzo. Il documento è conservato nel fondo notarile dell’Archivio di Stato di
Lanciano alla segnatura Fantini, V, c. 13., a. 11. In altre parole, l’antico
rogito notarile lascia intendere che, prima di quella data, la città non
disponeva di una fontana interna (il che voleva dire l’uscita degli abitanti
dalla cinta muraria per l’approvvigionamento d’acqua. Le cisterne erano usate
solo in caso di necessità).
Ora, secondo la citata relazione
di Quirino Mayo (1819), dal Capodacqua fino alla Luce Pizzuta corrono, in
«distanza diretta», vale a dire in linea d’aria, 993 passi geometrici (1 passo
geometrico = 7 palmi napoletani. Prima della riforma del 1840, 1 palmo
napoletano = m. 0,263670). La profondità
del Capodacqua era valutata in palmi 42 (m. 11,07). Per Marchesani, palmi 60
(m. 15,82). Lo scarto di m. 4,75 è eccessivo (quasi 1/39). La misura corretta è
da ritenere quella prodotta da Mayo che si basa sulle rilevazioni del tecnico
restauratore Raffaele Prisco (del resto, le recentissime misurazioni di
Aquilano, Di Totto, Rapino tra puteus
e specus con m.11,50 ne confermano la
coerente attendibilità. (Cfr. http://www.italianostra.org/wp-content/uploads/Aquilano-D-Di-Totto-L-Rapino-M-Vasto
Acquedotto-delle-LUCI.pdf). A
partire da ciò, l’iniziale osservazione del Mayo viene a porre al centro il fondamentale
rapporto tra acquedotto romano e moderno:
L’acquedotto della pubblica
fontana di Vasto, monumento preziosissimo dell’antica potenza romana, prende
origine al sud-ovest della Città alla profondità di palmi 42 sotterra e nella
distanza diretta di 993 passi geometrici dalla prima conserva A fuori porta del
piano; donde nel tempo della deduzione colonica le acque progredivano in linea
dritta ed andavano a scaricarsi ne’ serbatoi che a tal uopo si rilevano ancora
esistenti nella parte più elevata della Città […]
Come si può notare, con
«deduzione colonica» Mayo offre una verosimile datazione del condotto istoniense
al momento della redazione del Liber
coloniarum – che viene raccolto nel sec. V in quel monumentale Corpus agrimensorum Romanorum che Karl
Lachmann pubblica nel 1848 –. Il tardoantico di cui parla il curatore del
restauro primo-ottocentesco attribuisce all’organizzazione gromatica del
territorio (cfr. sull’argomento il recentissimo lavoro di D. Paniagua, Frontino, agrimensura ed esegesi tardoantica
del testo tecnico nel commento dello Pseudo-Agennio Urbico, in Incontri di Filologia Classica, 10
(2010/11), pp. 29-79), la distribuzione geometrica del condotto. In un universo
così congegnato quello strano oggetto dalla struttura absidata emerso dai Guarlasi (anfiteatro) di Vasto nel 2012.
Così come da me accennato nei miei due precedenti interventi, questo organismo
parla la lingua muta del ninfeo.
Tutti se ne sono accorti. Salvo i
nostri “esperti” ufficiali che stanno ancora attendendo la nuova montatura per
il cambio delle lenti.
Nessun commento:
Posta un commento