Personaggio sicuramente curioso e particolare, Francescopaolo Cardone, soprannominato “lu matte Cardone”, viene ricordato per le sue stravaganze e una vita trascorsa in solitudine.
Don Ciccio Cardone, era anche un bravo ed apprezzato pittore. Dopo aver frequentato a Napoli l’Accademia di Belle Arti, sotto Filippo Palizzi, meritando anche di un diploma con medaglia d’argento, si dedica prima alla realizzazione di paesaggi di stile verista, per poi specializzarsi sulla ritrattistica.
Tito Spinelli nel suo prezioso “Profilo storico della pittura vastese”, scrive del Cardone “I ritratti di freschi profili femminili, per i quali ha predilezione, non lo esentano dal possedere uno stile ben distinto. Questa lettura si articola dallo stesso carattere del pittore, portato, in varie occasioni, a non ultimare i lavori”.
La sua è una pittura quasi intima, quasi per suo gusto personale. Per questo non ha mai fatto realizzato mostre ne personali ne collettive non tanto per evitare il confronto e il giudizio del pubblico, anche perché don Ciccio lasciava la porta di casa sempre aperta durante il giorno, per dare libero accesso a quanti volessero vedere la sua galleria privata, quanto, come spiega ancora Tito Spinelli, per “per un taglio aristocratico della pittura”, e per questo don Ciccio Cardone può essere considerato un artista puro “perché è riuscito a portare il suo lavoro a un livello di assoluta gratuità e alla negazione della pittura come attrazione estetica mercificata, che per lui, a intuirlo, rischiava di verificarsi proprio nelle sedi ufficiali, dove venivano allibrate quotazioni non certo rispondenti al suo spirito così controverso e complesso”.
Ma perché quel soprannome “lu matte Cardone” e quali erano le sue "mattità"?
Don Ciccio era un ricco possidente, che risiedeva a Napoli e tornava a Vasto nel periodo estivo per tenere sotto controllo le sue terre e il suo palazzotto cinquecentesco nei pressi di San Pietro. Lo si vedeva girare per i vicoli del centro storico tutto solo e trasandato, con la capigliatura arruffata, che “metteva in risalto il suo volto ovale, un po’ pallido, dai lineamenti fini, nobilitato da non so quale travaglio spirituale, che doveva possederlo”. La sua casa rispecchiava esattamente la sua persona: trascuratezza e disordine ovunque, ma sempre aperta a chi voleva apprezzare i suoi quadri e il suo ottimo vino che possedeva in cantina.
“Un giorno”, racconta Vittorio Dragani, in un articolo pubblicato sul mensile “Vasto Domani”, diretto da Angelo Cianci, “un ragazzo si aggirava nei pressi del suo palazzotto, con una bottiglia in mano, in cerca della cantina de lu matte Cardone. Incontrò per caso proprio lui don Ciccio, al quale si rivolse per farsi indicare la cantina.
– Bell’òmmène addò sta la cantine di lu matte Cardone? –
Don Ciccio considerò per un momento il ragazzo, col volto rabbuiato; poi rispose sorridendo:
– Il matto sono io e quella è la cantina”.
Si racconta che per scaramanzia don Ciccio si era fatto fare la cassa da morto, che custodiva sotto il letto. Un giorno ad un giovinetto che si recava da lui per mettersi in posa per un quadro disse: “Vedi, Paoluccio, questa è la cassa nella quale dobbiamo tutti finire. Io per farci l’abitudine, mi ci stendo prima e ci faccio anche la siesta”. Molti scappavano alla vista della bara, ma non solo per quello. Un giorno due suore suonarono alla porta per chiedere la questua. Senza esitazione don Ciccio si calò subito le braghe e si presentò in mutandoni, mettendo in fuga le suore scandalizzate. Così lo ricorda Vittorio Dragani: “Egli era un avanzo dell’Ottocento, un Ottocento personificato in declino, sia negli anni che nello spirito. E forse si ribellava ai tempi che erano mutati, che non erano più quelli della sua giovinezza: e commetteva delle stravaganze, per cui la gente lo chiamava lu matte Cardone”.
Lino Spadaccini
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