IL QUARTIERE DELLE CROCI NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA
di MICHELE SPATOCCO autore e direttore del sito www.vastospa.it (dal 2004)
Anni '30: il alto a destra la salita delle Croci |
Per Rione Croci si intende l’omonima via e relative traverse che, salendo, a destra finiscono su via Valloncello ed a sinistra su via Tobruk e Campo Sportivo. Alla sommità della strada dove oggi ci sono tre croci metalliche, ai nostri tempi c’erano tre caratteristiche croci in legno, issate su tre alti basamenti.
Una rara foto: una delle Croci con il basamento (archivio B. Fiore) |
La
strada principale, Via delle Croci, era larga, abbastanza lunga, con cunette laterali ed asfaltata fino alla
sommità, poi continuava come strada verso le campagne in direzione Sant’Onofrio
e San Lorenzo. Le traverse invece non erano asfaltate.
Io sono nato, il 23 aprile 1943, in via
Cirillo n. 8, una strada lunga e
stretta, pianeggiante, nella parte alta
delle Croci. I nostro rione era abbastanza grande, ma all’epoca considerato
fuori città, tanto che spesso usavamo l’espressione “arivajje” a Vasto, per
dire “vado in centro”.
UN
QUARTIERE DI ONESTI LAVORATORI
Il
quartiere delle Croci era popolato da onesti lavoratori alcuni dei quali
avevano potuto costruirsi una modesta abitazione con i risparmi o con il
gruzzoletto guadagnato in America. C’erano molti contadini che facevano il vino
e parecchi lo vendevano anche mettendo vicino la porta di casa la famosa
bandierina con la scritta “Vendita Vino”.
Di
solito i contadini si alzavano presto per andare in campagna e tornavano a casa
molto tardi la sera. A mezzogiorno non usavano rientrare per il pranzo. Quasi
tutti avevano l’asino, solo La Burrelle
e un Tìratèire avevano il cavallo. La Burrelle
anche un carretto (lu trajëine), mentre Tìratèire molto spesso faceva partorire la giumenta e
allevava dei cavallini, molto belli e simpatici.
Nella
zona c’erano anche un paio di caprai. Sulle traverse di via Tobruk due attività
importanti: la falegnameria e vetreria Reale e poi il Mulino Di Molino Giuseppe
e figli.
Il resto era costituito per lo più da famiglie di artigiani con lavori di tutti i tipi: falegname, fabbro, maniscalco, carraio, sellaio, ramaio, stagnino, muratore, calzolaio, funaio, fornaio, barbiere, magliaia, negoziante, carbonaio, cantiniere e via dicendo.
All’epoca le famiglie erano numerose. La mia era costituita da
sette figli ed io ero l’ultimo. Mio padre era calzolaio (…Bohémien) e mia madre casalinga (di quelle che si arrangiava a fare, in casa, lavori di sarta per sistemare gli indumenti che man mano passavano da figlio a figlio; io ero l’ultimo e immaginate gli interventi … Era il mio cruccio).Soldi
e disponibilità non c’erano, in compenso c’erano, in zona, tanti ragazzi che si divertivano tanto e con poco.
Le case erano piccole e la strada
era il nostro luogo preferito. Avevamo anche sviluppato molto “l’arte di
arrangiarsi” (in senso buono) come ad esempio: entrare al Cinema Ruzzi o al Campo
sportivo Aragona, chiedendo agli adulti di prenderci per mano e farci passare
per figlio (bell’óme, damme la méne), datosi che i piccoli non pagavano. Con la
complicità anche degli addetti, che erano a
conoscenza del trucco ma facevano finta di niente e lasciavano entrare.
Oppure
in altre occasioni ci mettevamo a disposizione di chi aveva bisogno, per
effettuare una commissione, dietro elargizione di un qualcosa; oppure, andare a
prendere l’acqua presso le fontane pubbliche dietro qualcosa; oppure, al tempo della raccolta della camomilla,
passare per le case e proporre i mazzetti dietro qualche compenso e via
dicendo.
L’ATMOSFERA DEL QUARTIERE
Per
meglio comprendere l’atmosfera del quartiere
pubblico una riflessione del compianto amico Giovanni Di Rosso scritto nel 1997 in occasione di una delle
feste degli “Amici di Via Cirillo” e
riportato poi anche sul mio sito www.vastospa.it
Amici di via Cirillo: foto ricordo fine anni '90 |
ABITAVAMO A VIA CIRILLO
Erano tempi di magra…Erano tempi di palla fatta quasi di stracci...
di qualche partita di calcio sbafata
arrampicando sui muri di cinta dell'Aragona o
sbirciata dagli affollati balconi o
terrazzini di case di amici e parenti.
Qualcuno arrangiava un monopattino con ruote a sfera
quasi nessuno aveva la bici,
solo Peppino possedeva una moto "Parilla" perché
don Chaddane, il padre, faceva l'appaltatore (ruzzulalle).
Molti erano i quadrupedi che erano autovetture senz' "auto".
C’era la fragranza dei mosti a ottobre e
dei pomodori in conserve spase in agosto.
Quanti calzoni corti, qualcuno ornato di toppe:
le nonne al calar del sole sull'uscio
aspettavano il ritorno dai campi intrecciando con ferri i calzini
e sospirando la benedetta pensione.
Tutti avevano bisogno... salvo qualcuno, ma proprio qualcuno.
Passava il netturbino e, col sacco a spalla, faceva
più di cento case: chi gli dava qualcosa?
Il rumore dei piatti si sentiva solo a Natale, Pasqua e S. Michele.
Passava col pesce Vaccaro strillando "Ecche vive...vive...":
con una cassetta di cianghette, panocchie e mizzune
sfamave "le Casarelle, le Croci e S. Michele".
Ognuno sapeva che di più non si poteva:
la televisione era una scatola di sogni e bugie.
L’onore e la faccia pulita innanzitutto, la cambiale
non si sapeva cos'era... anzi era una brutta bestia,
Ora si dice che si sta meglio:
la televisione dice la verità, le cambiali in protesto
si sprecano e facce di bronzo...pure.
Ma ditemi voi: Francesco, Michele, Giovanni, Nicola e
compagnia bella
NON SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO?
Giovanni Di Rosso
IL RIONE ERA UNA GRANDE FAMIGLIA
I
locali delle case erano angusti per cui la strada era il luogo dove si viveva e
si socializzava. C’era chi aveva creato
un sedile fisso davanti casa (lu zucculàlle)
e chi di volta in volta utilizzava le sedie. Mentre si prendeva il fresco o si tirava il
fiato, continuando a fare sempre qualche
cosa (maglia, calza, cucire, pulire verdure od altro, ripassare i compiti,
scambio di esperienze), si chiacchierava, si facevano commenti, si scambiavano
idee, si davano e ricevevano suggerimenti,
con i vicini e si passava anche il tempo insieme, fatto sempre
positivo.
Spesso la domenica di pomeriggio gli adulti giocavano a bocce. Chi perdeva doveva pagare da bere (birra o spuma) a tutti i giocatori del gruppo: uno svago sano e soprattutto una partecipazione semplice e leale che accomunava gli astanti.
L’inverno
o nelle giornate fredde, si stava in casa o accendendo i camini con la legna o
intorno al braciere (che andava a carbonella),
situato all’interno di un porta braciere in legno. Ai lati del focolare c’erano, fissi, li zucculèlle (uno a destra e un altro a
sinistra). Gli spostamenti da casa in casa c’erano sempre e quindi lo stare
insieme era sempre possibile.
IL CALCIO TRA LE PIAZZETTE E LA “NOTTURNA” ALL’ARAGONA SCAVALCANDO I CANCELLI
Per
noi maschietti la palla e non il pallone
(chi se lo poteva permettere!) era il
gioco preferito. Una piccola palla di
gomma che facilmente si bucava e quindi si sgonfiava. Cercavamo le zone meno
frequentate per non dare fastidio. Una di queste era Via Mario Pagano, traversa
di Via Cirillo. A seconda del numero dei ragazzi si giocava ad una o due porte occupando la zona all’inizio del crocevia e quindi parte della strada. Se
si giocava ad una porta sola si
preferiva solo il primo pezzo della Via Mario Pagano che portava
a Via Sanfelice. C’era un
inconveniente, però! Una siepe, che faceva anche da porta, che delimitava il
giardino di proprietà privata di Capituste (Cicchini). Molto spesso la palla finiva in giardino e
allora abbiamo messo la regola che chi aveva mandato la palla nel giardino
doveva preoccuparsi di recuperala.
Capituste non era cattivo, ma
faceva soggezione a noi ragazzi. Quando non c’era nessuno in casa, la palla restava in giardino, in attesa….
Si
incominciava a giocare e solo su insistenti chiamate, si abbandonava, per poi,
appena possibile, ritornare. Era un entrare e uscire di ragazzi che
passavano, a seconda, delle forze esistenti, all’una o l’altra parte.
Poi
c’era il grande calcio, in notturna (al solo chiaro di luna), talune volte con
il pallone da calcio, vero. Scavalcavamo
i cancelli (ed era pericoloso) del vicino campo sportivo Aragona, lato Via
Tobruk/Via Misurata, per andare a
giocare, di notte, con la luce della luna. Tutto in silenzio e timorosi di non
farsi vedere e sentire.
Coppi all'Aragona , 1955 |
L’Aragona,
che stava quasi dentro il quartiere, era un grande elemento di attrazione per i
giovani del Rione Croci.
Oltre
al richiamo del calcio, il campo sportivo
veniva molto frequentato perché vi si svolgevano ogni anno le gare studentesche di atletica e negli anni
’50 anche le gare di ciclismo. La pista era in terra battuta, una delle poche
in Italia. Storiche furono nel 1955 le
Gare Ciclistiche Internazionali a cui parteciparono ciclisti come Coppi,
Gismondi, Maspes, Harris, Bevilacqua, Fantini e altri.
Ci
sono molte foto storiche dell’evento.
Per
quanto riguarda l’atletica ho un ricordo personale dell’anno 1962/63 : partecipai anch’io alla
Selezione dell’Istituto Commerciale “F.
Palizzi” (facevo il 5° anno) per andare alle gare provinciali di Chieti. Fu una
grande festa!
LA
CARRUZZÉLLE E LU MONOPÀTTINE ALLA
DISCESA DELLA CROCI
Con
questi mezzi , in discesa, si prendeva una velocità pazzesca e anche
pericolosa, per chi non era sgamato. Non si partiva proprio dalla sommità della Via delle Croci, perché
la parte in alto era in falsopiano. Si arrivava giù fino a Via Canaccio e lungo
il percorso tutti a sgridarci.
Alla
confluenza con Via Valloncello c’era ‘lu Callaràre (Tenaglia) che lavorava fuori, davanti casa. Più in
fondo a Via Canaccio, andando verso
Piazza Rossetti, anche se si andava più piano perché pianeggiante
c’erano due Fornai: Maštre Biàsce e Paparille.
Costruire
la carrozzella e monopattino stuzzicava l’ingegno. Ci si adoperava in tanti
modi: chi metteva i freni, chi le bandierine, chi gli specchietti, chi li colorava
con colori forti e vivi, chi faceva la carrozzella singola o per più
persone, chi metteva il sedile ai
monopattini. La fantasia non aveva
confine e limiti e l’ingegno veniva sempre premiato…
Amici delle Croci ormai giovani anni 50 ( foto Pietro Palumbo) |
UNA MIRIADE DI ALTRI GIOCHI
Noi
ragazzi eravamo sempre fuori a giocare. I nostri giochi erano semplici,
innocenti e senza particolari
dotazioni:
una
corda, delle pietre, dei noccioli di frutta, un bastone, dei tappi, bottoni,
ecc.
Possedere
un vecchio cerchio di ruota da bicicletta e muoverlo aiutandosi con un
bastoncino era già un privilegio. I bottoni
venivano utilizzati, in sostituzione dei soldi che non c'erano, per
puntare sui poveri giochi che si facevano. C’erano i giochi di gruppo, che si svolgevano sull'aia,
nei cortili e nelle anguste strade cittadine:
la cchjîppe, pezz'eosse,
sbattamîre, la stìcchie, brihand'esuldate, a palline di vetro o palline di
legno cosiddette a pallachicche, leggere e nodose di alberi secolari, gradite nei giochi, per i bambini. Mentre palla prigioniera,
madama dorè, gioco dei 4 cantoni erani i giochi preferiti per le
femminucce. Poi c’erano la cavallina, uno monta l'une, la jonda cavalle, lu cavalle di
bbonselle: passatempi che prevedevano
che qualcuno facesse la parte del cavallo o della cavallina, intesi ovviamente
nel senso di attrezzo ginnico.
A
volte, soprattutto d’inverno, ci si riuniva in Via delle Croci, angolo Via
Misurata per raccontare storie che andavano dalle favole classiche ai
racconti dell’horror. I ragazzi, più adulti, prendevano lo spunto per
raccontare storie del genere lugubre/tenebroso/mozzafiato che attiravano molto l’attenzione e
l’interesse del gruppo. Si divertivano anche a inventare finali oscuri che
colorivano, a seconda del momento e della platea con uomini che assumevano
sembianze di animali, con orco, lupo mannaro via dicendo. A noi piaceva molto
sentire i racconti, ma nel nostro intimo avevamo paura.
NON SEMPRE ROSE E FIORI…
Con
una platea così vasta, frequenti erano le
discussioni e litigi fra ragazzi, inutile negarlo. Le occasioni non
certo mancavano, ma poi le liti si ricomponevano e la vita continuava. Ogni
tanto c’era qualche sassaiola e qualcuno veniva colpito alla testa e poi si
vendicava. Oppure si verificavano spiacevoli episodi con il solito
attaccabrighe che si credeva il capo del quartiere. Comunque da noi non c’erano
le guerre tra quartieri come S.Maria e San Pietro. Tuttavia il quartiere rivale
era San Michele e le occasioni di scontro erano le partite di calcio tra i due quartieri o quando c’era la
neve che si faceva a palle di neve … li
majuccànne faceve lu fume!
Il
nostro quartiere faceva capo alla Parrocchia di S. Maria Maggiore. Nel dopoguerra la parrocchia aveva un’Azione
Cattolica molto ben organizzata. All’Associazione potevano aderire tutti (uomini e donne, fanciulli e fanciulle, ragazzi e
ragazze, gioventù maschile e femminile, ognuno nella propria categoria).
Il
mio ricordo va a un trio di mamme del Rione che erano veramente attive e molto
unite tra loro: mia madre Rosaria
Nocciolino, Concetta Celenza (mamma di
Giovanni Di Rosso) e Anna Santoro (mamma
del vescovo emerito di Avezzano, Don Piero).
E’
inutile dire che la loro funzione sociale era molto visibile. Molti erano i ragazzi del quartiere che
frequentavano la Parrocchia e l’Azione Cattolica.
Andando
a rovistare tra le mie carte vecchie, ho
ritrovato delle mie iscrizioni, a
partire dal 1949, Fanciullo di Azione Cattolica, fiamma bianca (avevo 6 anni)
fino alla gioventù.
IL RICORDO DI DUE PERSONE
Un
ricordo vivo mi viene, con piacere, da due artigiani con
attività diverse.
Giorgio, lu Carvunàre (il Carbonaio). Uno degli ultimi ad esercitare questo mestiere, fu Giorgio Straniero che aveva bottega in via Misurata, quasi d’angolo con Via delle Croci- Spesso girava con un carretto, partendo di mattina presto, annunciandosi con uno squillo di tromba. Era mezzo cieco, e per questo si faceva sempre accompagnare, ma nessuno mai è riuscito ad ingannarlo, perché riconosceva i soldi al tatto. Amava mangiare molto i frutti di mare e non potendo andare a pescarli, quando mio padre (bohémien), li portava a casa, lui prendeva tutto, pagando, naturalmente. In quel tempo si trovavano abbastanza:ciòcchela bbiènghe (vongole), ciòcchela náire(cozze), zzìri e zzère (telline), cannìlle, (cannolicchi), paparózze (vongoloni).
Antonio Carabba, lu Spaccalàne (lo Spaccalegna). Far provvista di legna pe' lu fuculàre era un'attività alla quale si provvedeva per tempo ogni anno in vista dell'inverno. A svolgerla era appunto lu spaccalàne, che dopo aver ridotto i tronchi alla giusta pezzatura li immagazzinava dentro lu funacàtte dell'abitazione del cliente.
Antonio
Carabba era lo spaccalegna più conosciuto
nella zona, abitava in Via L.
Umile. Per questo duro lavoro si accontentava di qualche liretta, una bottiglia
di vino ed una robusta colazione consistente in una bella frittata, farcita di
salsiccia o pancetta. In pratica, la sera quando tornava a casa, risalendo
stanco Via delle Croci, veniva avvicinato da noi ragazzi, per il fatto che lui
parlava un’altra lingua: il tedesco. Parlava bene? Lo sapeva? Non so. Certo
lui, ci raccontava, spesso, di essere stato a contatto dei tedeschi nell’ultima
guerra. Tutto per noi ciò aveva del fascino e novità.
Nella zona, c’erano molti contadini che producevano, in proprio, il vino. Durante il giorno raccoglievano le uve e verso sera, nella propria proprietà o in strada, un grande calderone di rame con dentro l’uva nera da cuocere
Giovannina Cicchini mentre cuoce l'uva |
Era
in uso preparare il vino cotto che era molto più robusto del crudo.Il fuoco era
tanto e riscaldava tutta la zona. Ma, il fiore all’occhiello era la partecipazione
di tutti gli abitanti della zona che si avvicinavano al calderone e, tenendo in
mano un piatto o un contenitore, venivano serviti dell’uva cotta. Si formavano gruppi di ragazzi e anche adulti che, mentre mangiavano l’uva cotta,
chiacchieravano, ridevano, scherzavano, giocavano, fraternizzando. Era vociare gioioso e felice.
Nei giorni successivi si spandeva per il quartiere il tipico odore del mosto i
fermentazione che durava fino a San Martino.
IL NATALE
Particolarmente
attese erano le feste di Natale. Dalle montagne abruzzesi e molisane (in quel
tempo c’era un’unica regione: Abruzzi e Molise)
gli zampognari scendevano al mare
e quindi anche a Vasto per suonare i canti in occasione della novena di Natale. Il nostro Rione, che si trovava in
periferia della città, era il primo ad
essere visitato, di mattina presto, alle cinque del mattino. Per noi ragazzi
era una festa perché portavano la musica
ed era gente che veniva da lontano e da luoghi a noi sconosciuti. Ci alzavamo volentieri e formavamo una bella
coda che li seguiva, per un bel po' nel
loro giro. Non importava se era presto e
buio, se era freddo!
Alla
fine della Novena, ogni famiglia, metteva nella bisaccia, dei suonatori, senza
far sapere, quello che riteneva di dare:
farine, pane, pasta, baccalà o
stoccafisso, bottiglie di vino, olio,
pomodori invernali, dolci, alici
o sardine sotto sale o quant’altro
avevano a disposizione. Se ne andavano
contenti facendo gli auguri per il prossimo anno e dando l’arrivederci.
IL POPOLO DELLE CROCI NEL MONDO
Questo
volume è intitolato “I Cicchini tra Vasto e l’America”. Ma oltre loro, siamo
stati in tanti a lasciare il nostro quartiere e Vasto per altre destinazioni, all’interno
dell’Italia e all’estero. Ho visto intere famiglie andare via e prendere le
strade delle Americhe, Canada, Australia, dei paesi europei ecc. Avranno fatto anche fortuna, però, il vuoto
da noi c’è stato e anche le ferite
lunghe a cicatrizzarsi. Oggi, per tanti motivi, le campagne sono rimaste incolte,
gli artigiani non si trovano. La globalizzazione ha creato nuove situazioni e
la tecnologia ha rimodellato le varie risorse umane. Ci consola solo
l’interessante ritorno dei nipoti a riveder quei luoghi, tanto decantati e amati dai
propri avi.
Michele Spatocco
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