domenica 4 giugno 2023

IL QUARTIERE DELLE CROCI NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA

POSTFAZIONE,  DAL VOLUME "SALVATORE CICCHINI E SONS TRA VASTO E AMERICA"

IL QUARTIERE DELLE CROCI NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA 
I sacrifici delle famiglie, la serenità, i giochi dei ragazzi e la vita sociale
di MICHELE SPATOCCO  autore e direttore del sito www.vastospa.it (dal 2004)

I Cicchini ricordati in questo volume in buona parte sono vissuti nella zona delle Croci. Essendo io nativo del posto e animatore per anni del gruppo “Amici di via Cirillo”, mi è stato chiesto – anche se non ho legami di parentela con i Cicchini - di raccontare la vita del quartiere durante la nostra infanzia.
Anni '30: il alto a destra la salita delle Croci
IL RIONE CROCI

Per Rione Croci si intende l’omonima via  e relative traverse che, salendo, a destra finiscono su via Valloncello ed a sinistra su via Tobruk e Campo Sportivo. Alla sommità della strada dove oggi ci sono tre croci metalliche, ai nostri tempi c’erano tre caratteristiche croci in legno, issate su tre alti basamenti.

Una rara foto: una delle Croci
 con il basamento (archivio B. Fiore)

La strada principale, Via delle Croci, era larga, abbastanza lunga,  con cunette laterali ed asfaltata fino alla sommità, poi continuava come strada verso le campagne in direzione Sant’Onofrio e San Lorenzo. Le traverse invece non erano asfaltate.

Io  sono nato, il 23 aprile 1943,  in  via Cirillo n. 8,  una strada lunga e stretta,  pianeggiante, nella parte alta delle Croci. I nostro rione era abbastanza grande, ma all’epoca considerato fuori città, tanto che spesso usavamo l’espressione “arivajje” a Vasto, per dire “vado in centro”.

UN QUARTIERE DI ONESTI LAVORATORI

Il quartiere delle Croci era popolato da onesti lavoratori alcuni dei quali avevano potuto costruirsi una modesta abitazione con i risparmi o con il gruzzoletto guadagnato in America. C’erano molti contadini che facevano il vino e parecchi lo vendevano anche mettendo vicino la porta di casa la famosa bandierina con la scritta “Vendita Vino”.

Di solito i contadini si alzavano presto per andare in campagna e tornavano a casa molto tardi la sera. A mezzogiorno non usavano rientrare per il pranzo. Quasi tutti avevano l’asino, solo La Burrelle  e un  Tìratèire  avevano il cavallo.  La Burrelle  anche un carretto (lu trajëine), mentre Tìratèire  molto spesso faceva partorire la giumenta e allevava dei  cavallini, molto belli e simpatici.

Nella zona c’erano anche un paio di caprai. Sulle traverse di via Tobruk due attività importanti: la falegnameria e vetreria Reale e poi il Mulino Di Molino Giuseppe e figli.

 Il resto  era costituito per lo più da famiglie di artigiani con lavori di tutti i tipi:  falegname, fabbro, maniscalco, carraio, sellaio, ramaio, stagnino, muratore,  calzolaio, funaio, fornaio, barbiere, magliaia, negoziante, carbonaio, cantiniere e via dicendo.

 L’ARTE DI VIVERE CON POCO

All’epoca le famiglie erano numerose. La mia era costituita da

sette figli ed io ero l’ultimo. Mio padre era calzolaio (…Bohémien) e mia madre casalinga (di quelle che si arrangiava a fare, in casa,  lavori di sarta per sistemare gli indumenti che man mano passavano da figlio a figlio; io ero l’ultimo e immaginate gli interventi … Era il mio cruccio).

Soldi e disponibilità non c’erano, in compenso c’erano, in zona, tanti  ragazzi che si divertivano tanto e  con poco.  Le case erano  piccole e la strada era il nostro luogo preferito. Avevamo anche sviluppato molto “l’arte di arrangiarsi” (in senso buono) come ad esempio: entrare al Cinema Ruzzi o al Campo sportivo Aragona, chiedendo agli adulti di prenderci per mano e farci passare per figlio (bell’óme, damme la méne), datosi che i piccoli non pagavano. Con la complicità anche degli addetti, che erano a  conoscenza del trucco ma facevano finta di niente e lasciavano entrare.

Oppure in altre occasioni ci mettevamo a disposizione di chi aveva bisogno, per effettuare una commissione, dietro elargizione di un qualcosa; oppure, andare a prendere l’acqua presso le fontane pubbliche dietro qualcosa; oppure,   al tempo della raccolta della camomilla, passare per le case e proporre i mazzetti dietro qualche compenso e via dicendo.

L’ATMOSFERA DEL QUARTIERE

Per meglio comprendere l’atmosfera del quartiere  pubblico una riflessione del compianto amico Giovanni Di Rosso  scritto nel 1997 in occasione di una delle feste degli “Amici di Via Cirillo” e  riportato poi anche sul mio sito www.vastospa.it

Amici di via Cirillo: foto ricordo fine anni '90


ABITAVAMO A VIA CIRILLO

Erano tempi di magra…

Erano tempi di palla fatta quasi di stracci...

di qualche partita di calcio sbafata

arrampicando sui muri di cinta dell'Aragona o

sbirciata dagli affollati balconi o

terrazzini di case di amici e parenti.

Qualcuno arrangiava un monopattino con ruote a sfera

quasi nessuno aveva la bici,

solo Peppino possedeva una moto "Parilla" perché

don Chaddane, il padre, faceva l'appaltatore (ruzzulalle).

Molti erano i quadrupedi che erano autovetture senz' "auto".

C’era la fragranza dei mosti a ottobre e

dei pomodori in conserve spase in agosto.

Quanti calzoni corti, qualcuno ornato di toppe:

le nonne al calar del sole sull'uscio

aspettavano il ritorno dai campi intrecciando con ferri i calzini

e sospirando la benedetta pensione.

Tutti avevano bisogno... salvo qualcuno, ma proprio qualcuno.

Passava il netturbino e, col sacco a spalla, faceva

più di cento case: chi gli dava qualcosa?

Il rumore dei piatti si sentiva solo a Natale, Pasqua e S. Michele.

Passava col pesce Vaccaro strillando "Ecche vive...vive...":

con una cassetta di cianghette, panocchie e mizzune

sfamave "le Casarelle, le Croci e S. Michele".

Ognuno sapeva che di più non si poteva:

la televisione era una scatola di sogni e bugie.

L’onore e la faccia pulita innanzitutto, la cambiale

non si sapeva cos'era... anzi era una brutta bestia,

Ora si dice che si sta meglio:

la televisione dice la verità, le cambiali in protesto

si sprecano e facce di bronzo...pure.

Ma ditemi voi: Francesco, Michele, Giovanni, Nicola e

compagnia bella

NON SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO?

Giovanni Di Rosso


IL RIONE ERA UNA GRANDE FAMIGLIA

I locali delle case erano angusti per cui la strada era il luogo dove si viveva e si socializzava.  C’era chi aveva creato un sedile fisso davanti casa (lu zucculàlle)  e chi di volta in volta utilizzava le sedie.  Mentre si prendeva il fresco o si tirava il fiato, continuando a fare sempre  qualche cosa (maglia, calza, cucire, pulire verdure od altro, ripassare i compiti, scambio di esperienze), si chiacchierava, si facevano commenti, si scambiavano idee, si davano e ricevevano suggerimenti,  con i vicini e si passava anche il tempo insieme,  fatto sempre  positivo.

Spesso la domenica di pomeriggio gli adulti giocavano a bocce. Chi perdeva doveva pagare da bere (birra o spuma) a tutti i giocatori del gruppo: uno svago sano e soprattutto una partecipazione semplice e leale che accomunava gli astanti.

L’inverno o nelle giornate fredde, si stava in casa o accendendo i camini con la legna o intorno al braciere (che andava a carbonella),  situato all’interno di un porta braciere in legno.  Ai lati del focolare c’erano, fissi,  li zucculèlle (uno a destra e un altro a sinistra). Gli spostamenti da  casa  in casa c’erano sempre e quindi lo stare insieme era sempre possibile.

IL CALCIO TRA LE PIAZZETTE E LA “NOTTURNA” ALL’ARAGONA SCAVALCANDO I CANCELLI

Per noi maschietti la palla e  non il pallone (chi se lo poteva permettere!)  era il gioco preferito.  Una piccola palla di gomma che facilmente si bucava e quindi si sgonfiava. Cercavamo le zone meno frequentate per non dare fastidio. Una di queste era Via Mario Pagano, traversa di Via Cirillo. A seconda del numero dei ragazzi si giocava ad una o  due porte occupando  la zona all’inizio  del crocevia e quindi parte della strada. Se si giocava ad una porta sola  si preferiva solo il primo pezzo della Via Mario Pagano  che portava  a Via Sanfelice.  C’era un inconveniente, però! Una siepe, che faceva anche da porta, che delimitava il giardino di proprietà privata di Capituste (Cicchini).  Molto spesso la palla finiva in giardino e allora abbiamo messo la regola che chi aveva mandato la palla nel giardino doveva preoccuparsi di recuperala.  Capituste  non era cattivo, ma faceva soggezione a noi ragazzi. Quando non c’era nessuno in casa, la palla  restava in giardino, in attesa…. 

Si incominciava a giocare e solo su insistenti chiamate, si abbandonava, per poi, appena possibile,  ritornare.  Era un entrare e uscire di ragazzi che passavano, a seconda, delle forze esistenti, all’una o l’altra parte. 

Poi c’era il grande calcio, in notturna (al solo chiaro di luna), talune volte con il pallone da calcio, vero.  Scavalcavamo i cancelli (ed era pericoloso) del vicino campo sportivo Aragona, lato Via Tobruk/Via Misurata,   per andare a giocare, di notte, con la luce della luna. Tutto in silenzio e timorosi di non farsi vedere e sentire.

Coppi all'Aragona , 1955
IL CAMPO SPORTIVO

L’Aragona, che stava quasi dentro il quartiere, era un grande elemento di attrazione per i giovani del Rione Croci.

Oltre al richiamo del calcio, il campo sportivo  veniva molto frequentato perché vi si svolgevano ogni anno  le gare studentesche di atletica e negli anni ’50 anche le gare di ciclismo. La pista era in terra battuta, una delle poche in Italia.  Storiche furono nel 1955 le Gare Ciclistiche Internazionali a cui parteciparono ciclisti come Coppi, Gismondi, Maspes, Harris, Bevilacqua, Fantini e altri.

Ci sono molte foto storiche dell’evento.

Per quanto riguarda l’atletica ho un ricordo personale dell’anno  1962/63 : partecipai anch’io alla Selezione  dell’Istituto Commerciale “F. Palizzi” (facevo il 5° anno) per andare alle gare provinciali di Chieti. Fu una grande festa!

 

LA CARRUZZÉLLE E LU MONOPÀTTINE  ALLA DISCESA DELLA CROCI

Con questi mezzi , in discesa, si prendeva una velocità pazzesca e anche pericolosa, per chi non era sgamato. Non si partiva proprio  dalla sommità della Via delle Croci, perché la parte in alto era in falsopiano. Si arrivava giù fino a Via Canaccio e lungo il percorso tutti a  sgridarci. 

Alla confluenza con Via Valloncello c’era ‘lu Callaràre (Tenaglia)  che lavorava fuori, davanti casa. Più in fondo a Via Canaccio, andando verso  Piazza Rossetti, anche se si andava più piano perché pianeggiante c’erano due Fornai: Maštre Biàsce e Paparille.

Costruire la carrozzella e monopattino stuzzicava l’ingegno. Ci si adoperava in tanti modi: chi metteva i freni, chi le bandierine, chi gli specchietti, chi li colorava con colori forti e vivi, chi faceva la carrozzella singola o per più persone,  chi metteva il sedile ai monopattini.  La fantasia non aveva confine e limiti e l’ingegno veniva sempre premiato…

Amici delle Croci ormai giovani
anni 50 ( foto Pietro Palumbo)

UNA MIRIADE DI ALTRI GIOCHI

Noi ragazzi eravamo sempre fuori a giocare. I nostri giochi erano semplici, innocenti  e senza particolari dotazioni: 

una corda, delle pietre, dei noccioli di frutta, un bastone, dei tappi, bottoni, ecc.  

Possedere un vecchio cerchio di ruota da bicicletta e muoverlo aiutandosi con un bastoncino era già un privilegio. I bottoni  venivano utilizzati, in sostituzione dei soldi che non c'erano, per puntare sui poveri giochi che si facevano. C’erano i  giochi di gruppo, che si svolgevano sull'aia, nei cortili e nelle anguste strade cittadine:  la cchjîppe,  pezz'eosse, sbattamîre, la stìcchie, brihand'esuldate, a palline di vetro o palline di legno cosiddette a pallachicche, leggere e nodose di alberi secolari,  gradite nei giochi,  per i bambini. Mentre palla prigioniera, madama dorè, gioco dei 4 cantoni erani i giochi preferiti per le femminucce.  Poi c’erano  la cavallina, uno monta l'une,  la jonda cavalle, lu cavalle di bbonselle:  passatempi che prevedevano che qualcuno facesse la parte del cavallo o della cavallina, intesi ovviamente nel senso di attrezzo ginnico. 

A volte, soprattutto d’inverno, ci si riuniva in Via delle Croci, angolo Via Misurata  per raccontare storie  che andavano dalle favole classiche ai racconti dell’horror. I ragazzi, più adulti, prendevano lo spunto per raccontare storie del genere lugubre/tenebroso/mozzafiato  che attiravano molto l’attenzione e l’interesse del gruppo. Si divertivano anche a inventare finali oscuri che colorivano, a seconda del momento e della platea con uomini che assumevano sembianze di animali, con orco, lupo mannaro via dicendo. A noi piaceva molto sentire i racconti, ma nel nostro intimo avevamo paura.

 NON SEMPRE ROSE E FIORI…

Con una platea così vasta, frequenti erano le  discussioni e litigi fra ragazzi, inutile negarlo. Le occasioni non certo mancavano, ma poi le liti si ricomponevano e la vita continuava. Ogni tanto c’era qualche sassaiola e qualcuno veniva colpito alla testa e poi si vendicava. Oppure si verificavano spiacevoli episodi con il solito attaccabrighe che si credeva il capo del quartiere. Comunque da noi non c’erano le guerre tra quartieri come S.Maria e San Pietro. Tuttavia il quartiere rivale era San Michele e le occasioni di scontro erano le partite di  calcio tra i due quartieri o quando c’era la neve che  si faceva a palle di neve … li majuccànne faceve lu fume!

 L’AZIONE CATTOLICA

Il nostro quartiere faceva capo alla Parrocchia di S. Maria Maggiore.  Nel dopoguerra la parrocchia aveva un’Azione Cattolica molto ben organizzata. All’Associazione  potevano aderire tutti (uomini e  donne, fanciulli e fanciulle, ragazzi e ragazze, gioventù maschile e femminile, ognuno nella propria  categoria).

Il mio ricordo va a un trio di mamme del Rione che erano veramente attive e molto unite  tra loro: mia madre Rosaria Nocciolino, Concetta Celenza  (mamma di Giovanni Di Rosso) e  Anna Santoro (mamma del vescovo emerito di Avezzano, Don Piero).

E’ inutile dire che la loro funzione sociale era molto visibile.  Molti erano i ragazzi del quartiere che frequentavano la Parrocchia e l’Azione Cattolica.

Andando a rovistare  tra le mie carte vecchie, ho ritrovato delle mie  iscrizioni, a partire dal 1949, Fanciullo di Azione Cattolica, fiamma bianca (avevo 6 anni) fino alla gioventù.

IL RICORDO DI DUE PERSONE 

Un ricordo  vivo  mi viene, con piacere, da due artigiani con attività diverse.  

Giorgio, lu Carvunàre (il Carbonaio).   Uno degli ultimi ad esercitare questo mestiere,   fu Giorgio Straniero che aveva bottega in via Misurata, quasi d’angolo  con Via delle Croci- Spesso girava con un carretto, partendo di mattina presto, annunciandosi con uno squillo di tromba. Era mezzo cieco, e per questo si faceva sempre  accompagnare, ma nessuno mai è riuscito ad ingannarlo, perché riconosceva i soldi al tatto. Amava mangiare molto i frutti di mare e non potendo andare a pescarli, quando mio padre (bohémien),  li portava a casa, lui prendeva tutto, pagando, naturalmente. In quel tempo si trovavano abbastanza:ciòcchela bbiènghe (vongole), ciòcchela náire(cozze), zzìri e zzère (telline), cannìlle, (cannolicchi), paparózze (vongoloni). 

Antonio Carabba, lu Spaccalàne (lo Spaccalegna).  Far provvista di legna pe' lu fuculàre era un'attività alla quale si provvedeva per tempo ogni anno in vista dell'inverno. A svolgerla  era appunto lu spaccalàne, che dopo aver ridotto i tronchi alla  giusta pezzatura li immagazzinava dentro lu funacàtte   dell'abitazione del cliente. 

Antonio Carabba era lo spaccalegna più conosciuto  nella zona, abitava  in Via L. Umile. Per questo duro lavoro si accontentava di qualche liretta, una bottiglia di vino ed una robusta colazione consistente in una bella frittata, farcita di salsiccia o pancetta. In pratica, la sera quando tornava a casa, risalendo stanco Via delle Croci, veniva avvicinato da noi ragazzi, per il fatto che lui parlava un’altra lingua: il tedesco. Parlava bene? Lo sapeva? Non so. Certo lui, ci raccontava, spesso, di essere stato a contatto dei tedeschi nell’ultima guerra. Tutto per noi ciò aveva del fascino e novità.

 LA VENDEMMIA E L’UVA COTTA

Nella zona, c’erano molti contadini che producevano, in proprio, il vino. Durante il giorno raccoglievano le uve e verso sera, nella propria proprietà o  in strada, un grande calderone di rame con dentro l’uva nera da cuocere

Giovannina Cicchini mentre cuoce l'uva

Era in uso preparare il vino cotto che era molto più robusto del crudo.Il fuoco era tanto e riscaldava tutta la zona. Ma, il fiore all’occhiello era la partecipazione di tutti gli abitanti della zona che si avvicinavano al calderone e, tenendo in mano un piatto o un contenitore, venivano serviti dell’uva cotta.  Si formavano gruppi di ragazzi e anche adulti  che, mentre mangiavano l’uva cotta, chiacchieravano, ridevano, scherzavano, giocavano,  fraternizzando. Era vociare gioioso e felice. Nei giorni successivi si spandeva per il quartiere il tipico odore del mosto i fermentazione che durava fino a San Martino.

IL NATALE 

Particolarmente attese erano le feste di Natale. Dalle montagne abruzzesi e molisane (in quel tempo c’era un’unica regione: Abruzzi e Molise)  gli zampognari scendevano  al mare e quindi anche a Vasto per suonare i canti in occasione della novena  di Natale. Il nostro Rione, che si trovava in periferia della città,   era il primo ad essere visitato, di mattina presto, alle cinque del mattino. Per noi ragazzi era una festa perché  portavano la musica ed era gente che veniva da lontano e da luoghi a noi sconosciuti. Ci  alzavamo volentieri e formavamo una bella coda che li  seguiva, per un bel po' nel loro giro. Non importava se era presto e  buio, se era freddo!

Alla fine della Novena, ogni famiglia, metteva nella bisaccia, dei suonatori, senza far sapere,  quello che riteneva di dare: farine, pane, pasta,  baccalà o stoccafisso, bottiglie di vino, olio,  pomodori invernali, dolci,  alici o sardine sotto sale  o quant’altro avevano a disposizione.   Se ne andavano contenti  facendo gli auguri  per il prossimo anno e dando l’arrivederci.

IL POPOLO DELLE CROCI NEL MONDO

Questo volume è intitolato “I Cicchini tra Vasto e l’America”. Ma oltre loro, siamo stati in tanti a lasciare il nostro quartiere e Vasto  per altre destinazioni, all’interno dell’Italia e all’estero. Ho visto intere famiglie andare via e prendere le strade delle Americhe, Canada, Australia, dei paesi europei ecc.  Avranno fatto anche fortuna, però, il vuoto da noi  c’è stato e anche le ferite lunghe a cicatrizzarsi. Oggi, per tanti motivi, le campagne sono rimaste incolte, gli artigiani non si trovano. La globalizzazione ha creato nuove situazioni e la tecnologia ha rimodellato le varie risorse umane. Ci consola solo l’interessante ritorno dei nipoti a riveder quei luoghi, tanto decantati  e amati dai  propri avi.   

Michele Spatocco

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