Riflessioni per una pre-lettura della sua retrospettiva ‘centenaria’ al Palazzo D’Avalos di Vasto
di GIUSEPPE F. POLLUTRI
Vincenzo Canci (1911 – 2003). Lo diresti, in arte, un ‘contemporaneo’? A voler
rispondere di sì, o pure con un no, si avrebbe in ogni caso una propria legittima
opinione. Ma non perchè, com’è in sorte agli umani e alle sue vicende, “se
ciascuno dice il contrario dell’altro ... hanno tutti ragione” (C. Pavese). E’
che con il termine “contemporaneo”, di là del suo significato letterale, per
cui ciascuno è figlio e testimone del proprio tempo, in
arte (o meglio nelle significazioni che attengono ai suoi sviluppi e storicizzazioni) s’intende un modo di essere e di fare innovativo e dirompente, rispetto a una ‘maniera’ genericamente definita tradizionale, ivi compreso la “moderna”, nata e sviluppatasi nel periodo che va dal secondo ‘800 alla prima metà del ‘900.
arte (o meglio nelle significazioni che attengono ai suoi sviluppi e storicizzazioni) s’intende un modo di essere e di fare innovativo e dirompente, rispetto a una ‘maniera’ genericamente definita tradizionale, ivi compreso la “moderna”, nata e sviluppatasi nel periodo che va dal secondo ‘800 alla prima metà del ‘900.
Nel 1959 (Premio Vasto - I Edizione) Canci fu annoverato fra “i pittori vastesi contemporanei del
novecento”, unitamente ai D’Aloisio del Vasto, Galante, Fiore, Lattanzio,
Minerva e Martella... Che costoro lo fossero, in termini novecenteschi, era più
o meno vero, ma già d’allora l’accezione di contemporaneità cozzava con la coeva
pratica dell’arte che, dal Dadà, dai ready-made
di Duchamp, aveva preso altro itinerario e destino: diversi anche da quelli
percorsi e tracciati dai noti Maestri dell’arte Moderna, stimolando nel campo
una sensibilità creativa ‘straniata’ e di definitiva rottura dalle discipline
artistiche tradizionali e accademiche. Tant’è che – trascorso ormai un secolo
dalle provocazioni citate, attraversando tutti gli ismi e le avant-post-trans-avanguardie,
ancora oggi le due linee della produzione artistica, con intrusioni e resistenze
fra i due campi d’azione, restano “rette parallele”, inevitabilmente distinte
se non divergenti. Non a caso il “Premio Vasto” di quest’anno, ha come
argomentazione l’assunto che – senza voler “fare guerra” a forme (tecniche e
mezzi) ormai preminenti e ampiamente supportate dall’ufficialità
mediatico-commerciale – occorra dare ad artisti anch’essi contemporanei il buon
diritto di esprimersi, con provata valenza e attenzione, in pittura e scultura,
e che queste non debbano essere considerate espressioni di una “lingua morta” della
comunicazione estetica.
Sotto quest’aspetto, allora, Vincenzo Canci può vantare una sua
contemporaneità che diremo ‘classica’, di cifra tecnica certamente moderna
(naturalmente figlio ed emulo dei maestri attivi, come detto, tra otto e
novecento) per una sua concezione dell’arte, della pittura in particolare, come
‘figurazione’ della realtà visiva che ci circonda e in certo senso ci
sostanzia. Ambiente e natura, uomini e cose, stagioni ed eventi storici: un’eidetica
visione da proporre, da far decantare nella sua forma-colore, da tenere per sé
e poi trasmettere a chi poi verrà nello stesso luogo, in uno scenario
antropicamente destinato ad essere e divenire diverso eppur sempre uguale.
Ecco che allora Canci, non a caso, è definito dai biografi e recensori “poeta
del colore”, “grande interprete del realismo figurativo” ed anche “cantore
della sua terra” e della sua popolazione, riguardata nelle sue attività e
destino quotidiano, e non come ‘figure’ d’ideologiche “classi sociali”. Quadri
di vita, ordinariamente descritti ma mai banali, efficacemente comunicativi per
una cifra stilistica che ha nella figurazione, realistica eppur sempre lirica –
tracciata con freschezza di tratto nuovo rispetto ai maestri, anche locali,
dell’ottocento – il mezzo più che efficace per giungere allo scopo: trarre
poesia dal vissuto, dare immagine, inverante più che illustrativa, del proprio spazio-tempo.
Il luogo e il proprio vissuto divengono così mito maieutico e irrinunciabile al
proprio e altrui esistere, necessario a porci in una dimensione epifanicamente
utile a far amare, più che a memoriare, la propria vicenda umana e il comune habitat. Cosicchè i casolari, le
marine, i paesaggi agresti e quelli urbani, estivi o invernali, appaiono
‘dipinti’ da Vincenzo Canci, prima che dai diversi pigmenti utilizzati, da una
forte adesione sentimentale, talora nostalgica, alla visione data. Testimonianza,
la sua, efficacemente persistente, di un’arte pittorica che - classicamente -
si pone ancora come strumento per una intelligenza e conservazione iconica, culturale ed
estetica, di sé e degli altri.
Giuseppe F. Pollutri
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