sabato 9 febbraio 2019

Villalfonsina, la controversia delle origini

Ultima evocativa fatica letteraria del prof. Nicola De Sanctis. Tra i Quaderni della Rivista Abruzzese, è stata pubblicata di recente “Villalfonsina. Nascita e crescita di un paese”, una raccolta di saggi dedicati al paese del Vastese, che ha dato i natali al prof. De Sanctis, docente di Logica presso l’Università di Urbino e autore di diversi libri sull’idealismo tedesco. Si tratta di un interessante excursus storico sociale, che illustra la storia del centro, approfondendone alcuni aspetti agricoli ed economici, arrivando a ricostruire perfino la nascita del Punch Troiano.
“Nel volume – spiega il prof. De Sanctis – riprendo in esame il problema delle origini, tema sempre eccitante per tutto il suo sforzo di incertezze. Mi auguro di cuore che la mia gente di Villa non perda la memoria della sua storia, piccola ma non meno affascinante”.
Fabrizio Scampoli
   
Villalfonsina, la controversia delle origini
di Nicola De Sanctis

Sulla questione delle origini di Villalfonsina abbiamo già scritto(1). Ci ritorniamo per confermare la nostra
ipotesi ripensando e valutando scrupolosamente tutti gli eventi e le date del tempo storico in cui si sarebbe formato il nuovo agglomerato urbano.
   Di sicuro, per la nascita di un paese, non esiste un'anagrafe dove andare a registrare il lieto evento né per Villalfonsina c'è il mito di un qualche altro Romolo o Remo. In generale, per la storia dei nuovi villaggi il problema è molto complesso perché bisogna destreggiarsi fra tante incertezze.
   Sul caso delle origini di Villalfonsina si riferiscono tradizionalmente due opinioni: una che la vuole fondata dal feudatario Alfonso Caracciolo principe di San Buono e barone di Casalbordino, l'altra fondata da una colonia di Albanesi per volere di don Alfonso d'Avalos
marchese del Vasto.
   Circa la fondatezza della prima tesi dobbiamo semplicemente controllare la discendenza dei Caracciolo a San Buono. Il primo Principe, fino al 1598, è stato don Giovanni Antonio II, il secondo don Martino V fino al 1625 ed il terzo don Alfonso, dal 1625 al 1660. Proprio don Alfonso, oltre che terzo Principe di Santobuono, è stato 3° Principe di Castel di Sangro; 6° Marchese di Bucchianico; Barone di Castellone, Fraiano, Belmonte, Roca Spinalveto, Moteferrante, Lupara, Calsacco delle Fraine, Moro, San Vito, Roccaraso, Frisa Grandinara, Castel Collalto; Conte di Capracotta, 6° Conte di Serino e Melito, Conte di Schiavi dal 4 febbraio 1626; Gran Siniscalco del Regno di Napoli.
   E' evidente che, se don Alfonso è stato Principe di Sanbuono dal 1625 al 1660, non può, come vedremo, aver fondato Villalfonsina che di fatto esisteva già da un secolo. Né, per di più, poteva essere Barone di Casalbordino che, allora, non era più nemmeno dei d'Avalos perché era stata venduta nel 1661, insieme a tutta la Contea di Monteodorisio, da Lavinia Feltria della Rovere, moglie di Felice Alfonso d'Avalos, a Matteo II di Capua principe di Conca, famiglia che ne manterrà il possesso fino al 1697 quando la dinastia si estinse e la Contea, per via di un precedente matrimonio con una d'Avalos, ritornò alla stirpe dei d'Avalos, allora Cesare Michelangelo.
   Per la seconda tesi il discorso è più difficile perché più complesso, basandosi su dati mobili e sfuggenti.
   Per le immigrazioni degli Schiavoni chiariamo subito che non sono state invasioni di diseredati e disperati in cerca di fortuna. Come abbiamo trattato(2), "I primi arrivi degli Slavi nel Regno di Napoli, infatti, non provengono dal fenomeno migratorio, ma chiamati per sostenere re Alfonso d'Aragona in lotta, negli anni 1448-1450, con i baroni ribelli nostalgici degli Angioini. In compenso del successo ottenuto, i militi schiavoni insieme al loro generale Demetrio Reres ebbero dal sovrano napoletano licenza di potersi stanziare nelle terre di Calabria.
   Nella prospettiva di una richiesta di aiuto militare venne quindi stipulato il 26 marzo 1451 a Gaeta un trattato, precedentemente discusso a Foggia, nel quale risultava che, in cambio degli aiuti prestati, re Alfonso avrebbe avuto la città di Krùja col castello e gli altri possedimenti annessi. Il trattato prevedeva anche che, con la cacciata avvenuta dei Turchi, il Capo della Lega dei Popoli Albanesi e Capitano generale dell'esercito Giorgio Castriota Skanderberg avrebbe dovuto assicurare al sovrano aragonese l'omaggio di fedeltà e di vassallaggio.
    A partire dall'anno dopo la firma del trattato, il generale Castriota sconfisse più volte gli eserciti del sultano turco tanto da guadagnarsi credito e popolarità in tutta Europa. Dal papa Callisto III ebbe gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della fede, mentre il papa Eugenio IV ipotizzò di affidargli il comando di una crociata.
   Nel frattempo i legami fra re Alfonso e il generale Skanderberg divennero sempre più stretti, amicali, intimi, ma divennero anche più frequenti gli sbarchi dei popoli slavi, lungo le coste delle regioni rivierasche del Regno, attratti dalla bontà di tangibili agevolazioni garantite anche dai feudatari. Per questo dobbiamo tener presente che l'immigrazione venne favorita dal fatto che il sistema feudale permetteva ai Baroni di utilizzare gli immigrati non solo come uomini d'arme, ma soprattutto come forza-lavoro nei loro feudi, dato il vuoto demografico prodotto dalle ricorrenti pestilenze e dalle continue guerre.
   L'esodo più massiccio avvenne nell'ultimo quarto del secolo, specialmente dopo la capitolazione di Scutari nel 1479".
   A proposito riportiamo un testo di Anton Ludovico Antinori, storico aquilano ma anche vescovo di Lanciano dal 1745 al 1754, una pagina molto interessante ma anche particolarmente importante ai fini della nostra ricostruzione storica.
   "Dacchè l'Imperadore de' Turchi, presa Costantinopoli, si rivolse ad occupare Icutari Città dell'Albania nella Dalmazia, avevano gli Abitatori della Provincia, atterriti, incominciate numerose trasmigrazioni in Italia. Ne erano provvenute così popolazioni di varj Castelli nelle Diocesi di Larino, e di Termoli, e ne provvenivano tutta via delle altre ne' luoghi tra i fiumi Senella, e Sangro. Insorsero per tale occasione le Ville Cupella, ed Alfonzina; e nel territorio di Lanciano Stanazzo, S. Maria in Bari, e Scorciosa, come pure in quello di Ortona Caldara. Furono loro concedute quelle, ed altre Ville, perchè venissero ripopolate, come avvenne. Quei nuovi ospiti, e le Ville stesse, furono dal volgo denominate degli Albanesi, o pure degli Schiavoni. Sulle prime, anzi per qualche lungo tratto, ebbero solamente casucce di legni, e di canne, o anche di paglie, e crete. Cominciarono poi a formare case di pietra, e calcina al costume  delle vicine, secondo la condizione de' luoghi, e delle persone"(3).
   Sulla presenza degli Schiavoni nel nostro territorio riferisce anche Domenico Romanelli, noto storico di Fossacesia, affermando che essi "in gran copia erano in questa Regione, e specialmente in Lanciano venuti sin da primi tempi de' Re Aragonesi, e si erano sparsi per tutto il Distrettto"(4).
   Per avere un'idea di quanti fossero in quel tempo gli immigrati slavi insediati favorevolmente su buona parte delle regioni del Regno di Napoli, dobbiamo rievocare il linguaggio istituzionale allora in uso relativo all'"Università" e ai "Fuochi".
   Dobbiamo ricordare che Carlo I d'Angiò sostituì il termine "Comune" col nome di "Università", unità demo-territoriale, a sua volta distinta in "demaniale se dipendeva direttamente dalla Corona, "feudale" o "baronale" se posseduta dai feudatari che, in questo caso, ne disponevano liberamente per la vendita o l'acquisto, come una merce qualsiasi.
   Abbiamo poi i "fuochi" istituiti da Alfonso I d'Aragona nel marzo del 1443. Un "fuoco" era un nucleo familiare cui veniva imposta una tassa di 10 carlini, il "focatico". Nello stesso tempo il re aragonese inventò anche un nuovo metodo di prelievo fiscale creando il catasto che doveva essere aggiornato di anno in anno riportando il valore, espresso in once, sia dei beni che di lavoro.
   La numerazione dei fuochi doveva essere fatta ogni tre anni da ufficiali dipendenti della Regia Camera della Sommaria, istituita nel 1444, supremo organo burocratico-finanziario, ma anche giudiziario ed amministrativo.
   Nel 1447, pur fra tante difficoltà, si ebbero i risultati della prima numerazione, nel 1507 la periodicità triennale fu portata a 15 anni, nel 1737 sarà abolita da Carlo di Borbone.
   Di particolare importanza per il nostro assunto resta la numerazione fatta da Carlo Leclerc(5) su ordine di Carlo V nel 1521. L'autore, a conclusione del suo incarico, scrisse un resoconto molto dettagliato dello stato del Regno, compilando un elenco di tutti i centri abitati con l'indicazione relativa del numero dei fuochi e, a parte, un altro elenco delle famiglie di Schiavoni. Riportiamo in copia originale solo i fuochi slavi presenti nell'Abruzzo Citra.

       Nella zona compresa fra Lanciano e Vasto, come si può vedere, abbiamo otto centri rurali, "Ville", di popolazione di stirpe slava pari a 120 fuochi di cui 3 proprio di Castel bordyno.
   Siamo nel 1521. Sette anni dopo, 1528, la rilevazione per Villalfonsina dà 31 fuochi(6). Questa data è da tener per fermo perché attesta l'esistenza di un piccolo villaggio di nome Villalfonsina abitata da famiglie di stirpe albanese.
   Il nome di Villa Alfonsina lo ritroviamo ancora nel 1532 in un atto notarile. Infatti, proprio nel 3° volume dei protocolli redatti dal notaio Angelo Macciocchino del distretto di Lanciano, alla data 12 giugno 1532 possiamo leggere il seguente atto: "In banco juris nundinarum Lanzani / Andrea Fontinero milite della Compagnia dell'I11° Adelantato di Granata, costituisce suo procuratore don Francesco di Villa Alfonsina milite della stessa Compagnia, per esigere qualunque somma dovutagli per il suo servizio, da qualunque Università e persona"(7).
   Fin qui appare chiaro che Villalfonsina sia nata da una colonia di Albanesi; se, poi, sia nata anche ad opera di un supposto Alfonso d'Avalos dobbiamo vedere. Lo facciamo richiamandoci ad alcuni dati certi relativi alla storia di quegli anni.
   La dinastia dei d'Avalos a Vasto, è noto, comincia con Innico II nel 1497 quando re Federico I d'Aragona gli conferì in segno di riconoscenza il titolo di marchese per la coraggiosa resistenza opposta ai francesi di Carlo VIII. Precedentemente il marchesato, fino al 1486, era stato dei de Guevara, altra famiglia spagnola che aveva seguito l'avventura del grande e magnanimo Alfonso d'Aragona nella sua conquista del Regno di Napoli.
   I vastesi, per la verità, non accolsero con particolare entusiasmo il nuovo arrivato anzi, come scrive il Marchesani, "L'Università nostra fortemente spiaciuta che tanto di leggieri la giustizia e i rinnovati privilegii suoi venissero conculcati, reclamò, mostrò documenti, rammentò la fedeltà invariabile, e serrò le porte al novello feudatario. Tutto però fu vano; Federico apparve di persona a Vasto: l'autorevol presenza del Sovrano e 'l lampeggiare delle sue spade ne imposero sì che nel 1499 la Università videsi astretto a tacersi, ad obbedire, e ad accettare indulto dell'atto di ribellione sostenuta per due anni"(8).
   Ad ogni modo, sempre fedele al suo re Federico, Innico s'impegnò ostinatamente a difendere il Regno contro l'incursione dei francesi. Sostenuto anche dalla presenza della sorella Costanza, nel 1503 respinse l'assalto degli invasori da Ischia ma l'anno dopo morì di peste, giovanissimo, senza neppure avere potuto godere della gioia per la presa della rocca di Salerno per il suo re.
   Ad Ischia nei primi giorni di agosto del 1501 si ritirò anche il re Federico a seguito della prova del tradimento segreto stipulato dal re "cattolico", suo parente, con Luigi XII, dopo l'onta dell'occupazione di Capua nel luglio del 1501 e la successiva presa di Napoli. Il 6 settembre, profondamente sdegnato nei confronti del re spagnolo, preferì consegnarsi ai francesi lasciando Ischia per riparare in Francia. Prima di partire lasciò l'isola in feudo ad Innico quale ricompensa per la sua fedeltà alla causa spagnola e alla sorella Costanza il ducato di Francavilla. Tre anni dopo morì a Tours il 9 settembre, attorniato da pochi fedelissimi fra i quali il devoto Jacopo Sannazzaro.
   Con lui si estinse nel regno di Napoli anche il casato di Trastamara di Alfonso d'Aragona il Magnanimo. Per tutto il Regno, guerre e rivolte a parte, è stato certamente un grande momento di civiltà. Quanto Vasto, poi, debba alla presenza aragonese, possiamo riscontrarlo prestando fede ai tanti Capitoli ad essa riservati nel corso degli anni dai vari re che si sono succeduti nel governo delle province napoletane.
   Già Alfonso I il 1° luglio 1442, riconfermando tutti i privilegi precedentemente concessi, "Dippiù consentì che niun Magnate o Barone potesse giammai possedere beni stabili di qualsiasi titolo nella terra e nel distretto di Vasto"(9) e nel febbraio del 1450 esentò dal pagamento di dazi tutte le merci del territorio che passavano nel suo porto.  Successivamente Ferdinando I non solo riconfermò questo provvedimento ma dal Castel nuovo di Napoli il 25 aprile 1465 aggiunse ancora le seguenti grazie, franchigie ed immunità: "- 1. Conservarsi Vasto mai sempre in regio demanio. - 2. Continuar Vasto nel possedimento delle Dogane, de' Fondaci, delle Gabelle di carne e di altro. - 3. Promette il re d'interporsi, onde il Conte di Monteodorisio non mova ulteriori litigii a Vasto pe' disabitati e ruinati casali di Penna, Salavento e Castiglione posseduti dalla Università. - 4. Assolve la Università dal pagamento delle collette e delle imposizioni generali e speciali, ch'ella si trovasse dovendo al re per quel tempo, in cui la Università fu sotto la tirannia di Antonio Caudola. - 5. Concede indulto per ogni delitto, ancorchè fosse di lesa maestà. - 6. Ordina che il Capitano della terra di Vasto e non altri conosca e giudichi in cause civili e criminali de' Vastesi; che questi non possano esser chiamati in prime cause innanzi a Giudice fuori la terra di Vasto; ed ancorchè il mandato venisse dal re, non sieno tenuti di obbedire. - 7. Il Capitano regio sarà mutato in ogni anno: la Università gli darà per provvisione annuale once venti di carlini sopra qualunque sua entrata, giacchè a pro di lei debbono andare i proventi da' forestieri e da' cittadini. - 8. Il re annulla ogni promessa e concessione, che per avventura si trovasse aver fatta sulle cose della Università. - 9. Autorizza la Università e i cittadini a rinfrancarsi su i beni di Antonio Caudola per ciò che costui e Restayno possono aver tolto loro, o restassero a pagare. - 10. Vieta ad Antonio Caudola, a M. Restayno ed a' loro successori l'abitare e il possedere beni in Vasto. - 11. La Università e i cittadini non sieno tenuti a risarcimento per la rovina e 'l saccheggio da essi apportati a' sospetti concittadini Bonifacio e Bernardo. - 12. Il re non potendo donare alla Università il chiestogli molino del Sinello, le conferma l'antico dritto della decima sul frutto del molino. - 13. Consente che in verun tempo nè Barone, nè Signore, specialmente aderente a Caudola, possa abitare nella terra di Vasto. - 14. Fa grazia alla Università ed agli uomini di essa di non esser tenuti, come non lo furono pe' tempi passati, a spesa per qualsivoglia uffiziale, nè a portar acqua, erba, paglia, strame, legna, lettere, catene, nè a pigliare e guardar persone, nè ad alcun'altra cosa straordinaria, escluse le collette generali, e le funzioni fiscali ordinarie"(10).
   Per difendere la propria relativa indipendenza di città demaniale, il popolo vastese, come abbiamo accennato, per ben due anni impedì che il nuovo marchese prendesse possesso della città. La ribellione cessò soltanto al cospetto dello stesso re Federico che il 26 febbraio 1499 proclamò dei Capitoli in cui "Conferma ogni grazia, immunità, franchigia, ed esenzione, che la Università trovasi di godere", "Annulla le confische fatte per l'atto di ribellione commesso nel negarsi il possesso di Vasto ad Innico d'Avalos" garantendo che "Innico d'Avalos rispetterà tutt'i privilegii, immunità, grazie, franchigie, ed esenzioni, di cui la Università è in possesso" ed infine che "Il re presta assenso alle grazie che Innico sarà per concedere alla Università"(11).
   Per tutta risposta il neomarchese per accattivarsi le simpatie dei vastesi ribelli il giorno dopo, 27 febbraio, dettò dei Capitoli in cui, fra l'altro, "Egli dà ampio indulto, a tenore de' capitoli di Federico di Aragona dianzi riferiti,  - Accetta i mentovati capitoli e conferma tutt'i i privilegii, - Tratterà bene i vastesi come fece Innico de Guevara, - Conferma la donazione del molino nel Sinello fatta da re Ferrante II" ed anche la promessa e l'impegno che "Potranno i Marchesi restaurare il castello quasi demolito, o innalzarne un nuovo, ma senza pagamento ed angaria de' Vastesi"(12).
   In sostanza, sotto gli Aragonesi la città di Vasto ed il suo territorio erano stati sgravati da ogni carico fiscale, beneficiati di tutti i vantaggi tratti dalla potenzialità della libertà di traffico e, soprattutto, assicurati dalla correttezza praticata dai pubblici funzionari.
   Purtroppo il neomarchese, ligio al suo dovere anche di uomo d'armi, dovette lasciare il suo sospirato marchesato dove mai aveva vissuto per non tornarvi mai più. Lasciò suo figlio Alfonso, fanciullo di appena due anni avuto dalla moglie Laura Sanseverino figlia di Roberto principe di Salerno, sotto la tutela della sorella Costanza, principessa di Francavilla. Erede di tutti i beni del padre, già nel 1504 ricevette dallo stesso Ferdinando il Cattolico l'investitura del feudo di Vasto.
   Orfano del padre, insieme alla sorella Costanza ed il cugino quattordicenne Ferrante Francesco, il futuro sposo di Vittoria Colonna, crebbero ad Ischia amorevolmente educati dalla zia Costanza.
   Il Castello dell'isola d'Ischia rappresentava per tutti un luogo estremamente sicuro. Ristrutturato a vero baluardo di difesa da Alfonso d'Aragona nel 1443, nel 1503 era stato salvato dall'assalto delle galee francesi dall'eroica resistenza opposta da Costanza che per questo ottenne in compenso da Ferdinando il Cattolico, con privilegio del 10 marzo, il governo a vita dell'isola.
   Nel tempo era diventato anche centro di cultura umanistica e simbolo fastoso della nobiltà per la presenza di nobildonne affascinanti, poeti ed uomini di cultura.
   Giovanissimo, si arruolò nelle file del cugino marchese di Pescara Ferdinando Francesco e da allora in poi consumò la sua vita sui campi di battaglia divenendo uno dei più grandi condottieri del suo tempo, come ben testimoniarono le celebrazioni magnificate dall'Ariosto, dal Guicciardini, dal Tiziano. Oberato da tanti impegni e pressato dal peso della responsabilità per tante occupazioni, visse di fatto sempre lontano dal suo feudo abruzzese. A Vasto ritornò una sola volta nel 1521 per riconfermare il primo luglio tutti i Capitoli dei privilegi concessi dai suoi predecessori. Il 26 novembre del 1523 sposò la cugina Maria d'Aragona figlia di Ferdinando d'Aragona, duca di Montalto. Fu governatore di Milano dal 1538 al 1546 ma, abbandonato alla fine dall'Imperatore, morì il 31 marzo 1546 a Vigevano frastornato da tanti rimpianti ed amarezze.
   Al punto in cui siamo arrivati ci sembra molto improbabile che questo Alfonso della dinastia dei d'Avalos, immerso fino al collo nelle vicende politiche e militari del suo tempo, possa essere stato il 'padrino' di Villalfonsina. Anche volendo, gli sono mancati i tempi e i modi per aggraziarsi la benevolenza degli immigrati schiavoni e guadagnarsi la riconoscenza di poter dare il nome 'Alfonsina' alla Villa nascente. Dobbiamo allora pensare a qualche altro Alfonso che abbia saputo meritarsi l'onore di questo nome di battesimo. E questi non può che essere Alfonso I d'Aragona il "Magnanimo" per la sua estrema magnanimità riservata all'accoglienza e al sostegno delle condizioni benevoli di insediamento per tutte le etnie sfuggite all'aggressione turca. Inoltre, come abbiamo riportato, dobbiamo anche tener conto dell'effetto compiacente prodotto da tutti i privilegi concessi alla popolazione di Vasto da parte della discendenza aragonese che certamente avevano contribuito a creare un clima di gratificazione morale nei confronti della memoria del sovrano aragonese.
   Tuttavia, la Villa era nata di fatto sul territorio dell'Università di Casalbordino. La convivenza, per la verità, da subito non fu affatto felice. Il diritto su parti del territorio, la libertà di pascolare, di raccogliere le ghiande e di 'legnare' costituirono presto accanito oggetto di controversia e discordia. A proprio favore la giovanissima comunità di Villa Alfonsina ebbe però l'appoggio determinante di Felice Alfonso d'Avalos, IV Marchese di Vasto, che nel 1582 impose all'Università di Casalbordino di donare a Villa Alfonsina i diritti "di pascere, legnare ed acquare in tre selve dette Ripari, Gavone, Coste e Piane di S. Savino"(13). Questa data, ebbene, ha segnato inoltre il riconoscimento giuridico dell'autonomia amministrativa del nuovo insediamento urbano. Ma questo fatto è cosa ben diversa dall'aver dato il nome ad un paese che già si chiamava Villa Alfonsina.



N o t e
(1) N. De Sanctis, Villalfonsina, da quando?, in "Rivista Abruzzese", 2012, n. 3, pp. 246-250 e N. De Sanctis, Villalfonsina, prima e dopo. Un racconto sospeso. Rivista Abruzzese, Lanciano 2012. (2) Ibidem, pp. 34-35. (3)A. L. Antinori, Raccolta di memorie istoriche delle tre provincie degli Abruzzi, G. Campo, Tomo III, Napoli 1782, p. 374. (4) D. Romanelli, Antichità storico-critiche sacre, e profane esaminate nella Regione de' Frentani. Opera postuma dell'Arcivescovo di Lanciano e poi di Matera D. Antonio Lodovico Antinori, Ristampa anastatica, Editrice Rivista Abruzzese, Lanciano 2008, p. 477. (5) N. E Sanctis, I "fuochi" dell'Abruzzo citra conteggiati da Carlo Leclerc nel 1521, in "Rivista Abruzzese", 2014, n. 1, pp. 57-61. Vedi Capitolo 2°. (6) F. Lalli - L. Lucarelli, Il cammino di una comunità locale, Marino Solfanelli Editore, Chieti 1992, p. 427. (7) Regesti Marciani, Fondi del notariato e del decurionato di area frentana (Secc. XVI - XIX), a cura di Corrado Marciani, N. 7/I, L. U. Japadre editore, L'Aquila 1987, p. 33. (8) L. Marchesani, Storia di Vasto, Amministrazione Comunale, Vasto 1982, p. 29. (9) Ibidem, p. 99. (10) Ibidem, pp. 99-100. (11), Ibidem, p. 101. (12) Ibidem, pp. 101-102. (13) F. Lalli - L. Lucarelli, Il cammino..., op. cit., p. 427.

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