“Nel volume – spiega il prof. De Sanctis – riprendo in esame il problema delle origini, tema sempre eccitante per tutto il suo sforzo di incertezze. Mi auguro di cuore che la mia gente di Villa non perda la memoria della sua storia, piccola ma non meno affascinante”.
Fabrizio Scampoli
Villalfonsina, la controversia
delle origini
di Nicola De Sanctis
Sulla
questione delle origini di Villalfonsina abbiamo già scritto(1). Ci ritorniamo
per confermare la nostra
ipotesi ripensando e valutando scrupolosamente tutti
gli eventi e le date del tempo storico in cui si sarebbe formato il nuovo
agglomerato urbano.
Di sicuro, per la nascita di un paese, non
esiste un'anagrafe dove andare a registrare il lieto evento né per
Villalfonsina c'è il mito di un qualche altro Romolo o Remo. In generale, per
la storia dei nuovi villaggi il problema è molto complesso perché bisogna
destreggiarsi fra tante incertezze.
Sul caso delle origini di Villalfonsina si
riferiscono tradizionalmente due opinioni: una che la vuole fondata dal
feudatario Alfonso Caracciolo principe di San Buono e barone di Casalbordino,
l'altra fondata da una colonia di Albanesi per volere di don Alfonso d'Avalos
marchese
del Vasto.
Circa la fondatezza della prima tesi
dobbiamo semplicemente controllare la discendenza dei Caracciolo a San Buono.
Il primo Principe, fino al 1598, è stato don Giovanni Antonio II, il secondo
don Martino V fino al 1625 ed il terzo don Alfonso, dal 1625 al 1660. Proprio
don Alfonso, oltre che terzo Principe di Santobuono, è stato 3° Principe di
Castel di Sangro; 6° Marchese di Bucchianico; Barone di Castellone, Fraiano,
Belmonte, Roca Spinalveto, Moteferrante, Lupara, Calsacco delle Fraine, Moro,
San Vito, Roccaraso, Frisa Grandinara, Castel Collalto; Conte di Capracotta, 6°
Conte di Serino e Melito, Conte di Schiavi dal 4 febbraio 1626; Gran Siniscalco
del Regno di Napoli.
E' evidente che, se don Alfonso è stato
Principe di Sanbuono dal 1625 al 1660, non può, come vedremo, aver fondato
Villalfonsina che di fatto esisteva già da un secolo. Né, per di più, poteva
essere Barone di Casalbordino che, allora, non era più nemmeno dei d'Avalos
perché era stata venduta nel 1661, insieme a tutta la Contea di Monteodorisio,
da Lavinia Feltria della Rovere, moglie di Felice Alfonso d'Avalos, a Matteo II
di Capua principe di Conca, famiglia che ne manterrà il possesso fino al 1697
quando la dinastia si estinse e la Contea, per via di un precedente matrimonio
con una d'Avalos, ritornò alla stirpe dei d'Avalos, allora Cesare Michelangelo.
Per la seconda tesi il discorso è più
difficile perché più complesso, basandosi su dati mobili e sfuggenti.
Per le immigrazioni degli Schiavoni
chiariamo subito che non sono state invasioni di diseredati e disperati in
cerca di fortuna. Come abbiamo trattato(2), "I primi arrivi degli Slavi
nel Regno di Napoli, infatti, non provengono dal fenomeno migratorio, ma
chiamati per sostenere re Alfonso d'Aragona in lotta, negli anni 1448-1450, con
i baroni ribelli nostalgici degli Angioini. In compenso del successo ottenuto,
i militi schiavoni insieme al loro generale Demetrio Reres ebbero dal sovrano
napoletano licenza di potersi stanziare nelle terre di Calabria.
Nella prospettiva di una richiesta di aiuto
militare venne quindi stipulato il 26 marzo 1451 a Gaeta un trattato,
precedentemente discusso a Foggia, nel quale risultava che, in cambio degli
aiuti prestati, re Alfonso avrebbe avuto la città di Krùja col castello e gli
altri possedimenti annessi. Il trattato prevedeva anche che, con la cacciata
avvenuta dei Turchi, il Capo della Lega dei Popoli Albanesi e Capitano generale
dell'esercito Giorgio Castriota Skanderberg avrebbe dovuto assicurare al
sovrano aragonese l'omaggio di fedeltà e di vassallaggio.
A partire dall'anno dopo la firma del
trattato, il generale Castriota sconfisse più volte gli eserciti del sultano
turco tanto da guadagnarsi credito e popolarità in tutta Europa. Dal papa
Callisto III ebbe gli appellativi di Atleta
di Cristo e Difensore della fede,
mentre il papa Eugenio IV ipotizzò di affidargli il comando di una crociata.
Nel frattempo i legami fra re Alfonso e il
generale Skanderberg divennero sempre più stretti, amicali, intimi, ma
divennero anche più frequenti gli sbarchi dei popoli slavi, lungo le coste
delle regioni rivierasche del Regno, attratti dalla bontà di tangibili agevolazioni
garantite anche dai feudatari. Per questo dobbiamo tener presente che
l'immigrazione venne favorita dal fatto che il sistema feudale permetteva ai
Baroni di utilizzare gli immigrati non solo come uomini d'arme, ma soprattutto
come forza-lavoro nei loro feudi, dato il vuoto demografico prodotto dalle
ricorrenti pestilenze e dalle continue guerre.
L'esodo più massiccio avvenne nell'ultimo
quarto del secolo, specialmente dopo la capitolazione di Scutari nel
1479".
A proposito riportiamo un testo di Anton
Ludovico Antinori, storico aquilano ma anche vescovo di Lanciano dal 1745 al
1754, una pagina molto interessante ma anche particolarmente importante ai fini
della nostra ricostruzione storica.
"Dacchè l'Imperadore de' Turchi, presa
Costantinopoli, si rivolse ad occupare Icutari Città dell'Albania nella
Dalmazia, avevano gli Abitatori della Provincia, atterriti, incominciate
numerose trasmigrazioni in Italia. Ne erano provvenute così popolazioni di varj
Castelli nelle Diocesi di Larino, e di Termoli, e ne provvenivano tutta via
delle altre ne' luoghi tra i fiumi Senella, e Sangro. Insorsero per tale
occasione le Ville Cupella, ed Alfonzina; e nel territorio di Lanciano
Stanazzo, S. Maria in Bari, e Scorciosa, come pure in quello di Ortona Caldara.
Furono loro concedute quelle, ed altre Ville, perchè venissero ripopolate, come
avvenne. Quei nuovi ospiti, e le Ville stesse, furono dal volgo denominate
degli Albanesi, o pure degli Schiavoni. Sulle prime, anzi per qualche lungo
tratto, ebbero solamente casucce di legni, e di canne, o anche di paglie, e
crete. Cominciarono poi a formare case di pietra, e calcina al costume delle vicine, secondo la condizione de'
luoghi, e delle persone"(3).
Sulla presenza degli Schiavoni nel nostro
territorio riferisce anche Domenico Romanelli, noto storico di Fossacesia,
affermando che essi "in gran copia erano in questa Regione, e specialmente
in Lanciano venuti sin da primi tempi de' Re Aragonesi, e si erano sparsi per
tutto il Distrettto"(4).
Per avere un'idea di quanti fossero in quel
tempo gli immigrati slavi insediati favorevolmente su buona parte delle regioni
del Regno di Napoli, dobbiamo rievocare il linguaggio istituzionale allora in
uso relativo all'"Università" e ai "Fuochi".
Dobbiamo ricordare che Carlo I d'Angiò
sostituì il termine "Comune" col nome di "Università",
unità demo-territoriale, a sua volta distinta in "demaniale se dipendeva
direttamente dalla Corona, "feudale" o "baronale" se
posseduta dai feudatari che, in questo caso, ne disponevano liberamente per la
vendita o l'acquisto, come una merce qualsiasi.
Abbiamo poi i "fuochi" istituiti
da Alfonso I d'Aragona nel marzo del 1443. Un "fuoco" era un nucleo
familiare cui veniva imposta una tassa di 10 carlini, il "focatico".
Nello stesso tempo il re aragonese inventò anche un nuovo metodo di prelievo
fiscale creando il catasto che doveva
essere aggiornato di anno in anno riportando il valore, espresso in once, sia
dei beni che di lavoro.
La numerazione dei fuochi doveva essere
fatta ogni tre anni da ufficiali dipendenti della Regia Camera della Sommaria,
istituita nel 1444, supremo organo burocratico-finanziario, ma anche
giudiziario ed amministrativo.
Nel 1447, pur fra tante difficoltà, si
ebbero i risultati della prima numerazione, nel 1507 la periodicità triennale
fu portata a 15 anni, nel 1737 sarà abolita da Carlo di Borbone.
Di particolare importanza per il nostro
assunto resta la numerazione fatta da Carlo Leclerc(5) su ordine di Carlo V nel
1521. L'autore, a conclusione del suo incarico, scrisse un resoconto molto
dettagliato dello stato del Regno, compilando un elenco di tutti i centri
abitati con l'indicazione relativa del numero dei fuochi e, a parte, un altro
elenco delle famiglie di Schiavoni. Riportiamo in copia originale solo i fuochi
slavi presenti nell'Abruzzo Citra.
Nella zona compresa fra Lanciano e
Vasto, come si può vedere, abbiamo otto centri rurali, "Ville", di
popolazione di stirpe slava pari a 120 fuochi di cui 3 proprio di Castel bordyno.
Siamo nel 1521. Sette anni dopo, 1528, la
rilevazione per Villalfonsina dà 31 fuochi(6). Questa data è da tener per fermo
perché attesta l'esistenza di un piccolo villaggio di nome Villalfonsina
abitata da famiglie di stirpe albanese.
Il nome di Villa Alfonsina lo ritroviamo
ancora nel 1532 in un atto notarile. Infatti, proprio nel 3° volume dei
protocolli redatti dal notaio Angelo Macciocchino del distretto di Lanciano,
alla data 12 giugno 1532 possiamo leggere il seguente atto: "In banco
juris nundinarum Lanzani / Andrea Fontinero milite della Compagnia dell'I11°
Adelantato di Granata, costituisce suo procuratore don Francesco di Villa
Alfonsina milite della stessa Compagnia, per esigere qualunque somma dovutagli
per il suo servizio, da qualunque Università e persona"(7).
Fin qui appare chiaro che Villalfonsina sia
nata da una colonia di Albanesi; se, poi, sia nata anche ad opera di un
supposto Alfonso d'Avalos dobbiamo vedere. Lo facciamo richiamandoci ad alcuni
dati certi relativi alla storia di quegli anni.
La dinastia dei d'Avalos a Vasto, è noto,
comincia con Innico II nel 1497 quando re Federico I d'Aragona gli conferì in
segno di riconoscenza il titolo di marchese per la coraggiosa resistenza
opposta ai francesi di Carlo VIII. Precedentemente il marchesato, fino al 1486,
era stato dei de Guevara, altra famiglia spagnola che aveva seguito l'avventura
del grande e magnanimo Alfonso d'Aragona nella sua conquista del Regno di
Napoli.
I vastesi, per la verità, non accolsero con
particolare entusiasmo il nuovo arrivato anzi, come scrive il Marchesani,
"L'Università nostra fortemente spiaciuta che tanto di leggieri la
giustizia e i rinnovati privilegii suoi venissero conculcati, reclamò, mostrò
documenti, rammentò la fedeltà invariabile, e serrò le porte al novello
feudatario. Tutto però fu vano; Federico apparve di persona a Vasto:
l'autorevol presenza del Sovrano e 'l lampeggiare delle sue spade ne imposero
sì che nel 1499 la Università videsi astretto a tacersi, ad obbedire, e ad
accettare indulto dell'atto di ribellione sostenuta per due anni"(8).
Ad ogni modo, sempre fedele al suo re
Federico, Innico s'impegnò ostinatamente a difendere il Regno contro
l'incursione dei francesi. Sostenuto anche dalla presenza della sorella
Costanza, nel 1503 respinse l'assalto degli invasori da Ischia ma l'anno dopo
morì di peste, giovanissimo, senza neppure avere potuto godere della gioia per
la presa della rocca di Salerno per il suo re.
Ad Ischia nei primi giorni di agosto del
1501 si ritirò anche il re Federico a seguito della prova del tradimento
segreto stipulato dal re "cattolico", suo parente, con Luigi XII,
dopo l'onta dell'occupazione di Capua nel luglio del 1501 e la successiva presa
di Napoli. Il 6 settembre, profondamente sdegnato nei confronti del re
spagnolo, preferì consegnarsi ai francesi lasciando Ischia per riparare in
Francia. Prima di partire lasciò l'isola in feudo ad Innico quale ricompensa
per la sua fedeltà alla causa spagnola e alla sorella Costanza il ducato di
Francavilla. Tre anni dopo morì a Tours il 9 settembre, attorniato da pochi
fedelissimi fra i quali il devoto Jacopo Sannazzaro.
Con lui si estinse nel regno di Napoli anche
il casato di Trastamara di Alfonso d'Aragona il Magnanimo. Per tutto il Regno,
guerre e rivolte a parte, è stato certamente un grande momento di civiltà.
Quanto Vasto, poi, debba alla presenza aragonese, possiamo riscontrarlo
prestando fede ai tanti Capitoli ad essa riservati nel corso degli anni dai
vari re che si sono succeduti nel governo delle province napoletane.
Già Alfonso I il 1° luglio 1442,
riconfermando tutti i privilegi precedentemente concessi, "Dippiù consentì
che niun Magnate o Barone potesse giammai possedere beni stabili di qualsiasi
titolo nella terra e nel distretto di Vasto"(9) e nel febbraio del 1450
esentò dal pagamento di dazi tutte le merci del territorio che passavano nel
suo porto. Successivamente Ferdinando I
non solo riconfermò questo provvedimento ma dal Castel nuovo di Napoli il 25
aprile 1465 aggiunse ancora le seguenti grazie, franchigie ed immunità: "-
1. Conservarsi Vasto mai sempre in regio demanio. - 2. Continuar Vasto nel
possedimento delle Dogane, de' Fondaci, delle Gabelle di carne e di altro. - 3.
Promette il re d'interporsi, onde il Conte di Monteodorisio non mova ulteriori
litigii a Vasto pe' disabitati e ruinati casali di Penna, Salavento e
Castiglione posseduti dalla Università. - 4. Assolve la Università dal
pagamento delle collette e delle imposizioni generali e speciali, ch'ella si
trovasse dovendo al re per quel tempo, in cui la Università fu sotto la
tirannia di Antonio Caudola. - 5. Concede indulto per ogni delitto, ancorchè
fosse di lesa maestà. - 6. Ordina che il Capitano della terra di Vasto e non
altri conosca e giudichi in cause civili e criminali de' Vastesi; che questi
non possano esser chiamati in prime cause innanzi a Giudice fuori la terra di
Vasto; ed ancorchè il mandato venisse dal re, non sieno tenuti di obbedire. -
7. Il Capitano regio sarà mutato in ogni anno: la Università gli darà per
provvisione annuale once venti di carlini sopra qualunque sua entrata, giacchè
a pro di lei debbono andare i proventi da' forestieri e da' cittadini. - 8. Il
re annulla ogni promessa e concessione, che per avventura si trovasse aver
fatta sulle cose della Università. - 9. Autorizza la Università e i cittadini a
rinfrancarsi su i beni di Antonio Caudola per ciò che costui e Restayno possono
aver tolto loro, o restassero a pagare. - 10. Vieta ad Antonio Caudola, a M.
Restayno ed a' loro successori l'abitare e il possedere beni in Vasto. - 11. La
Università e i cittadini non sieno tenuti a risarcimento per la rovina e 'l
saccheggio da essi apportati a' sospetti concittadini Bonifacio e Bernardo. -
12. Il re non potendo donare alla Università il chiestogli molino del Sinello,
le conferma l'antico dritto della decima sul frutto del molino. - 13. Consente
che in verun tempo nè Barone, nè Signore, specialmente aderente a Caudola,
possa abitare nella terra di Vasto. - 14. Fa grazia alla Università ed agli
uomini di essa di non esser tenuti, come non lo furono pe' tempi passati, a
spesa per qualsivoglia uffiziale, nè a portar acqua, erba, paglia, strame,
legna, lettere, catene, nè a pigliare e guardar persone, nè ad alcun'altra cosa
straordinaria, escluse le collette generali, e le funzioni fiscali
ordinarie"(10).
Per difendere la propria relativa
indipendenza di città demaniale, il popolo vastese, come abbiamo accennato, per
ben due anni impedì che il nuovo marchese prendesse possesso della città. La
ribellione cessò soltanto al cospetto dello stesso re Federico che il 26
febbraio 1499 proclamò dei Capitoli in cui "Conferma ogni grazia,
immunità, franchigia, ed esenzione, che la Università trovasi di godere",
"Annulla le confische fatte per l'atto di ribellione commesso nel negarsi
il possesso di Vasto ad Innico d'Avalos" garantendo che "Innico
d'Avalos rispetterà tutt'i privilegii, immunità, grazie, franchigie, ed
esenzioni, di cui la Università è in possesso" ed infine che "Il re
presta assenso alle grazie che Innico sarà per concedere alla
Università"(11).
Per tutta risposta il neomarchese per
accattivarsi le simpatie dei vastesi ribelli il giorno dopo, 27 febbraio, dettò
dei Capitoli in cui, fra l'altro, "Egli dà ampio indulto, a tenore de'
capitoli di Federico di Aragona dianzi riferiti, - Accetta i mentovati capitoli e conferma
tutt'i i privilegii, - Tratterà bene i vastesi come fece Innico de Guevara, -
Conferma la donazione del molino nel Sinello fatta da re Ferrante II" ed
anche la promessa e l'impegno che "Potranno i Marchesi restaurare il
castello quasi demolito, o innalzarne un nuovo, ma senza pagamento ed angaria
de' Vastesi"(12).
In sostanza, sotto gli Aragonesi la città di
Vasto ed il suo territorio erano stati sgravati da ogni carico fiscale,
beneficiati di tutti i vantaggi tratti dalla potenzialità della libertà di
traffico e, soprattutto, assicurati dalla correttezza praticata dai pubblici
funzionari.
Purtroppo il neomarchese, ligio al suo
dovere anche di uomo d'armi, dovette lasciare il suo sospirato marchesato dove
mai aveva vissuto per non tornarvi mai più. Lasciò suo figlio Alfonso,
fanciullo di appena due anni avuto dalla moglie Laura Sanseverino figlia di
Roberto principe di Salerno, sotto la tutela della sorella Costanza,
principessa di Francavilla. Erede di tutti i beni del padre, già nel 1504
ricevette dallo stesso Ferdinando il Cattolico l'investitura del feudo di
Vasto.
Orfano del padre, insieme alla sorella
Costanza ed il cugino quattordicenne Ferrante Francesco, il futuro sposo di
Vittoria Colonna, crebbero ad Ischia amorevolmente educati dalla zia Costanza.
Il Castello dell'isola d'Ischia
rappresentava per tutti un luogo estremamente sicuro. Ristrutturato a vero
baluardo di difesa da Alfonso d'Aragona nel 1443, nel 1503 era stato salvato
dall'assalto delle galee francesi dall'eroica resistenza opposta da Costanza
che per questo ottenne in compenso da Ferdinando il Cattolico, con privilegio
del 10 marzo, il governo a vita dell'isola.
Nel tempo era diventato anche centro di
cultura umanistica e simbolo fastoso della nobiltà per la presenza di
nobildonne affascinanti, poeti ed uomini di cultura.
Giovanissimo, si arruolò nelle file del
cugino marchese di Pescara Ferdinando Francesco e da allora in poi consumò la
sua vita sui campi di battaglia divenendo uno dei più grandi condottieri del
suo tempo, come ben testimoniarono le celebrazioni magnificate dall'Ariosto,
dal Guicciardini, dal Tiziano. Oberato da tanti impegni e pressato dal peso
della responsabilità per tante occupazioni, visse di fatto sempre lontano dal
suo feudo abruzzese. A Vasto ritornò una sola volta nel 1521 per riconfermare
il primo luglio tutti i Capitoli dei privilegi concessi dai suoi predecessori.
Il 26 novembre del 1523 sposò la cugina Maria d'Aragona figlia di Ferdinando
d'Aragona, duca di Montalto. Fu governatore di Milano dal 1538 al 1546 ma,
abbandonato alla fine dall'Imperatore, morì il 31 marzo 1546 a Vigevano
frastornato da tanti rimpianti ed amarezze.
Al punto in cui siamo arrivati ci sembra
molto improbabile che questo Alfonso della dinastia dei d'Avalos, immerso fino
al collo nelle vicende politiche e militari del suo tempo, possa essere stato
il 'padrino' di Villalfonsina. Anche volendo, gli sono mancati i tempi e i modi
per aggraziarsi la benevolenza degli immigrati schiavoni e guadagnarsi la
riconoscenza di poter dare il nome 'Alfonsina' alla Villa nascente. Dobbiamo
allora pensare a qualche altro Alfonso che abbia saputo meritarsi l'onore di
questo nome di battesimo. E questi non può che essere Alfonso I d'Aragona il
"Magnanimo" per la sua estrema magnanimità riservata all'accoglienza
e al sostegno delle condizioni benevoli di insediamento per tutte le etnie
sfuggite all'aggressione turca. Inoltre, come abbiamo riportato, dobbiamo anche
tener conto dell'effetto compiacente prodotto da tutti i privilegi concessi
alla popolazione di Vasto da parte della discendenza aragonese che certamente
avevano contribuito a creare un clima di gratificazione morale nei confronti
della memoria del sovrano aragonese.
Tuttavia, la Villa era nata di fatto sul
territorio dell'Università di Casalbordino. La convivenza, per la verità, da
subito non fu affatto felice. Il diritto su parti del territorio, la libertà di
pascolare, di raccogliere le ghiande e di 'legnare' costituirono presto
accanito oggetto di controversia e discordia. A proprio favore la giovanissima
comunità di Villa Alfonsina ebbe però l'appoggio determinante di Felice Alfonso
d'Avalos, IV Marchese di Vasto, che nel 1582 impose all'Università di
Casalbordino di donare a Villa Alfonsina i diritti "di pascere, legnare ed
acquare in tre selve dette Ripari, Gavone, Coste e Piane di S.
Savino"(13). Questa data, ebbene, ha segnato inoltre il riconoscimento
giuridico dell'autonomia amministrativa del nuovo insediamento urbano. Ma
questo fatto è cosa ben diversa dall'aver dato il nome ad un paese che già si
chiamava Villa Alfonsina.
N
o t e
(1)
N. De Sanctis, Villalfonsina, da quando?,
in "Rivista Abruzzese", 2012, n. 3, pp. 246-250 e N. De Sanctis, Villalfonsina, prima e dopo. Un racconto
sospeso. Rivista Abruzzese, Lanciano 2012. (2) Ibidem, pp. 34-35. (3)A. L. Antinori, Raccolta di memorie istoriche delle tre provincie degli Abruzzi, G.
Campo, Tomo III, Napoli 1782, p. 374. (4) D. Romanelli, Antichità storico-critiche sacre, e profane esaminate nella Regione de'
Frentani. Opera postuma dell'Arcivescovo di Lanciano e poi di Matera D.
Antonio Lodovico Antinori, Ristampa anastatica, Editrice Rivista Abruzzese,
Lanciano 2008, p. 477. (5) N. E Sanctis, I
"fuochi" dell'Abruzzo citra conteggiati da Carlo Leclerc nel 1521, in
"Rivista Abruzzese", 2014, n. 1, pp. 57-61. Vedi Capitolo 2°. (6) F.
Lalli - L. Lucarelli, Il cammino di una
comunità locale, Marino Solfanelli Editore, Chieti 1992, p. 427. (7)
Regesti Marciani, Fondi del notariato e
del decurionato di area frentana (Secc. XVI - XIX), a cura di Corrado
Marciani, N. 7/I, L. U. Japadre editore, L'Aquila 1987, p. 33. (8) L.
Marchesani, Storia di Vasto, Amministrazione
Comunale, Vasto 1982, p. 29. (9) Ibidem, p.
99. (10) Ibidem, pp. 99-100. (11), Ibidem, p. 101. (12) Ibidem, pp. 101-102. (13) F. Lalli - L.
Lucarelli, Il cammino..., op. cit.,
p. 427.
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